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Bluem: “La felicità è effimera, meglio la fortuna” – Intervista esclusiva

Bluem
Nou è il nuovo album della cantautrice Bluem, al secolo Chiara Fortis. Giovane cantautrice e produttrice sarda di stanza a Londra, Bluem conferma le sue doti già mostrate in Notte e si racconta in esclusiva e in maniera inedita, intima, a TheWom.it.
Nell'articolo:

Che la musica di Bluem fosse introspettiva, evocativa e potente lo avevamo capito sin dal suo primo album, Notte. Nou, il suo nuovo progetto uscito a maggio (peermusic ITALY), non fa che darcene la conferma catapultandoci con le sue raffinate trame elettroniche e ancestrali in una dimensione fuori dallo spazio e dal tempo.

E forse Bluem fuori dallo spazio e dal tempo lo è davvero con quel mix di suoni che guardano alla Londra in cui da tempo vive ma che riecheggiano anche la tradizione della sua Sardegna in maniera ora consapevole ora inconscia. Ma lo è anche per quella determinazione con cui crede nel femminile e nella femminilità, in qualunque modo siano vissuti. Non è un caso che nel corso di questa intervista, più che raccontarci del viaggio onirico di dieci tracce regalato da Nou e fatto di incontri con personaggi antichi, tragici e fiabeschi, in ambienti selvaggi, Bluem si lasci andare a più di una confessione sul suo percorso sia artistico sia intimo.

Dal suo difficile rapporto con la felicità al legame con la vena creativa della sua famiglia, Bluem si svela in maniera inedita non tralasciando le difficoltà che ha dovuto incontrare per far valere da donna la sua arte e il suo lavoro in un ambiente che, al di là delle buone intenzioni, paga ancora lo scotto di un patriarcato che fatica a essere debellato. Non è difficile intuirlo ed è uno dei motivi che l’hanno portata a cercare la collaborazione di tante donne reali per gli aspetti non solo musicali di Nou: la violinista e compositrice Adele Madau, Yasmina, Francine Perry, Valeria Cherchi e Ida Lissner.

Riscatto, dolore, complicità e rivalsa personale non sono per Bluem solo termini da comunicato stampa. Sono le basi su cui si poggia il suo credo e la sua personalità. E convivono anche con la voglia di mettersi in gioco di una giovane donna di oggi con la sensualità della pole dance.

Bluem.
Bluem.

Intervista esclusiva a Bluem

“In questo momento sono a Milano, la uso come luogo di passaggio tra la Sardegna e l’Inghilterra quando devo muovermi per dei concerti”, mi risponde Bluem quando le chiedo dove si trovi in questo momento, sapendo che da più di dieci anni vive a Londra. “Sarebbe scomodo da un punto di vista logistico spostarsi da Londra per ogni data… anche se, il primo anno in cui mi ero trasferita, l’ho fatto, rendendomi conto di quanto fosse svantaggioso sotto troppi punti di vista”.

Nou è il tuo ultimo lavoro. Cosa significa il titolo?

Nou è una parola sarda che vuol dire “nuovo”, so che anche in catalano ha lo stesso significato ma, come sappiamo, noi sardi abbiamo molte parole in comune con il catalano. L’ho scelta come titolo ancor prima che iniziassi a scrivere il disco o a lavorare a qualsiasi sua parte. Stavo attraversando un periodo di depressione dopo il mio lavoro precedente, Notte, che aveva inevitabilmente creato delle aspettative nei confronti di ciò che avrei pubblicato dopo. Ero, quindi, sopraffatta anche dall’idea di cosa la gente volesse o dalle pressioni delle persone che stavano investendo nel mio progetto.

Un giorno, mentre ero piena di tali pensieri e mi dicevo che qualunque cosa avrei fatto sarebbe stata guidata dal mio istinto, ho pensato alla parola “nuovo”: da sempre, ancor prima di aver un pubblico per la mia musica, il mio obiettivo è stato quello di cercar qualcosa di nuovo, di non ripetermi e di non farlo per nessuna ragione se non per la mia voglia di crescere con la musica. Ricercare per me significa anche andare avanti, non far mai la stessa cosa ed evitare di ripetersi all’infinito.

Nou è figlio dell’incrocio di due mondi differenti: la musica elettronica e le tue origini sarde. Come fanno a convivere tra loro due mondi così diversi e lontani?

