Goteborg, Londra e Bari sono solo tre delle ultime città che nel giro di pochi giorni vedranno Carolina Cavalli presentare Amanda, la sua opera prima. Presentato nella sezione Orizzonti del Festival di Venezia 2022, Amanda (prodotto da Elsinore e distribuito da I Wonder Pictures) è stato una delle soprese più eclatanti della stagione cinematografica in corso. Con ironia, sarcasmo e acuta riflessione racconta la storia di una giovane, Amanda appunto, che farebbe di tutto per avere un’amica o almeno qualcuno a cui aggrapparsi per rifuggire a una vita di non affetto e solitudine.
Al Sudestival, il Festival dedicato al cinema italiano di qualità in corso dal 27 gennaio al 17 marzo, Carolina Cavalli sarà presente il 9 febbraio e per l’occasione abbiamo voluto entrare in punta di piedi nel suo mondo. Al suo primo film, Carolina Cavalli ha un mondo affascinante da raccontare, fatto di aneddoti curiosi che sciorina mentre cammina per la stanza della sua casa. Un po’ come Maria De Filippi, prova a tenere le fila delle risposte che spaziano da un universo all’altro, dalla finzione cinematografica alla realtà.
Non stupiscano i cambi di tono e di risposte di quest’intervista a Carolina Cavalli. Da sempre sceneggiatrice (e ora anche scrittrice: è da poco uscito il suo primo romanzo, Metropolitania), Carolina Cavalli sovverte le prospettive. Spesso da intervistata è diventata intervistatrice: “Ma a te lo hanno mai regalato un pony?”.
Ed è in un clima di divertente complicità che cominciamo chiedendo a Carolina Cavalli quanto di sé ci sia in Amanda. Poco pensa lei ma pian piano scopriamo insieme un’altra verità. "Mi hanno chiesto se fossi parente di Roberto (lo stilista, ndr): a me sarebbe piaciuto maggiormente essere associata a Patrizia, la poetessa", è una delle prime cose che ci dice.
Intervista esclusiva a Carolina Cavalli
Non me la racconti giusta. Se uno scrive di un personaggio come Amanda qualcosa di suo ci avrà messo…
Mi rendo conto che ogni tanto mi piacerebbe essere Amanda, anche se io mi adatto di più a quello che mi succede intorno, alla realtà, mentre Amanda tende ad adattare la realtà a sé. È qualcosa di cui mi sono accorta pensandoci a posteriori… All’inizio mi ero semplicemente detta di pensare ad Amanda come a una di quelle eroine delle storie che leggi quando sei bambina oramai cresciute: una sorta di Pippi Calzelunghe cresciuta. Mi sono sempre chieste come sarebbero diventate da adulte quelle bambine: sarebbero cambiate oppure no? Amanda nasce da questa domanda che mi stava a cuore: volevo quindi raccontare la trasformazione trasponendo le eroine in un’età diversa…
Senza tempo e senza spazio, dal momento che la storia non ha una collocazione geografica ben definita e non è collocata temporalmente: sappiamo che è un ipotetico oggi in un’ipotetica città…
Togliere il tempo e lo spazio mi do grandissimo sollievo: il cinema ti permette di fermare le due dimensioni e, quindi, per certi versi tutto ciò che è legato alla morte. Sono elementi che non mi piacciono tantissimo.
Cosa concretamente ti permette di fermare tempo e spazio nella vita reale?
Beh, un po’ tutti noi fermiamo tempo e spazio. La notte ferma un po’ la spazio così come l’innamoramento ferma il tempo.
Ma anche la scrittura ferma tempo e spazio. Quando hai cominciato ad avvertire che per te la scrittura era un’esigenza personale?
Sono d’accordo sul fatto che la scrittura sia un’esigenza personale ma, a differenza di molti altri, io non ho mai tenuto un diario personale in cui raccontare le mie giornate o quello che mi capitava. Mi sono sempre piaciute di più le storie di immaginazione e il modo più facile per me per immaginare era scrivere. Ho dunque iniziato a farlo molto presto scrivendo storie che dipendevano dalla realtà vicina ma in maniera immaginaria. Mi sono resa conto abbastanza presto che, se era possibile scrivere così, mi sarebbe piaciuto farlo. È stato solo molto più tardi che mi sono appassionata alla scrittura, quando intorno ai 18 o 19 anni ho iniziato ad andare al cinema tutti i giorni. Non so nemmeno perché o come sia iniziata, andavo e basta…
Vedi che allora c’è un po’ di Amanda in te?
Eh sì, andavo anch’io da sola al cinema. anche perché non è facile trovare qualcuno che ti accompagni al cinema…
Ma facevi come Amanda? Sceglievi appositamente i titoli d’essai o andavi a vedere quello che ti passava per la testa?
Usavo il cinema come si fa per la televisione: andavo all’orario che potevo e vedevo cosa c’era in sala. È stato strano: fondamentalmente non sceglievo. Poi, pian piano, ho cominciato a scegliere.
A proposito di cinema, nei titoli di cosa di Amanda ringrazi Paolo Sorrentino. Come mai?
