Carolina Sala è la protagonista insieme a Rocco Fasano del film Noi anni luce, l’atteso teen drama diretto da Tiziano Russo in uscita al cinema il 27 luglio per Notorious Pictures. Nella storia interpreta Elsa, una diciassettenne che, durante una competizione in canoa, ha un malessere che la porta dritta in ospedale. Qui, la diagnosi non lascia adito a dubbi: leucemia mieloide acuta. Per Elsa, inizia così quel cammino di cure e di accettazione non facile da percorrere.
Fortunatamente, è proprio in ospedale che Elsa incontra Edo, interpretato da Rocco Fasano. Giovane paziente ma anche animatore, Edo aiuta Elsa a fare i conti con la malattia e, nel momento più delicato, l’accompagna in un viaggio on the road alla ricerca di quel padre che la ragazza non ha mai conosciuto ma che potrebbe essere la sua ancora di salvezza. Insieme, avranno modo di cambiarsi a vicenda, di sorridere alla vita nonostante la scure che incombe sulle loro teste e di amare.
Definire Noi anni luce un teen drama appare riduttivo per tutte le connotazioni negative che l’aggettivo “teen” porta con sé, soprattutto da parte della critica che, con la puzza sotto il naso, tende a pensare che una storia con protagonisti adolescenti e agli adolescenti diretta non possa parlare agli adulti. A smentire la loro visione limitata è arrivata anche l’AIL, l’Associazione Italiana contro Leucemie, Linfomi e Mieloma, che ha dato il suo patrocinio al film, appena presentato al Giffoni Film Festival.
Tant’è che chiediamo a Carolina Sala cosa ne pensa di chi usa il termine “teen” in maniera dispregiativa. E la risposta non può che essere matura, gentile e sensata. Tre aggettivi che possono anche cucirsi addosso a Carolina Sala, la cui risata è tanto solare quanto spiazzante perché abituati a vederla sempre in ruoli complessi e difficili, come nella serie tv Fedeltà o nel film Vetro. “A me piacerebbe fare commedia: in teatro interpretavo solo quelle e non mi dispiacerebbe spaziare tra i generi”, confessa quando le faccio notare come mi abbia colpito il suo modo di essere.
La recitazione è da sempre nelle vene di Carolina Sala. Ha capito che il mestiere dell’attrice sarebbe stato il suo sin da bambina ma questo lasciamolo dire alle parole di quest’intervista in esclusiva in cui Carolina Sala ci racconta il suo percorso artistico e di vita, non tirandosi indietro a nessuna delle domande, anche quelle che riguardavano il suo privato molto simile per certi aspetti a quello di Elsa.
Intervista esclusiva a Carolina Sala
“Sono appena tornata dal Giffoni, sono un po’ stanca però tutto bene: in questo momento sono in Veneto, a casa dei miei”, mi risponde Carolina Sala quando le chiedo come sta e dove si trova. Lei non lo sa ancora ma inavvertitamente ha innescato la stessa miccia con cui è partita l’intervista a Rocco Fasano, suo compagno di scena nel film Noi anni luce.
Cosa significa per te tornare a casa?
Fino a qualche mese fa, vivevo a Venezia, dove stavo studiando. Ho ora finito di seguire i corsi, devo dare solo gli ultimi esami e, quindi, sono momentaneamente in casa dei miei. Quello di “casa” è sempre stato per me un concetto un po’ ballerino: da quando ho 18 anni, mi sono spostata tantissimo ma non solo. I miei genitori sono separati e, quindi, anche prima cambiavo molto spesso casa, alternandomi tra le loro abitazioni. Lo spostarsi era qualcosa con cui dovevo fare i conti, soprattutto da piccola quando non capisce bene cosa stai vivendo: avere due case da un lato significava avere qualcosa in più ed era “arricchente”, mentre dall’altro lato, a volte, ti restituiva la sensazione di non stare bene da nessuna parte.
L’assenza di uno dei genitori, il padre di Elsa, è anche motore di una parte della storia di Noi anni luce. Com’è stato per te crescere da figlia di genitori separati?