Per me, è naturale che convivano. Fino ai 18 anni, ho vissuto in Sardegna e non ho mai abitato da nessun’altra parte. Provengo da una famiglia che ha un certo legame con la terra: mio padre è originario di un paese molto piccolo, Arbus, ed io trascorrevo i miei fine settimana tra quel paese e la campagna.

Con la mia terra d’origine ho sempre avuto un rapporto di amore e odio. Ovviamente, quando sei adolescente, speri di esplorare luoghi più grandi, soprattutto se sei originaria di un posto del genere: ero un po’ annoiata dalla Sardegna e non mi rendevo conto del valore intrinseco che avesse anche per me. E, quindi, ho maturato la decisione di trasferirmi direttamente a Londra, in una realtà che era l’esatto opposto della mia. E non nego che è stato abbastanza traumatizzante.

Superate quella prima fase, Londra per me è diventata una seconda casa. E, dunque, è come se avessi vissuto due vite che ora collimano e danno i loro risultati: da Londra mi porto la musica elettronica e tutte le altre influenze mentre guardo in maniera nostalgica alla Sardegna. Guardo a entrambe le esperienze, anche se non mi aspettavo che le origini sarde si sentissero così tanto in musica: a volte, è molto meno intenzionale di quanto si pensi.

Qual è la prima cosa che hai pensato quando sei arrivata a Londra, al di là della grandezza e del caos della metropoli?

Ho pensato a quanto diverso fosse il ritmo. In Sardegna, è tutto lento: le persone si muovono con molta più calma. Quando mi sono trovata catapultata a Londra vedere la gente sfrecciare mi sono adeguata anch’io: ogni volta che torno a casa e faccio una passeggiata con mia madre, mi ritrovo sempre a 200 metri più avanti di lei!

Tuttavia, inizialmente il ritmo diverso mi ha sopraffatta e mi ha messo addosso anche un po’ d’ansia: tutto si muove molto velocemente e le vite delle persone si incrociano con la stessa rapidità con cui poi non ci si vede mai più. È molto diverso rispetto ai legami che si possono creare in Sardegna: pensavo che lo stesso avvenisse anche a Milano ma, nonostante sia considerata la città più europea d’Italia, alla fine sembra che tutti conoscano tutti, almeno nell’ambiente creativo in cui mi muovo io.

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Nou è composto da dieci canzoni che rappresentano un inno alla femminilità. Tra i riferimenti in Moonlight c’è quello alla figura leggendaria delle Janas, legate alla tradizione sarda. Le Janas potevano essere sia fate sia streghe. Qual è la dimensione più affine alla tua?

Come loro, penso di stare nel mezzo. Per me, le Janas sono una grande rappresentazione del popolo sardo in generale proprio perché vivono tra due estremi, come se non ci fosse una via di mezzo. È una forma mentis che appartiene molto ai sardi: anche se estremamente diffidenti all’inizio, superato lo stallo sono in grado di concedere fiducia in maniera esagerata. Ma mai tradire la fiducia: come le Janas, pensiamo alla vendetta o al modo di farla pagare. Siamo contraddistinti da testardaggine ma anche estrema bontà e generosità senza limiti.

Personalmente, mi identifico molto nel carattere tipico sardo. Chi mi circonda lo riconosce: so essere estremamente scontrosa, quasi sul piede d’attacco, ma so anche voler molto bene a chi ho intorno. È il mio modo di essere: tengo molto ad esempio al mio team, cerco sempre di assicurarmi che tutti stiano bene e che a nessuno manchi ciò di cui ha bisogno, ancor prima di prendere in considerazione me stessa. Ma, se si crea qualche tensione, sono sempre la peggiore!

Cos’è per te la femminilità?

È qualcosa di estremamente soggettivo: ognuno la vive a modo proprio. Ed è giusto che sia così. Per me, ed è quello che ho cercato di trasmettere con l’album, è un elemento di forza che spesso viene oppresso in qualche modo o si cerca di farlo. Ho vissuto in prima persona, soprattutto in ambito creativo, l’abitudine inconscia a screditare il lavoro creativo di una donna o, comunque, a non attribuirgli il giusto valore o peso.

Per Nou ho fatto un lavoro di ricerca su personaggi femminili che portavano avanti ribellioni o che avevano caratteristiche che non piacevano molto alle società che hanno sempre voluto categorizzare la donna. Oggi si fanno tante lotte per combattere la disparità di genere ma si creano anche grandi contrasti. Il politically correct cerca di dare spazio alle donne: in alcuni casi, il risultato è molto positivo ma, in altri casi, si trasforma in un mettere le donne in una sorta di “cassetto” a parte, in uno spazio apposito in cui possono essere citate, menzionate e celebrate. È un contentino, no?

