Ritrovo Carlotta Gamba a distanza di un anno ma non sembra passato nemmeno un secondo da quando ci siamo salutati dopo l’intervista per Dante, il film di Pupi Avati in cui dava vita a Beatrice, la musa del sommo vate. L’occasione ce la fornisce l’uscita in sala di Amusia, il primo film del regista Marescotti Ruspoli portato in sala da 102 Distribution dopo i riconoscimenti di critica al POFF e al BiF&st, due festival che si svolgono in due parti del mondo tra loro lontane, a Tallinn (in Estonia) e a Bari.
In Amusia, Carlotta Gamba interpreta per la prima volta la parte della protagonista, attorniata da Giampiero De Concilio, Fanny Ardant e Maurizio Lombardi. È consapevole del peso che porta sulle spalle ma ne è contenta, così come lo è dei ruoli che nel frattempo, in questo anno, l’hanno vista prima al cinema anche con Walter Veltroni in Quando e poi ancora sul set con i fratelli D’Innocenzo per la loro prima serie tv.
La Livia, impersonata da Carlotta Gamba in Amusia, soffre di una patologia particolare, quell’amusia che dà il titolo al film e che il regista ha scoperto leggendo un libro di Oliver Sacks. Si tratta di una condizione particolare che colpisce le percezioni uditive e trasforma la musica in un rumore assordante, capace di devastare emozioni e piacere legato all’ascolto. Non è molto diffusa ed è difficile anche da comprendere, soprattutto per chi considera la musica una compagna di vita.
Come capita spesso con tutte le malattie o le condizioni particolari di disagio, chi ne soffre vive una situazione di incomunicabilità generale che proibisce la costruzione di rapporti normali con le persone intorno. Ed è da questo appiglio che Carlotta Gamba è partita per la costruzione del personaggio, sapendo quanto difficile sia sentirsi diversi, una sensazione che anche lei, come ci ha raccontato un anno fa, ha vissuto sulla propria pelle crescendo.
Intervista esclusiva a Carlotta Gamba
Chi è Livia, la protagonista del film Amusia?
Livia non è tanto lontana da me. È una ragazza che si sente diversa, nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’unica via di fuga che trova è quella di scappare da quel luogo chiamato casa o famiglia perché è proprio lì che non si sente al suo posto, percependo di non farne parte. Livia è un’anima un po’ dannata: sembra destinata a una vita sbagliata, qualcosa che ho avvertito un po’ anch’io nel mio percorso. Al di là della malattia che la interessa, ho cercato di lavorare sulla sua sensazione di diversità e di malessere psicologico.
Livia non riesce a relazionarsi e a capire l’amore. Lo vediamo anche nel suo rapporto con i genitori…
Ma anche nel suo rapporto con Lucio: Livia non riesce mai del tutto a lasciarsi andare. Dal mio punto di vista, è una ragazza molto insicura ma anche molto indipendente. Non ha un solo colore, non è tutta bianca o nera ma ha tante sfumature: cerca di amare ma lo fa con i suoi sbalzi, i suoi sbagli, e con modi che provano a essere dolci ma che in realtà visti dall’esterno sembrano un po’ forti. La prima volta che ho visto il film ho anche pensato che risultasse antipatica: avrei avuto voglia di dirle di sorridere alla vita e di innamorarsi delle cose che la circondano.
Hai fatto in passato anche parte di una band al femminile. Com’è stato per te immaginare l’esistenza di una ragazza come Livia che, per una patologia, è costretta a vivere senza musica?
È stato difficile da immaginare. Al di là dell’esperienza passata, uso tanto la musica anche sul set (e l’ho usata anche su quello di Amusia!) per concentrarmi e ricercare un sentimento. Non conoscendo molto sulla malattia, era dunque impossibile capire cosa provasse Livia e per restituire la sua psicologia ho dovuto trovare altri punti di contatto, soffermandomi su quella diversità di cui parlavo prima, sul sentire di avere un problema che il resto del mondo non riesce a vedere quando tu invece ce l’hai chiaro davanti, sull’incomunicabilità con un mondo in cui sono gli altri a non sentire te.