Non ho vissuto traumi particolari, avevo con entrambi un buon rapporto. I miei genitori si sono separati quando ero davvero molto piccola e vederli separati è stata per me sin da subito la normalità: non ho conosciuto altra situazione se non quella che s’era creata. Anche il rapporto con i loro rispettivi nuovi compagni è sempre stato abbastanza sereno. Avrei anche difficoltà a immaginare come sarebbe stato crescere con loro insieme: sono cresciuta con questa duplicità costante. Poi, ho iniziato a lavorare e a prendere treni anche abbastanza presto, ragione per cui sento di appartenere a tanti posti diversi: starei male a rimanere ferma troppo a lungo nello stesso posto.
Quando cerco un posto per riposare, quel posto è casa dei miei: ci si sente coccolati quando si è dai propri genitori e non si deve pensare necessariamente alle incombenze o alle piccole banalità di quando vivi da solo. È bello decidere per sé ma talvolta lo è anche godersi la familiarità di certe cose: come prepara la pasta mamma, nessun altro…
Stai quindi per laurearti in Storia dell’Arte?
Ad agosto e settembre sosterrò gli ultimi esami e poi penserò alla tesi. Ho già individuato la materia ma devo ancora capire l’argomento: ho deciso di avere come relatrice la professoressa con cui ho sostenuto l’esame di Storia delle Religioni ma devo ancora definire il focus.
Immagino quindi la felicità di lavorare con Pappi Corsicato per Perfetta illusione, dove interpretavi una gallerista che respirava arte sin da quando era nata…
Quel ruolo è stato proprio una bella sorpresa. Mi sono divertita a interpretare Chiara, a lavorare con Pappi e a girare in varie e vere gallerie. Pappi è poi un vero esperto d’arte: ha girato diversi documentari, tutti bellissimi, ed è stato molto bravo nel raccontare il mondo dell’arte contemporanea.
In Noi anni luce interpreti, invece, Elsa. Un personaggio molto distante da quelli che hai interpretato finora sia fisicamente sia psicologicamente. Per la prima volta, ti vediamo fragile di fronte a verità inattese: una diagnosi di malattia che sembra non lasciare scampo, una figura paterna che non ha mai conosciuto e l’arrivo del primo grande amore.
Sono stata molto contenta di interpretare Elsa e, soprattutto, di poterlo fare con la naturalezza che voleva e ricercava il regista Tiziano Russo. Ha rappresentato per me una novità cimentarmi anche con un genere per me inedito: la maggior parte dei progetti a cui ho lavorato finora avevano come target un pubblico diverso dai ragazzi della mia età, erano per gente più adulta o più giovane. Per una volta, invece, posso parlare ai miei coetanei così come alle mie sorelle di tredici e otto anni: penso davvero che Noi anni luce sia un film destinato a tutti e ne ho avuto la conferma proprio di fronte alle reazioni dei giffoners.
Elsa mi ricorda molto me alla sua età, soprattutto durante le fasi iniziali del film. Quel suo essere un po’ chiusa, respingente e introversa, così come il suo rapporto con la madre mi appartenevano in un certo senso.
Ma eri respingente perché avevi paura di qualcosa?
Per respingente intendo un po’ quell’orso che tende a tenere un po’ lontane le persone… probabilmente, avevo paura di aprirmi, di espormi e di mostrare ciò che provavo. Quando hai paura di sentirti fragile o debole, ti barrichi dentro.
Eppure, a quell’età avevi già cominciato a fare teatro: non era un po’ un paradosso voler stare nel proprio mondo e poi esporsi a un altro universo più ampio e vasto come un pubblico? Anche se fossero venute solo dieci persone a un tuo spettacolo, avresti comunque dovuto aprirti e manifestare emozioni.
Ho iniziato a fare teatro seriamente intorno ai quindici o sedici anni. L’ho fatto sia perché sin da piccola sognavo di fare l’attrice sia perché è stata la mia forma di salvezza: gli attribuisco un potere curativo, terapeutico. Grazie a un bel gruppo di lavoro, stavo sempre a recitare perché il palco era il posto in cui potevo esprimermi ed essere felice, circondata da persone che erano sulla mia stessa lunghezza d’onda.