Succede, ad esempio, proprio nelle piattaforme musicali. Anziché mettere il lavoro creativo di un uomo e di una donna sullo stesso piano com’è giusto che sia per creare anche quella sana competizione tra un progetto e l’altro, nascono separazioni nette per cui si creano playlist di sole artiste donne, costrette a scannarsi a vicenda. Sono pensate per mettere in luce il lavoro delle artiste ma, secondo me, sono solo un modo per dire che l’hanno fatto.

Vivo poi in prima persona un altro aspetto di disparità. Sono anche produttrice dei miei brani ma è qualcosa che non viene nemmeno presa in considerazione. Notte ha rappresentato la mia prima vera sfida come produttrice ma mi sono fatta aiutare da un mio amico di sempre, il cui nome compare ovviamente nei credits: ha fatto più altro da supporto tecnico perché non avevo ancora piena conoscenza dei mezzi per portare a termine il lavoro da sola. Creativamente, però, il suono era il mio. Ad album uscito, ho cominciato a ricevere una marea di messaggi di complimenti a me e al mio produttore, così come a leggere articoli che parlavano della produzione di Simone D’Avenia, senza mai menzionare che avevo in realtà prodotto io il disco.

Mi ha fatto molto avvelenare il sangue. Penso che in Italia ci sia ancora un forte bisogno del punto di vista femminile e di avere anche donne nel mondo della produzione: da donna mi ritrovo in studio con uomini e spesso e volentieri sono in soggezione per via del loro atteggiamento, non so se inconscio o meno, paternalistico.

E, anche quando ho cominciato la produzione di Nou, che per le ragioni dette volevo realizzare da sola, mi sono resa conto di quanto fosse limitante per me dire “non cerco nessuna collaborazione” solo per dimostrare di saper produrre. Ho cercato allora chi potesse lavorare al mio fianco ma un paio di volte la risposta delle persone che ho contattato è stata: “Ma non è che quel ragazzo che ha lavorato su Notte si arrabbia? Non devo parlare prima con lui”. Come se io fossi di proprietà di Simone… qual è la logica dietro a ciò se non quella che si pensi che il mio progetto è di proprietà di qualcun altro? Lo trovo estremamente tossico come pensiero.

In un Paese in cui non si crede nelle competenze delle donne occorre, purtroppo, puntare sempre sull’autoderminazione e sull’essere se stesse, senza nascondere nulla. In Angel, canti “nel buio di sempre ho perso la luce”, una metafora usata per indicare uno stato da te vissuto.

È un testo che è nato in maniera molto istintiva e che, quindi, non so spiegare neanche io bene. Conoscendomi, da sempre tendo ai pensieri negativi o al pensare troppo. E il pensiero eccessivo non porta mai a buone conclusioni se non al vivere periodi di depressione, durante i quali mi interrogo anche sul significato della vita spesso. In quei vortici infiniti, non riesco a darmi risposte (non è umano farlo) e calo nel buio più totale.

Quando vivo quei giorni, sono le persone che mi stanno intorno che riescono a farmi sentire viva e a farmi vedere la vita nella maniera più positiva possibile: sono fondamentali, sono dei veri e propri angeli custodi che mi proteggono dai pensieri più scuri. La canzone parla proprio di questo e dalla separazione da loro.

Ed è per tale ragione che in Gold sostieni che sopravvivi anche se il tuo carattere non piace?

È una provocazione. Come accennavo, sono una persona con un carattere molto forte e ciò non sempre viene ben visto o è accettato. Ma, nonostante ciò, io vivo lo stesso. Della serie, “non mi interessa proprio se a te non piaccio”: è finita l’epoca delle donne che devono fare, sorridere e accettare qualsiasi cosa. Non ha mai fatto parte di me rispondere a tale logica: dico sempre quello che penso e non mi preoccupo. Non mi interessa risultare scomoda per le giuste ragioni.

Nonostante ciò, c’è qualcosa che non mi torni. Ho notato una certa insicurezza, soprattutto in amore. In Piano Song, ti sento cantare “tu sei meglio di me”.

