Carlotta Gamba interpreta Beatrice in Dante, il film di Pupi Avati disponibile su Netflix dall'11 febbraio. Portare sullo schermo la musa dell’Alighieri era un’impresa che avrebbe spaventato con chiunque. Nell’immaginario collettivo, Beatrice è il simbolo dell’amore platonico, irraggiungibile e paradisiaco. Il processo di umanizzazione che ne fa Avati nel film Dante, per la prima volta su Netflix, la avvicina invece al nostro sguardo e alla nostra contemporaneità: la riporta prima di ogni cosa all’essere una ragazza di vent’anni e non solo la Portinari resa eterna dalla letteratura. E se è riuscito nel suo intento il merito è anche di Carlotta Gamba.
Torinese, classe 1997, Carlotta Gamba è al suo secondo film, al suo secondo importante film. Il primo, quello d’esordio, è stato America Latina dei fratelli D’Innocenzo, presentato lo scorso anno in concorso al Festival di Venezia. E da allora Carlotta Gamba sta seguendo un percorso d’attrice che più che alla popolarità punta alla credibilità. Il cinema d’autore è la sua passione e la recitazione scorre nelle sue vene sin da quando ragazzina si impegnava nelle recite delle scuole medie. Non è un caso che al Festival di Berlino 2024 la vedremo protagonista della serie tv Dostoevskij e del film di esordio di Margherita Vicario, Gloria.
Tuttavia la recitazione non è l’unico amore artistico di Carlotta Gamba. Si è confrontata con la danza ma anche con la musica. Nel periodo dell’adolescenza, mentre studiava al liceo, cantava e suonava il violoncello in una street band. Le strade di Torino sono state la sua palestra: ha imparato lì cosa siano la tenacia, la determinazione, l’umiltà e la consapevolezza che nulla è dovuto dal pubblico. Eppure, nonostante il contatto faccia a faccia con la gente, Carlotta Gamba non ha mai perso la sua timidezza.
In questi giorni, è possibile vedere Carlotta Gamba impegnata nella promozione di Dante, film che Netflix offre per San Valentino. Se guardate le sue interviste video, non potete che rimanere colpiti da questo lato del suo carattere, tenero e dolce: lo conferma il movimento delle mani, come direbbero gli esperti di cinesica. “Cosa stai facendo con le mani?”, le chiedo fuori intervista. “Sto giocando con i lacci della tuta che indossa”, risponde con estrema naturalezza. Ma non provate a chiederle se la recitazione l’aiuta a vincere il suo essere timida. La risposta non è così scontata come sempre.
Il cinema, però, le dà tanto. E le ha dato tanto anche dopo Dante. L'abbiamo vista infatti impegnata in altri progetti e tutti a loro modo particolari: Quando di Walter Veltroni, Billy di Emilia Mazzacurati e Amusia di Marescotti Ruspoli. Tre film tra loro diversi ma che, come Dante e America Latina, hanno un comune minimo denominatore: l’umanità e la sensibilità dei registi, in grado di creare set armoniosi e progetti in cui è la somma delle singole parti a fare il tutto. Tuttavia, la nostra sensazione è che Carlotta Gamba sia molto più di una “singola e talentuosa parte”.
Nota a margine: L'intervista è stata realizzata per l'uscita del film nelle sale, nel settembre 2022. Tutti i riferimenti temporali e biografici si riferiscono al periodo.
Intervista esclusiva a Carlotta Gamba
Nel film Dante, proposto ora da Netflix, Pupi Avati umanizza il personaggio di Beatrice, restituendone un’immagine da un lato eterea ma dall’altro lato anche sensuale, se vogliamo. La sua è una Beatrice tangibile e non irraggiungibile. Come ti sei preparata per il ruolo?
Tutto il lavoro è stato accompagnato da Pupi Avati. Di mio, mi sono soffermata a pensare che Beatrice era una ragazza di nemmeno vent’anni: mi sono chiesta cosa abbia potuto provare nell’affrontare la sua vita. Il lavoro portato avanti con Pupi si è basato molto sulla consapevolezza. Beatrice non è stata per noi una figura eterea e irraggiungibile: abbiamo semmai cercato di umanizzarla il più possibile dal momento che il nostro punto di vista era quello di Dante.
Vediamo Beatrice ma in realtà non la capiamo mai. Beatrice è un po’ come tutte quelle cose che non comprendiamo ma che ci attraggono. Per tale motivo, più che sensuale direi che Beatrice è molto ambigua, ha un suo certo lato oscuro. E forse è proprio questo che attrae Dante e che gli permette di immaginarla in tantissime forme.
Ho cercato di riportare Beatrice a me, a qualcosa che io conosco, a qualcosa di “piccolo”. Beatrice non sono io ma ho cercato di comprenderne le emozioni, i sentimenti e cosa le stesse succedendo. Il suo è un personaggio molto in movimento. Il non vederla mai da vicino permette a noi che la guardiamo di pensare a tantissime cose, un po’ come farà Dante nel corso del film. È questa la sua forza: è vicina ma è anche lontanissima. E nella distanza si può immaginare o ciò che si vuole.