L’importanza che dedicavo al teatro è cresciuta così tanto che proprio a 17 anni ho trascorso tutta l’estate a recitare ed è stato proprio alla fine di quei mesi, tra il quarto e il quinto anno di superiori, che sono stata notata dal mio agente. Mi aveva visto a teatro e ha deciso di prendermi in agenzia. È sempre un periodo di contraddizioni l’adolescenza.
Riservavi la stessa scontrosità anche ai coetanei?
Non lo so, bisognerebbe chiedere a loro ma penso di sì (ride, ndr). Quando frequenti il liceo, non sempre trovi compagni con cui riesci a comunicare bene. Sei in piena adolescenza, stai imparando a rapportarti con le persone e a capire come farlo: a volte risultavo fin troppo estroversa e altre invece introversa. Un po’ una matta, me lo dico da sola (ride, ndr).
O semplicemente un’adolescente…
Ero una comunissima diciassettenne che iniziava a muoversi nel mondo, a sentirsi un po’ più grande e avere qualche responsabilità in più sulle spalle: cominciavo a sentirmi grande anche se non lo ero.
In Noi anni luce ti vediamo in scena con i capelli cortissimi. Li hai tagliati per l’occasione? Chiaramente, i capelli che cadono per chi è in cura per una malattia oncologica rappresentano un ostacolo psicologico enorme: sono la prova tangibile del male.
No. Avevo però rasato i capelli nel 2019 per la serie tv La guerra è finita, dove interpretavo Sara, una reduce da Auschwitz. Se me l’avessero chiesto, gli avrei tagliati anche subito ma in questo caso si è preferito ricorrere a una parrucca proprio per mostrare Elsa con tre lunghezze diverse di capelli: i miei sono quelli del finale.
Io taglio i capelli e stravolgo la mia immagine per lavoro, per divertimento o per la voglia di essere qualcuno di diverso da me. Ma so per esperienza che quando occorre tagliarli o si perdono per una malattia non è facile psicologicamente. Tra l’altro, per il film ci siamo anche documentati e abbiamo scoperto come con certe terapie i capelli non cadono subito ma vengono tagliati per evitare che cadono.
Indossare una parrucca, in qualche modo sul set mi ha aiutato tanto. Tenendola per un paio d’ore in testa, iniziava a fare male e quel dolore in qualche modo riusciva a restituirmi la pesantezza e il malessere provato da Elsa.
Curiosità effimera: ma perché ti cambiano spesso acconciatura da un progetto all’altro?
Perché di base glielo lascio fare. Di me, mi piacerebbe si dicesse che sono un’attrice in grado di cambiare sempre e di non essere mai uguale al personaggio precedentemente interpretato. Anche se le storie possono somigliarsi per qualche verso, ho cercato e cerco di far sempre qualcosa di diverso, di trasformarmi molto e di cambiare stile.
Tra le righe, si legge che hai avuto modo di vedere gli effetti di una grave malattia su persone a te vicine…
C’è stato più di un caso di grave malattia in famiglia, fortunatamente risoltisi bene. Ho avuto modo di capire cosa si prova quando si sente la fine vicina o dietro l’angolo e uno dei motivi per cui sono stata contenta di interpretare Elsa è perché mi dava l’occasione di raccontare il tutto alle mie sorelle più piccole. Ho vissuto quel periodo in maniera quasi distante e distaccata: era il mio modo per autoproteggermi: sono riuscita ad affrontare il tutto solo dopo… avevo paura e facevo anche fatica a rapportarmi con chi stava soffrendo: ero presente ma per un eccesso di riservatezza non affrontavo mai la questione.
Anche perché quando stai vicino a una persona che sta male l’ultima delle cose che vuoi fare è piangerle davanti: è qualcosa che spesso si vede nei film e che trovo non vera.
In uno dei primi dialoghi tra Edo ed Elsa si parla di ambizione. Eri ambiziosa a diciassettenne anni?
Moltissimo e lo sono tuttora. Quella di allora era però un’ambizione ancora più incosciente: volevo fare l’attrice e avevo una grandissima fame di arrivare e di far cose… se mi avessero chiamata, sarei andata anche a piedi da Conegliano, dove vivevo, a Roma.
Ma com’è nata in te la passione per la recitazione?