Piaccia o non piaccia, Paolo Sorrentino rappresenta il regista per eccellenza della nostra generazione. E poi perché, casualmente, ha avuto anche l’accortezza e la generosità di venire a due proiezioni tecniche di Amanda. Non ci conoscevamo: quando sei un regista alla sua altezza e hai ancora voglia di andare alla proiezione di un’esordiente e dai anche qualche consiglio, non puoi che amare il cinema in maniera appassionata. Ho trovato molto generoso il suo gesto inaspettato e ho voluto ringraziarlo per tutto. Per la nostra generazione è fondamentale avere dei maestri soprattutto generosi.
Di maestri, Amanda invece non ne ha. Non ha alcuna figura di riferimento. Sembra, anzi, che lo scontro generazionale tra boomer e gen z sia molto forte…
Dal momento che non ho voluto dare indicazioni spazio-temporali precise, non me la sentirei di chiamarli boomer o generazione z… Amanda potrebbe anche appartenere alla Generazione Beta o semplicemente a una generazione che non ha neanche niente da distruggere ma che ha bisogno di comprare o accumulare. Un ventilatore con i punti del supermercato, un phon, un cavallo… ma a te lo hanno mai regalato un pony? Non lo vorresti in giardino? (ride, ndr).
Più che altro non potrei tenerlo. Ho un chihuahua e se lo mangerebbe in poco tempo. Preferirei un mio mini pony…
Ma secondo me io e te siamo della stessa generazione…
Ti deludo: ho qualche anno in più ma ho visto i cartoni animati fino a non molto tempo fa: considero Cristina D’Avena come una madre adottiva…
Lascia stare, vale lo stesso anche per me. La ascolto ancora anche quando sono per strada. Credo che abbiamo una sorta di malattia della nostalgia.
Non so se sia nostalgia o malinconia. Del resto, sono fratello e sorella che vanno di pari passo. Torniamo seri: i personaggi maschili che ruotano intorno ad Amanda sembrano degli ectoplasmi. A parte quello interpretato da Michele Bravi, non è che ce ne siano altri ben delineati. In casa di Amanda, sono anche succubi delle dinamiche all’interno della famiglia.
Semplicemente perché non appartengono a questa storia: Amanda non è la loro storia. È una storia di solitudine, di un’amicizia che non si sa se è tale fino alla fine.
È la storia dell’amicizia tra Amanda e Rebecca, personaggio attraverso cui affronti una realtà ancora poco sondata dal cinema italiano: quella degli hikikomori. A cosa hai pensato quando hai delineato Rebecca?
A tutti quelli che esprimono le loro emozioni con comportamenti diversi, a quelli che si chiudono in un microcosmo in cui tutto è controllabile. Tutti noi abbiamo provato la sensazione di non avere più tutto sotto controllo. Quella di Rebecca è una reazione alla mancanza di controllo ai vari aspetti della vita. Non a caso il film sarà presentato oggi (venerdì 3 febbraio, ndr) a Varese, presso un'associazione che si occupa di ritiro sociale in adolescenza che si chiama Sakido.
“Prima non mi accadevano cose belle perché non avevo nessuno a cui raccontarle”, dice Amanda in una scena. Tu avevi invece qualcuno a cui raccontarle?
Potenzialmente lo trovavo, anche se era qualcuno che non conoscevo o non mi interessava.
Un po’ come Amanda… una conosce da mezz’ora è la sua migliore amica, uno con cui scambia due chiacchiere è il suo quasi fidanzato e così via.
Alla base c’è una grande apertura ma poi subentra molta paura dell’intimità o della relazione. Queste due realtà apparentemente in contrasto poi trovano il loro posto.
Domanda secca a cui puoi anche non rispondere. Sei mai stata sola come Amanda?
Più che sola ero solitaria. Ma era una scelta consapevole. Nel caso di Amanda, invece, è un dato di fatto che viene dal di fuori: fa fatica a creare legami e a trovare con le persone un’unità, a meno che non si tratti di casi molto, molto specifici, ovvero una bambina, un cavallo… con loro instaura rapporti che la fanno sentire a suo agio e che non gli altri non riesce a instaurare.
Amanda parla spesso con l’assistente vocale del suo smartphone. Perché la chiama Sexy Mama?
È un modo per chiamarsi tra migliori amiche. Ma non chiedermi com’è nato, dovrei mandarti una foto (ride, ndr).
Mandala. Usiamo quella come risposta.
La storia di Amanda e il modo in cui è raccontata non è tipicamente nelle corde del cinema italiano. È più da cinema nordico o indipendente statunitense. In cosa ti sei avvicinata o discostata da questi modelli di riferimento?
Amanda è un film costantemente farcito di umore. Mi fa ridere tutto ciò che parte da un “condiviso” e quindi anche da una malinconia condivisa su ciò che sappiamo e condividiamo tutti. E tra ciò anche la debolezza. Questo è un aspetto che appartiene più al cinema del Nord Europa o a quello americano. La cosa più difficile e stimolante è riuscire a far ridere le persone davanti a uno schermo: non resto mai in sala durante le proiezioni ma spero che il pubblico rida, in Italia così come negli Stati Uniti o in Gran Bretagna, dove il film uscirà presto.