Non è per niente insicurezza, anzi. L’obiettivo di quel brano era proprio quello di mettere in evidenza cosa fare quando ci si ritrova in una relazione tossica… ed io ho avuto grandi esperienze di rapporti tossici con uomini. Soprattutto, negli ultimi anni, mi è capitato di vivere un rapporto molto tossico in cui l’altra persona era anche molto manipolatrice. Mi sentivo come se avessi dovuto dare sempre di più, come se non fossi mai abbastanza. Capita a molte donne di sentirsi sminuite ma ricordiamoci che un modo di fare che certi uomini hanno per tenerle legate a loro e sotto controllo.

Per come sono fatta, non credevo di poter rimanere mai vittima di certi comportamenti e, invece, mi è successo. Fortunatamente, ho anche incontrato persone molto positive per la mia crescita, per cui mi è capitato di pensare che fossero migliori di me non in senso negativo… persone che mi hanno dato la possibilità di essere me stessa e di crescere anche al di là di certi traumi.

Nel sentir parlare di rapporti tossici, una domanda sorge sempre spontanea. Quando hai realizzato che quello che vivevi era un rapporto tossico?

C’è stato un evento in particolare che ricordo ancora ora. Lavoravo con la persona in questione e, mentre ero al lavoro, mi è stata negata l’ennesima richiesta senza alcuna ragione per farlo. Lavoravo in un bar e, approfittando dell’assenza di clienti, avevo chiesto di uscire un attimo per comprare qualcosa che mi serviva. Non c’era, ripeto, nessuna ragione logica per cui mi vietasse di uscire ma solo il desiderio di negare la mia richiesta tout court. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

Se vogliamo, si tratta di una piccola cazzata ma che per me ha assunto un significato molto forte: in quel momento, quella persona mi stava impedendo di soddisfare una mia esigenza perché aveva il potere di farlo e non perché non ci fosse la possibilità per me di fare quella cosa. E, quindi, stava abusando del proprio potere su di me non solo da un punto di vista lavorativo ma anche e soprattutto da un punto di vista sentimentale e relazionale. Quella volta sono andata in cucina e ho iniziato a esplodere di pianto… un pianto isterico e nervoso. Ed è in quel momento che ho detto basta.

Scagliandomi contro di lui, gli ho anche urlato che odiavo gli uomini, proprio perché credono di poter essere padroni di tutto, in special modo delle donne. Era un comportamento che avevo visto applicare su me stessa mille volte nel corso degli anni che avevo lavorato in quel locale e che avevo avuto una relazione con quella persona. Sono sempre stata eterosessuale ma ho pensato veramente di non volere più avere a che fare con gli uomini: non volevo dare a nessun altro la possibilità di andare oltre con me. Poi, per fortuna, sono subentrate nella mia vita persone che mi hanno fatto ricredere.

Nasce da quest’esperienza la “voglia di cambiare cognome” cantata in un verso di Moonlight?

È una frase di Yasmina, che nella strofa sua ha reinterpretato a modo suo la storia di cui volevo parlare io. Yasmina ne ha colto un altro senso in base alla sua sensibilità: ha un personale diverso dal mio e da sempre combatte molto per i diritti queer e delle donne nere. Nel suo modo di scrivere ci sono sempre più strati.

Nel tuo processo creativo ha grande importanza la pole dance. Che ruolo occupa?

Ho cominciato a praticare pole dance un po’ di anni fa. Era il periodo dei rapporti tossici e sentivo la grande esigenza di fare qualcosa per me stessa e, comunque, di dedicarmi del tempo anche per fare movimento fisico, qualcosa che per un periodo avevo messo da parte. Avevo visto un video di Willwoosh e avevo notato come nella palestra in cui era stato andava a praticare pole dance qualsiasi tipologia di donna, senza limiti di fisicità o background. In un certo senso, quel video mi ha incoraggiata: non era uno sport per chi aveva fatto atletica o danza in precedenza. E ho deciso di iscrivermi.

A Londra, ci sono molte palestre in cui si pratica pole dance: è una disciplina molto più praticata che in Italia e per me è diventata un po’ una dipendenza. È come se avessi qualcosa di simile alla sindrome di Stoccolma: la pole dance mi ammazza perché richiede molto sforzo sia fisico sia mentale ma non posso starne lontana. È uno sport estremamente bello da vedere e può essere fatto in mille modi diversi: ognuno di noi – donna, uomo o appartenente a qualsiasi genere identitario – ha uno stile diverso e questo lo rende non solo unico ma anche uno degli sport più inclusivo che io abbia mai praticato nella vita. Per me è stato molto importante perché mi ha dato coraggio e disciplina.