Penso siano stati tanti i fattori. Il mio primo ricordo risale alle recite che si facevano alle scuole elementari. Mi sentivo talmente bene, al posto giusto e a mio agio durante le recite da non voler quasi più smettere.
Ricordi ancora una delle prime recite?
Quella che ricordo più nitidamente è legata a una storia portata in scena del tutto inventata. Frequentavo il GrEst, credo tra la terza e la quarta elementare, e interpretavo una specie di principessa. Rispetto agli altri ragazzini avevo una parte leggermente più grande ma parliamo sempre dell’ordine della mezza battuta in più. Mi sono divertita così tanto da ricordarmi più la sensazione provata che la storia in sé.
Senza spoilerare quale e perché, in Noi anni luce diventa centrale una bugia a fin di bene raccontata da uno dei due protagonisti. Credi anche tu che le bugie bianche possano far veramente del bene così come accade nel film? C’è qualche bugia bianca che ti sei detta da sola?
Talvolta, le bugie bianche si rivelano forse utili ma non riesco a ingannarmi così bene da sola! Capita che per un senso di forte protezione verso qualcuno si debba mentire. Se ci pensiamo, quella di Babbo Natale è una bugia bianca ma ha regalato alla maggior parte di noi ricordi belli e felici.
E cosa hai fatto quando hai scoperto che Babbo Natale non esisteva?
Ho fatto credere per un po’ ai miei di non conoscere la verità. Mi sentivo in imbarazzo nel dir loro che li avevo sgamati. Per un anno circa ho mantenuto il silenzio fino a quando poi, messa alle strette, ho confessato.
Elsa ha un rapporto un po’ contrastante con la madre che si rivela però essere anche molto forte e all’insegna della solidarietà. Che rapporto avevi da adolescente con mamma?
Il rapporto tra Elsa e la madre Katia è anche a tratti un po’ sbilanciato: è come se la figlia fosse più saggia della madre. Io e mia mamma ci vogliamo un sacco di bene ma il nostro è stato più un rapporto fatto di scontri ma non perché volessi fare l’attrice, entrambi i miei genitori hanno sempre sostenuto la mia scelta. Vivevamo battibecchi che nascevano per nulla e che con la stessa velocità finivano: potevano nascere per qualsiasi cosa!
Elsa ha anche una grande passione per la canoa. Tu hai avuto qualche passione (non necessariamente sportiva) crescendo?
Teatro e Storia dell’Arte sono sempre stati i due poli della mia vita ma da piccola adoravo tantissimo leggere: divoravo molti libri al mese e non riuscivo mai a smettere di leggere. Ho anche praticato molto sport ma ce n’era uno che se avessi cominciato prima non avrei mai smesso: la scherma. Ho cominciato a tirare di scherma a quindici anni, ho continuato per due anni ma poi ho smesso: non era facile fronteggiarsi con gente che aveva alle spalle molti più anni di esperienza, ti faceva sentire il peso di esserci arrivata tardi.
Cosa ti piaceva della scherma?
Mi incuriosiva. A Conegliano c’era una buona scuola e alla ricerca di un nuovo sport da provare ho preso una lezione: quando ho indossato la maschera, è stato bellissimo. Ma mi entusiasmava anche la competizione e il combattimento così formalizzato. Chissà come sarebbe andata se avessi cominciato da bambina… magari mi avrebbe risucchiata e il teatro non avrebbe preso il sopravvento. Ma è un ragionamento un po’ à la Sliding Doors…
“Le stelle prima di morire sprigionano energia e cambiano l’universo” si dice sul finale di Noi anni luce. Ti è mai capitato di incontrare una stella, anche non morente, che abbia stravolto la tua esistenza?
Forse la mia prima insegnante di teatro… ma non so se ci sia stata solo una persona a cambiarmi la vita. Penso a tutti gli insegnanti che ho avuto: ognuno di loro ha contribuito nel suo piccolo a cambiare piccoli aspetti. Da questo punto di vista, anche il mio ragazzo: non è stato una supernova ma di più… mi ha aiutato a rimettere i pezzi al posto giusto.
Grazie all’incontro con Edo, Elsa avvia il suo processo di accettazione della malattia. Carolina come fa i conti con il dolore?