Amanda ha già provato le reazioni del pubblico estero. È stato presentato, subito dopo il Festival di Venezia, a quello di Toronto. Hai notato delle differenze?
Beh, soprattutto a livello organizzativo. Il Festival di Venezia mi sembra molto più attento all’industria cinematografica o agli addetti a lavori. Toronto, invece, è molto più aperto alla città e al pubblico stesso. La gente in sala mangia i popcorn e guarda i film come faremmo tutti noi: è un tipo di accoglienza diversa. Ma sono contenta di entrambe le esperienze: subito dopo, ho auto l’impressione di aver comunicato qualcosa.
Per i ruoli di Amanda e di Rebecca scegli due attrici come Benedetta Porcaroli e Galatea Bellugi. Perché loro?
Ho fatto diversi provini prima di scegliere gli attori. È solo facendoli che puoi scegliere accuratamente gli attori e notare chi riesce a cogliere certe sfumature e chi no. In chi ci riesce rivedo il personaggio e come lo vive dentro: è un ottimo punto di partenza. Ho avuto la fortuna di trovare due bravissime attrici con cui abbiamo capito e inteso i personaggi allo stesso modo. Per me, tutti i personaggi sono importanti, anche quelli che si vedono pochissimo in scena, dal cassiere del cinema al ragazzo che vediamo per pochi secondi al cavallo.
Quindi, hai fatto dei casting anche per il cavallo?
Certo. Si chiama Zietto e non ha i denti. È quello che somigliava di più a un asino, non chiedermi perché mi piacciono di più. E poi andavamo d’accordo e, soprattutto, andava d’accordo con Benny.
Tu hai un conto in sospeso con tutti noi e si chiama Mi hanno spuntato nel milkshake, un progetto di cui hai girato solo il pilot. Potremo vedere prima o poi il seguito di quella storia?
Credo di no. Quel progetto nasceva dal concorso legato al Premio Solinas. Ne ho realizzato la puntata pilota ma non so perché non è andata avanti (bisognerebbe chiedere alla Rai) ma oggi dopo tanto tempo non so se ho voglia di tornare a quei personaggi.
Amanda: Le foto del film
1 / 54È stato facile per te, giovane donna, realizzare il tuo primo lungometraggio?
È un po’ strano spiegare come siano andate le cose. Io ho sempre fatto la sceneggiatrice e mi trovavo bene in quella dimensione. Come al solito, avrei affidato la sceneggiatura di Amanda a qualcun altro e invece la produttrice Annamaria Morelli mi ha suggerito di provare a cimentarmi con la regia. Avevo molti dubbi all’inizio ma poi ho cominciato a pensare seriamente alla regia quando hanno smesso di chiedermelo.
E cosa hai pensato al primo giorno di set?
Intanto, non avevo dormito moltissimo la notte prima. Quando siamo arrivati sul set, ho realizzato che ormai stava succedendo: era diventata una questione di sopravvivenza e bisognava darsi da fare. Dovevo essere in grado di portare il tutto a casa con la consapevolezza di quanto la regia fosse diversa dalla scrittura: non avrei potuto tornare indietro, cambiare e riscrivere.
Il momento più difficile?
Uscire dalla quotidianità del set a riprese concluse. Mi era piaciuto tanto relazionarmi con gli altri: era stata un’esperienza molto meno solitaria della scrittura e comunque più straniante. Era come ritrovarsi in una dimensione parallela, molto eccitante e piena di adrenalina. Quando tutto è finito, è stato difficile. In compenso, mi sono presa il CoVid superando una difficoltà con un’altra difficoltà (ride, ndr). Eravamo ancora nel periodo in cui la pandemia era ancora un’emergenza e mi sono ritrovata chiusa in una casa senza nemmeno un balcone. Mi sentivo in una specie di scatola. M’è durato per ben 21 giorni, non passava mai…
E cosa hai fatto in quei lunghissimi giorni?
A dedicarmi a far meglio le cose. Solitamente, siamo distratti dall’esterno, che inevitabilmente interferisce molto con ciò che fai. In quella circostanza, senza distrazioni, mi sono concentrata su di me: è stato uno degli aspetti positivi di quel periodo.
Su cosa ti sei concentrata in particolare?
Sui sentimenti, sulle relazioni e sulla cura. Solitamente tendiamo a non prenderci cura degli altri ma anche di noi: la consideriamo una noia quando è invece la cosa più generosa e preziosa che si possa fare è quella di prendersi cura se non di noi stessi del mondo e degli altri. A me sembra di non farlo mai.
Stai comunque continuando a prenderti cura di Amanda…
Amanda viaggia più di me, ha ancora molto tempo davanti. Sarà presentato a Goteborg e poi andrà a Londra e a Bari, al Sudestival, nel giro di pochi giorni. Ma lo vedranno tra dieci giorni anche in Australia, dove io non sono mai stata: parlerà con persone con cui io non potrò parlare mai.