Dante: le foto del film
1 / 27È la prima volta che ti cimenti con un personaggio realmente esistito. Il peso delle aspettative è stato maggiore rispetto a quando hai recitato in America Latina?
Le aspettative mi fanno sempre paura. America Latina era il mio primo film, diretto dai fratelli D’Innocenzo e al fianco di Elio Germano. Era dunque per me motivo di responsabilità. Nel caso di Dante, avevo invece un altro grande tipo di responsabilità: Beatrice è un personaggio che tutti conosciamo, chi più e chi meno. L’abbiamo tutti sentita nominare o studiata. Il peso derivava dunque dalle aspettative che tutti quanti potevano avere. Anche se, in realtà, credo di aver lavorato senza pensare che il mio personaggio fosse quello di Beatrice Portinari.
Ne sarebbe stata inficiata la tua prova d’attrice.
Per forza di cosa. Paragonandomi a lei, non sarei riuscita a far nulla. In questo, mi ha aiutato molto Pupi: aveva molto chiaro quello che voleva. Era molto specifico e devo ammettere che grazie a lui mi sono dimenticata, anche non volendo, di star interpretando Beatrice Portinari. Per una timida come me sul set ci sono tantissime paure: è importante avere un regista come Avati, che sa bene qual è il suo obiettivo.
Pupi Avati e i fratelli D’Innocenzo: due modi differenti di fare e intendere cinema. Cosa hai imparato su un set e cosa sull’altro?
Sul set di America Latina ho imparato veramente tanto: era il mio svezzamento. I fratelli D’Innocenzo mi hanno fatto vedere tutto con un punto di vista differente grazie alla loro sensibilità e al loro interesse per il mio lavoro. Si percepiva che erano molto interessanti a quello che avrei potuto dare e fare io come interprete. Mi mettevano molto al centro e per me è fondamentale pensare al cinema come a qualcosa che si fa tutti insieme. Anche se poi non mi sento all’altezza: noi attori abbiamo spesso questo problema. Ma non tendo a sottolinearlo: si rischia di diventare antipatici. Qualcuno potrebbe anche dirmi: “Ma chi te l’ha fatto fare?” (ride, ndr).
L’esperienza con Pupi Avati è stata totalmente diversa. Non mancava la sensibilità, sia chiaro: sia Pupi Avati sia i fratelli D’Innocenzo sono persone molto umane e sensibili, un aspetto per me imprescindibile. Li definisco come “gli incontri della vita”: oltre al lavoro mi hanno insegnato molto anche a livello umano. Sul set di Dante, sentivo quanto Pupi fosse presente. Avvertivo costantemente la sua aurea e ho percepito quanto lui lavorasse con me in silenzio. Parlavamo molto poco e ciò ha contribuito a creare quella sorta di ambiguità intorno a Beatrice di cui spiegavo prima. È difficile elencare o mettere in ordine ciò che mi porterò sempre dietro.
Com’è stato lavorare a stretto contatto con Alessandro Sperduti, che interpreta Dante?
Mi sono trovata benissimo. Alessandro riesce a donare in maniera generosissima i propri sentimenti al personaggio che interpreta. Ci siamo conosciuti sul set quando abbiamo girato la scena in cui Beatrice saluta per la prima volta Dante. I controcampi erano diversi e, quando la macchina da presa si è girata verso lui, ho provato tantissime sensazioni ed emozioni. È riuscito, come ha sottolineato anche Pupi Avati, a regalare moltissime sfaccettature al suo personaggio. Umanamente, Alessandro è un ragazzo gentilissimo con cui è super piacevole lavorare. Oltre che divertente, come durante questi giorni in cui siamo stati impegnati con la promozione.
Quanto è importante per te lavorare in un set in cui c’è sintonia?
Per me, il cinema è prima di tutto incontro con le persone. Ho bisogno di sentirmi al sicuro in un momento di così tanta vulnerabilità. Quando devi interpretare qualcosa che non conosci, è importante che dall’altra parte ci sia qualcuno che manifesti tutta la sua umanità. I D’Innocenzo e Avati sono i primi registi con cui ho lavorato ma anche nei film che ho girato successivamente ho fatto incontri magici: Walter Veltroni, Emilia Mazzacurati e Marescotti Ruspoli. Ho proprio bisogno di sentire che su un set siamo tutti umani, che siamo normali e che vogliamo far cinema perché condividiamo la stessa passione. Se mi sento protetta, riesco a regalare di più.
Il cinema è passione, lo hai appena ricordato. Quando è nato in te il desiderio di avvicinarti alla recitazione?
Non saprei quando è scattato il momento in cui ho pensato “voglio far l’attrice”. Ho l’impressione che sia una passione proprio insita in me. Alle scuole medie, facevo teatro… quel brutto teatro che si può fare alle medie! (ride, ndr). Era qualcosa per me naturale: mio fratello giocava a calcio ed io facevo teatro. Da bambina, avevo bisogno di “scaricare” molto e mi tenevo impegnata in tantissime attività: canto, danza, teatro…
A un certo punto, non so nemmeno perché, dopo il Liceo del Teatro Nuovo a Torino, un istituto un po’ particolare in cui si praticavano molte discipline artistiche, mi sono detta: “Vado a Roma per fare l’attrice!”.