Ho cercato di capire cosa significasse concretamente la malattia. Con il regista Marescotti Ruspoli abbiamo cercato in lungo e in largo qualcuno che ne soffrisse ma non abbiamo trovato nessuno a parte il compagno di una signora che ne soffriva ma che oggi non c’è più. È stato lui a parlarci di come lei diventasse nervosa, si irrigidisse o stesse male di punto in bianco quando sentiva la musica. Quando gli abbiamo chiesto come avesse reagito e convissuto con quella condizione, ci ha risposto che aveva semplicemente smesso di ascoltare musica in presenza di lei e che è stato ugualmente felice.
Tra amore e musica, del resto, è forse meglio scegliere l’amore anche se la rinuncia è sempre un sacrificio…
La musica ci sarà sempre nelle nostre vite ma lo stesso non può dirsi dell’amore che incontri. Conviene forse viversi l’amore con la consapevolezza che la musica non ci abbandonerà mai: come un’ancora di salvezza, rimarrà lì in attesa di un ritorno.
Amusia racconta molto di amore e di sogni, dando questi nomi a due edifici fondamentali della storia. Cosa sono per te amore e sogno?
Per me sono la stessa cosa. Sono una ragazza molto innamorata della vita, del mio compagno, di tante altre cose e del mio lavoro. Quindi, ho la fortuna che il mio sogno coincida anche con il mio amore. Credo che siano fondamentali per avere sempre la voglia e il sentimento giusto per vivere e stare al mondo.
Sul set di Amusia hai avuto modo di confrontarti con Fanny Ardant, un mito del cinema francese con una concezione di recitazione diversa dalla nostra. Che esperienza è stata?
Per me, un’esperienza di paura estrema, tra le più grandi della mia esistenza. Sul set, Fanny mi ha ricordato come tutte noi rimaniamo persone prima di essere attrici: tutte quante abbiamo paura dei set e in qualche modo mi ha fatto capire che anche lei ne aveva. È una donna molto affascinante ma anche molto umile e tranquilla. Non so quale sia il suo metodo ma quando giravamo insieme (penso in particolare a una scena in macchina che è stata poi tagliata al montaggio) fischiettava ed era del tutto serena: è stato molto bello guardarla per cercare di capire e di imparare sul set nonostante la paura come stesse in pace e la regalasse anche agli altri.
Livia e la madre Domitille hanno due modi diversi di intendere la femminilità e di viverla.
È una differenza su cui mi sono fermata a riflettere, che è dettata da ciò che si intende per femminilità e da ciò che invece richiedono gli altri. Il mio modo di essere femminile è indossare jeans e maglietta, non rispondendo a uno stereotipo solitamente dettato dall’esterno. Livia, ad esempio, è abbastanza maschiaccio ma questo non significa che non sia bella o femminile.
Amusia: Le foto del film
1 / 17E a proposito di femminilità in Amusia ti sei ritrovata da attrice a girare la prima scena di sesso della tua carriera. Com’è stato?
C’è stato molto imbarazzo. Quando ho rivisto la scena al BiF&st, seduta al buio tra Marescotti Ruspoli e Giampiero De Concilio, con tanta gente presente, non ho guardato quella sequenza… Lo stesso imbarazzo che ho provato anche quando dovevo girarla: sul set, per quanto ridotta sia la presenza di altri, non si è mai dai soli. Ma è proprio la presenza dell’avere gli altri intorno che ti aiuta a ricordare che ciò che sta accadendo non è vero ma solo lavoro da portare a casa.
Avevo già girato una scena di nudo per Dante (mentre Quando, che ha un’altra scena di sesso che non si avvicina a quella di Amusia, è stato girato dopo) ma ero molto spaventata. Credo che anche Marescotti non abbia grandi ricordi di quel giorno: sapendo che si avvicinava il momento, ho vissuto con agitazione tutta quella settimana di lavorazione.
Fondamentale per la riuscita di quel tipo di scena è l’alchimia che si ha con il partner. Tu avevi al tuo fianco Giampiero De Concilio.
Ci siamo conosciuti al provino. Ci avevano messi, inconsciamente, una dietro l’altro. Mentre provava Giampiero, mi hanno chiesto, appunto, di entrare. L’ho fatto e abbiamo cominciato a interagire e improvvisare: Giampiero sapeva degli aspetti della storia che nemmeno io conoscevo. Si è creata un bel momento, anche molto divertente, in cui lo prendevo anche in giro come fa Lidia e lo guardavo dall’alto verso il basso.
