La cantautrice Cara, nome d'arte di Anna Cacopardo, ha da poco pubblicato il nuovo singolo Verso Casa, un brano che si addentra nelle intricate dinamiche della quotidianità e delle emozioni urbane. Ragione, per cui nell'intervistarla in esclusiva, Cara si apre riguardo l'ispirazione dietro il brano, esplorando temi di rifugio, sicurezza emotiva, e il ritorno alle origini che il concetto di "casa" evoca per lei. Da un'infanzia segnata dal suo carattere ora introverso ora espansivo alla consapevolezza adulta e la maturazione artistica, Cara descrive il suo viaggio personale e professionale come un continuo ritorno verso se stessa, un viaggio che non solo la definisce come artista, ma che ha influenzato profondamente il suo stile musicale e lirico.
Verso Casa non è solo un brano, ma un viaggio emotivo che riflette la ricerca di un ancoraggio in un mondo che spesso sembra perdere i propri contorni. Cara condivide le sfide e le vittorie del suo percorso, dai suoi esordi fino al successo del suo singolo Le Feste di Pablo con Fedez e oltre, evidenziando come ogni passo la porti più vicino a quella sensazione di "casa" che per lei risiede nella musica e nell'espressione creativa. Durante l'intervista, la cantautrice approfondisce il significato di resilienza, trasformazione e identità attraverso le lenti della sua arte, offrendo una finestra sulle dinamiche personali e creative che definiscono il suo essere artista nel panorama musicale contemporaneo, senza tralasciare un tema che ha profondamente a cuore: la manipolazione emotiva.
Intervista esclusiva a Cara
“Verso casa è una canzone che, come suggerisce il titolo, mi ha davvero riportata a casa”, esordisce Cara quando le chiedo da quale esigenza sia nato il suo ultimo singolo. “Ripercorro varie fasi della mia vita e del mio percorso personale sotto diversi punti di vista. Tra l’altro, è nata in un momento quotidiano ben preciso; ero impegnata a far la pasta o qualcosa di simile, ho guardato fuori dalla finestra e mi sono vista da bambina, in mezzo a una Milano impazzita: nonostante la pioggia in testa, non sentivo i tuoni. Un’immagine che ben rappresenta il mio approccio alla vita sin da quando ero piccola. Il ritorno verso casa non è altro che la voglia, anche inevitabile, di ritornare a quella me bambina che guarda ancora a tutto con stupore”.
Cosa vuol dire per te la parola “casa”?
A costo di sembrare banale, per me la musica è casa: da sempre, è strettamente connessa a chi sono e a quello che ho sempre voluto diventare. Le canzoni che ascoltavo sin da bambina e che mi hanno formata hanno avuto a che fare da sempre con l’anima e con quella parte di me che ho cercato sempre di preservare e mantenere incontaminata. Quindi, casa è più che altro uno stato d’animo e non un luogo fisico.
Chi era quella bambina che correva con le sue trecce in testa di cui parli anche nella canzone?
Sono sempre stata un po’ tormentata dentro: quando riguardo i filmini di me piccolina, il mio sguardo è sempre perso nel vuoto. Non so se inconsciamente o se d’istinto, mi sono sempre chiusa nel mio mondo immaginario, un universo in cui l’immaginazione ha però molto a che fare con la realtà e che mi nutre tuttora tantissimo. Ero sicuramente una bambina nel paese delle meraviglie, in grado di alternare momenti in cui mi richiudevo nel mio guscio ad altri in cui subentrava l’esuberanza: amavo ad esempio stare su un palco per le recite scolastiche. Sono due lati di me che ancora oggi continuano a convivere.
C’era qualcosa che faceva scattare il cambio di atteggiamento?
I miei due lati erano sempre strettamente connessi: l’estroversione aveva comunque a che fare con il voler comunicare all’esterno il tormento che avevo dentro e si manifestava attraverso la creatività. Per indole, cercavo di tenere il mondo fuori a distanza da me: la musica era il mio rifugio dalle preoccupazioni o da ciò che mi feriva. Alcune situazioni che ho poi vissuto hanno fatto sì che mi rifugiassi sempre di più nel mio universo interiore.
Che situazioni?
Ne parlo apertamente perché è un tema che ho molto a cuore: ho vissuto sulla mia pelle e l’ho elaborato andando in terapia la manipolazione emotiva. È una ferita su cui ho lavorato e su cui sto lavorando: ha innescato in me dinamiche che ancora oggi mi portano ad avvertire un senso di colpa esagerato e immotivato. Se ne parla poco e spesso male: quella emotiva è una forma di manipolazione difficile da scovare e individuare che viene esercitata attraverso un sistema che dall’esterno non si percepisce: chi la subisce non si sente nemmeno legittimato a dire di esserne vittima.
Paradossalmente, ringrazio di averla vissuta perché altrimenti non sarei la persona che sono diventata oggi. Adesso ne riconosco tutti i segnali e so prevenirli ma quando sei piccolo o non l’hai vissuta si innescano meccanismi per cui si è portati a credere che il manipolatore agisca per il tuo bene: i suoi modi di fare sono così subdoli che in chi è più trasparente di altri attecchiscono subito. Ed io sin da piccola ho avuto una certa predisposizione all’essere trasparente: ero la vittima ideale ma col tempo ho capito che la colpa non era della mia vulnerabilità, ragione per cui non ho mai ricercato sovrastrutture o schermature. Ho imparato semmai a tutelarmi e a non lasciare che altri affondino il pugnale nella ferita.