Quel brutto teatro che si può fare alle medie… qual è stata l’esperienza peggiore?
I traumi più grandi che ho avuto sono legati al fatto che suonavo il violino anche se non ero una grande violinista. Ricordo che, durante quelle recite imbarazzanti da scuola media, con tutti i genitori chiusi in una stanza e tutta la classe che suona uno strumento diverso, immancabilmente sbagliavo!
Ma sono stati tanti gli episodi imbarazzanti. Una volta, in una chiesa sconsacrata di Asti, abbiamo messo in scena Invito a cena con delitto. Non ricordo quale personaggio interpretassi, so solo che indossavo un vestito, il reggiseno e i tacchi di mia madre: anche se ero una bambina, dovevo interpretare una donna. E mio marito era impersonato dalla mia amica Bianca. Era tutto un po’ così… campato per aria (ride, ndr).
Non eri brava a suonare il violino ma la musica ha fatto parte della tua vita. Eri in una street band, i Junk Food. Che ricordo conservi di quel periodo?
Erano gli anni dell’adolescenza, di quando frequentavo il liceo. Ho sempre avuto anche la passione per il canto e la musica è qualcosa che io mi porto ancora dentro.
Quando sei adolescente, sembra tutto molto bello e l’unico problema è rappresentato dalla scuola. Eravamo una band di cinque componenti, quattro ragazze e un ragazzo. Per la band suonavo anche il violoncello, anche se poi l’ho abbandonato purtroppo. Cantavamo in strada, nelle parrocchie e ovunque potessimo.
È stata un’esperienza che mi ha formata molto: in strada, ti ritrovi faccia a faccia con un pubblico che non ha problemi a non rispondere a quello che stai facendo e che, quindi, ti educa a dare sempre di più. Mi ha permesso di capire che bisogna combattere per avere una risposta, un feedback, e a considerare come valore molto importante l’umiltà: l’insuccesso è sempre da tenere in considerazione, è inevitabile non affrontarlo.
Rimarrà un ricordo bellissimo e divertente, compresi gli sbagli e le stonature. Da adolescente, poi, si va dappertutto con spensieratezza. Non ci importava che suonassimo per la strada, d’inverno, a Torino, con una temperatura di meno di due gradi. Suonavamo e racimolavamo qualche soldo: ci andava bene così.
Che tipo di adolescente sei stata?
Molto regolare, anche se non so cosa possa essere definito regolarità o no. Ero una ragazza che non andava bene a scuola e che faceva fatica. Ero molto timida, molto riservata, molto sensibile. E la sensibilità non sempre è una caratteristica positiva. Capita che gli altri non la sappiano leggere e che ti facciano sentire un po’ inadeguata. Però, ho trovato anche degli amici che tuttora ho: ho incontrato ad esempio il mio migliore amico al liceo e ancora oggi mi sta accanto! Con il tempo si supera tutto… è un momento di passaggio inevitabile che può insegnarti tantissime cose.
Non ho però mai fatto grandi pazzie. Quando ci provavo, andavo nel panico perché non ero molto brava a nasconderlo: mia madre se ne sarebbe subito resa conto, com’è capitato (ride, ndr).
La recitazione ti aiuta a vincere la timidezza?
No, non mi aiuta (ride, ndr). Mi aiuta per metà. Da una parte, la timidezza è una parte di me e, come tale, me la porto dietro anche sul lavoro. Dall’altra parte, la recitazione mi permette un po’ di nascondermi. Si dice sempre che interpretiamo qualcun altro ma dietro a un personaggio ci sono diverse vite e, inevitabilmente, anche quella di noi attori. Quindi, mi nascondo ma fino a un certo punto…
Recitazione e musica fanno parte della tua vita. E se ti proponessero un musical?
Accetterei se fosse come uno di quelli belli che si mettono in scena a Broadway. Ne ho visti di stupendi a New York. Mi vedrei molto bene in La piccola bottega degli orrori: è strano, divertente, magico, fantastico… come una favola!
E una serie tv?
Sono interessata a tutti i tipi di linguaggio. Anche se, per adesso, quello che ho trovato sulla strada, con mia grande fortuna, è il cinema d’autore, un mio grande amore come il teatro. Non mi pongo nessun paletto: attendo di poter fare più cose possibili ma sempre in sintonia con chi sono. La popolarità tout court non rientra nelle mie aspettative.
Ti senti libera come donna?
Non del tutto. O, meglio, non come vorrei o immagino che potrei essere. Mi rendo conto di mettermi da sola molti paletti perché ho paura di alcuni aspetti e dinamiche. Sbaglio quando lo faccio, non dovrei: potrei essere più libera. Mi piacerebbe continuare a sperimentare la mia libertà e renderla sempre più importante rispetto a certi miei meccanismi personali, legati ai sentimenti, alle paure o alle delusioni. Vorrei essere libera dalle mie macro complicazioni.