Marescotti Ruspoli era un regista esordiente. Come ti sei trovata a seguire la sua idea di cinema?
Amusia era il primo film da regista per Marescotti Ruspoli ma era anche il mio primo film da protagonista. Eravamo entrambi nella stessa condizione e abbiamo cercato di lavorare al massimo insieme, già da prima delle riprese c’è stato un lungo lavoro di preparazione. Trovo stimolante mettermi al servizio di opere prime: da un lato c’è la paura di sbagliare ma dall’altro c’è la magia dei primi giorni e delle prime volte che ti spinge a lavorare. E con Marescotti abbiamo lavorato tanto, c’è stato sempre molto dialogo e molto scambio sulle scene e sui punti di vista.
Noi ci siamo sentiti un anno fa. I film a cui avevi lavorato, eccezion fatta per Billy di Emilia Mazzacurati, sono tutti usciti. È cambiata la tua vita?
No. Vivo sempre in un monolocale e sto bene nel sottosuolo (ride, ndr). È tutto molto bello: mi rendo conto dei lavori che ho fatto, ne sono molto contenta e consapevole. Ho imparato tanto, cerco di farlo a più non posso dai set in cui ho la fortuna di lavorare. Ma, personalmente, non mi sento ancora tanto cresciuta: succederà prima o poi.
Un anno fa ti chiedevo che ne pensavi della possibilità di lavorare in una serie tv. Siamo stati quasi profetici: hai appena terminato le riprese di Dostoevskij, la serie tv targata Sky scritta e diretta dai fratelli D’Innocenzo. Com’è stato ritrovarli dopo America Latina? È cambiato il tuo approccio alla recitazione?
Bellissimo. Per me, la serie tv a cui abbiamo lavorato è molto bella e mi auguro che lo sia anche per il pubblico che la guarderà: aspetto la messa in onda con molta emozione. Che fosse una serie tv per me non ha fatto alcuna differenza: l’ho considerata come un lungo film. La differenza è qualcosa che non arriva agli attori: la avvertono più i fruitori del prodotto. Il mio compito rimane sempre lo stesso.
I tuoi genitori, a differenza di un anno fa, hanno visto il frutto dei tuoi sacrifici? Qual è il complimento più bello che ti hanno fatto?
Non hanno ancora visto Amusia, lo vedranno in sala quando ci sarà la serata di presentazione a Torino, ma in genere sono soddisfatti e molto orgogliosi di quello che ho fatto. Il complimento più bello? Non saprei. Per me, rimane forse il “ti voglio bene”.
Qualcos’altro bolle in pentola?
Ho altri progetti legati al cinema. Il cinema d’autore rimane la mia via e su quella cerco di stare: speriamo che vada bene!
E un film d’autore è anche Quando, ancora in sala, di Walter Veltroni. Lo possiamo definire una commedia dolceamara, un genere che ancora non avevi affrontato.
Il mio contributo non è importantissimo ma è stato divertente condividere le scene con Luca Vannuccini, che interpreta il protagonista Giovanni da giovane. Così come è stato piacevole e inaspettato l’incontro con Walter Veltroni. Inaspettato perché quando pensi a Veltroni o a Pupi Avati ti aspetti sempre di doverti approcciare con persone molto più adulte e di una certa cultura: incutono quasi timore fino a quando non ti rendi conto di quanto entrambi gli incontro siano belli e genuini.
Ed è stato divertente cimentarsi nella commedia, soprattutto nella scena in cui, seduti in una panchina, Flavia e Giovanni non sanno decifrare un test di gravidanza: una situazione comica ma un po’ tragica nel suo aspetto!
Se ti ritrovassi nella condizione di dover perdere la memoria come Giovanni, il protagonista di Quando, quale ricordo ti dispiacerebbe maggiormente non ritrovare?
Che domanda difficile… sicuramente un ricordo qualsiasi legato a un momento in cui sono stata felice. Mi mancherebbero felicità e serenità.
E oggi ti mancano?
No, assolutamente no.