È questa la ragione per cui canti nel brano “Anna non ti fare più del male”?
In quel verso c’è tanto dentro. È più legato al senso di colpa: ciò che ho vissuto ha fatto sì che mi puntassi anche il dito contro. Ma è anche legato all’aver imparato che sognare tanto nella vita può essere pericoloso: non ci si rende nemmeno conto di come si finisca dentro a un frullatore e non ci si conceda mai una pausa per goderti le cose della vita, anche le più semplici.
Si corre spesso per un sogno senza concedersi nemmeno il tempo di fermarsi per prendere quel respiro necessario a proseguire. E, in questo senso, anche per qualcosa di bello mi sono fatta del male: la vita è anche stare seduti su una panchina, mangiare un gelato e osservare ciò che si ha intorno… è quando l’ho capito che ho realizzato che mi stavo privando di qualcosa di fondamentale: ho una certa predisposizione a complicarmi la vita quando invece scendere sul pianeta Terra anche solo per un attimo mi farebbe bene.
Ha rappresentato il successo di Le feste di Pablo, il tuo singolo multiplatino con Fedez, una corsa affannata da questo punto di vista?
Ha rappresentato sicuramente l’inizio di un percorso tutto nuovo e molto più veloce rispetto a quello che avevo prima della sua uscita. In quel momento ho imparato tanto: il vivere determinate cose così rapidamente mi ha fortificata ma allo stesso tempo mi ha fatto vivere così tanti stimoli da sentire l’esigenza di volermi prendere un po’ di tempo per respirare. Dovevo far chiarezza in qualche modo.
Per ironia della sorte quasi subito dopo è venuto Lentamente.
La scrittura di quella canzone è figlia del momento storico che tutti quanti abbiamo vissuto, il lockdown e la bolla entro cui ci trovavamo sospesi.
Sei originaria di Crema: com’è stato per te, giovane musicista, crescere in quella città?
Ha avuto i suoi lati sia positivi sia negativi. Per via delle persone a cui sono legata, conservo dei bei ricordi: hanno fatto parte della mia crescita e non potrebbe essere diversamente. Dall’altro lato, avendo sempre fatto musica, avevo il desiderio di andare via perché mi sarebbe piaciuto vivere in una città molto più grande. Il contesto era un po’ stretto per cui, subito dopo la fine del liceo, sono partita per Milano andando incontro a realtà che non conoscevo ma che ero pronta ad apprendere e far mie. Avevo bisogno di andare via da Crema per fare musica ma ciò che lì ho vissuto a livello umano sarà sempre dentro al mio bagaglio.
Come ti ha accolta Milano?
In maniera molto graduale. Negli anni, ho visto tante Milano diverse a secondo delle fasi: all’inizio, mi sono sentita ospite, quasi estranea, e non è stato semplice, nonostante a me piaccia stare per i fatti miei e avere i propri spazi. Pian piano, però, la città ha cominciato ad aprirsi, le relazioni sono aumentate e ho cominciato a percepire Milano come casa: è stato bello cascarci dentro.
Ma, da giovane donna, qual è lo stereotipo maggiore con cui ti sei dovuta confrontare nel mondo discografico.
Il gender gap è ancora evidente. Sono stati fatti negli anni dei passi in avanti ma da donna si percepisce una certa pressione e lo si nota anche in ambito internazionale: per una questione di etichetta, non è permesso a noi artiste di apportare cambiamenti ad esempio alla nostra musica. Se ci proponiamo in un determinato modo, è dentro quel range che dobbiamo muoverci senza possibilità di avere spazio per altro. Spesso, anche solo un cambio di look viene percepito per un fattore culturale come una sorta di ‘tradimento’ e reputo folle quanta meno apertura ci sia nei confronti delle donne rispetto ai loro colleghi uomini. A noi tocca giustificare ogni mossa e decisione per via di etichette che inevitabilmente finiscono con il limitare la nostra libertà.
Come hai reagito l’ultima volta che un uomo ha cercato di spiegarti come fare qualcosa?
Tutte le volte che si verifica una dinamica di questo tipo, manifesto subito il mio dissenso e rispondo. Mi è capitato di recente anche per una frase molto banale mossa da un’intenzione non certo brutta, secondo cui mi ero accodata a un’opinione solo perché espressa da un uomo. Ho reagito male perché mi sono sentita in quel momento come priva della possibilità di avere un pensiero mio. Si è trattato sicuramente di una frase detta con molta leggerezza ma d’istinto tendo sempre a mettere i puntini sulle i.
Che immagine associ alla parola “libertà”?
Un’immagine astratta: quella di un nocciolo da cui si emanano tanti raggi tra loro connessi. Il nocciolo è la natura mentre i raggi siamo noi esseri umani che per essere liberi ci muoviamo in uno spazio che interseca quello degli altri senza impedirci comunque il percorso a vicenda.
Ti senti libera?
È qualcosa che rincorro. Un po’ come accade per la felicità, si fa sempre fatica a dire “sono libera”. Di sicuro, sento di star facendo un percorso allineato con ciò che desidero io ed è quella la direzione in cui voglio sempre andare. Sono tante anche le sole prigioni mentali e interiori che il liberarsene è un’aspirazione di vita: i pezzi del puzzle vanno sempre allineati per rimanere in equilibrio.