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In Nou, c’è una canzone che si chiama Dear che racconta il drammatico incontro con un cervo all’alba.

È un episodio che è accaduto davvero la scorsa estata. Stavo tornando da un matrimonio in Sardegna con un gruppo di amiche e cugine quando per le strade di campagna ci ha fermate un uomo dicendoci che c’era un cervo in difficoltà e che lui doveva andare via per questioni di tempo. Solo dopo ci siamo rese conto che probabilmente doveva andar via per non assumersi nessuna responsabilità…

Abbiamo trovato quest’esemplare di cervo femmine impigliato alla rete tra una parte e l’altra della strada. Si lamentava e noi né avevamo idea di come aiutarlo né avevamo gli strumenti con noi per tagliare la rete. Era un esemplare molto forte e grosso, non potevamo neanche stargli troppo vicino. Abbiamo provato anche a chiamare alle 5 del mattino la forestale, che ci ha rimandato ai carabinieri. Morale della favola, nessuno ci ha aiutate e il cervo è morto. Doveva andare male ed è andata male.

La morte di quel cervo è stata per me un’esperienza molto forte per cui ho pianto più di una settimana. Intanto, perché non mi era mai capitato di veder morire davanti a me un essere vivente così grande. E poi perché da sempre ho un rapporto speciale con gli animali… la canzone è nata di getto ed è stato un ulteriore contributo alla femminilità narrata nell’album: quando è accaduto l’episodio, pensavo anche agli ipotetici figli che l’avrebbero cercata. Non potevo non empatizzare con quella possibile madre.

A cosa di deve lo speciale rapporto con gli animali?

Sono cresciuta in mezzo agli animali, soprattutto alle capre, che adoro: le ritengo animali intelligentissimi e dolcissimi. Mio padre stesso ne possiede 15 anche se non le cura lui personalmente. Ma nella mia famiglia abbiamo avuto tanti di noi che sono stati a stretto contatto con gli animali: un cugino di mia madre era un fantino, ragione per cui abbiamo i cavalli, mentre un mio zio ha vissuto per undici anni come un eremita, con animali sempre intorno. Poi abbiamo sempre avuto cani, di cui molti salvati… vado pazza per i cani!

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Come hanno reagito i tuoi genitori quando hai detto loro che avresti fatto la musicista?

Mi hanno lasciata libera di farlo proprio perché in famiglia abbiamo già avuto vari casi bizzarri. Il mio bisnonno materno era un politico sardo molto importante. Da lui è nata mia nonna, una donna ribelle che faceva impazzire tutti in una famiglia in cui tutti si davano un tono in un certo senso. E da mia nonna sono nati sette figli, tra cui lo zio eremita e un altro che è sempre in giro in barca a vela.

I miei genitori non avevano alcuna aspettativa né su di me né su di mia sorella, non ci hanno mai messo addosso la pressione di dover essere qualcosa di diverso da quello che eravamo. È stata la più grande fortuna della mia vita, soprattutto alla luce delle esperienze di alcuni miei amici le cui aspirazioni sono state contrastate in tutti i modi.

Nonostante i miei non appartenessero al mondo delle arti (mio padre strimpellava la chitarra ma alle feste di famiglia), sia io sia mia sorella facciamo parte dell’industria creativa: lei fa cinema. la filosofia dei miei è sempre stata quella di dire che se porti un figlio a far qualcosa che non vuole, sicuramente non avrà successo in quel qualcosa e, se lo avrà, sarà estremamente infelice.

L’ho sentito dire a mio padre mille volte nelle conversazioni con altri genitori che gli chiedevano come faceva a credere in noi figlie e nei nostri sogni. A me dicevano ad esempio che voler far musica era una follia al pari dell’assecondamento dei miei genitori, a cui è sempre interessata solo la nostra felicità.

E tu sei felice?

Non penso di avere una tendenza alla gioia, alla solarità e alla felicità. La felicità è secondo me una condizione molto effimera: non è perpetua ed è giusto che sia così. Io invece sono molto consapevole della fortuna che ho avuto nel nascere nel posto in cui sono nata e in cui oggi mi ritrovo e nell’avere una famiglia che ha supportato la mia scelta inusuale nonostante non si avessero chissà quali mezzi. Mi ritengo molto fortunata nell’essere stata destinataria di grandi atti di fiducia.

Bluem.
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