L’unica via che ho trovato, per fortuna, è parlarne. Mi sento adesso circondata da persone con cui posso parlare e che mi aiutano più di qualsiasi altra cosa. Ma forse mi aiuta anche qualche film: spesso arriva quello giusto da vedere al momento giusto.
La recitazione torna spesso nelle tue risposte. Ti vedremo presto tra i protagonisti di L’infinito, il primo film da regista di Umberto Contarello, lo sceneggiatore dell’ultimo film italiano ad aver vinto un Oscar, La grande bellezza.
Non me l’aspettavo. Avevo sostenuto un paio di provini, erano anche andati molto bene ma poi la chiamata è arrivata all’improvviso. È stato un set un po’ pezzo su cui è stato molto divertente lavorare. Vedrete un’altra versione ancora di Carolina.
Hai preso parte a diverse serie tv e a diversi film. Differenze di metodo?
I personaggi di una serie tv possono accompagnarti per molto più tempo dato che la lavorazione è comunque più lunga. Non vedo chissà quali altre differenze se non quella legata al grado di assorbimento del personaggio stesso: a me è capitato di continuare a vestirmi come un personaggio o di prenderne certi aspetti emotivi anche a riprese finite. Succede quando per mesi determinate cose si sedimentano in te.
Qual è il personaggio che hai fatto più fatica a scrollarti di dosso?
Tendo molto a compartimentare la mia vita e il lavoro. Non ho mai avuto personaggi che mi hanno inseguito… per fortuna, aggiungerei visto quelli anche drammatici che ho finora interpretato. Non mi porto dunque i personaggi dietro ma mi rimangono certe loro sensazioni. Dopo aver girato Vetro, ero ad esempio un po’ più inquieta. Avevamo in un certo qual modo vissuto la situazione della protagonista, una hikikomori, sul set: eravamo in piena pandemia, stavamo anche dodici ore chiusi in un teatro di posa e la sensazione di sentirsi alienati era quasi inevitabile.
Il tuo primo ruolo importante è stato per la serie tv Pezzi unici diretta da Cinzia Th Torrini. Esistono differenze di metodo tra una regista e un regista?
Non per quanto abbia io potuto constatare. Lavorare con Cinzia è stato per me una scuola. Era il mio primo impegno da attrice e la lavorazione è andata avanti per ben sei mesi. Avevo iniziato senza saper quasi nulla e ne sono uscita sapendo come muovermi su un set.
Più che sulle differenze di metodo, sposterei l’attenzione su altro. Il problema serio è che si dà alle registe donne solo la possibilità di trattare temi “al femminile”, come se ce ne fossero alcuni di dominio solo degli uomini. Alle donne viene negata la possibilità di parlare di qualsiasi cosa come se la loro diversa prospettiva fosse da meno. E lo stesso discorso può estendersi a tutte le categorie sotto rappresentate.
Hanno mai provato su un set a farti sentire meno di un collega maschio?
No, in questo sono stata sempre molto fortunata. Possiamo parlare di ruoli ed esperienze diverse, ma anche con le colleghe donne, ma mai di disparità di trattamento. Ma il mio è anche un caso quasi a parte: ho avuto quasi sempre la possibilità di prender parte a progetti in cui avevo comunque un ruolo grande e in cui i personaggi femminili avevano la loro importanza e la loro preminenza.
Ti darebbe fastidio se dovessero definire Noi anni luce un teen drama usando l’aggettivo teen con aria di sufficienza?
Noi anni luce è un film che parla di adolescenti in una situazione drammatica. Spesso c’è molto pregiudizio verso le storie pensate per i ragazzi, un tipo di racconto che ha già dato prova di come possano venir fuori cose molto interessanti. Penso ad esempio alla serie tv Euphoria o per rimanere in casa nostra a prodotti come Skam, Prisma o Tutto chiede salvezza: sono tutte storie bellissime che possono parlare a tutti.
Edo ed Elsa sono ricoverati in un reparto oncologico pediatrico. Ne hai mai visitato uno?
Mi è capitato ma non per questo film. È complicato relazionarsi col dolore dei bambini: in loro c’è una certa inconsapevolezza della malattia che, osservata da adulti, colpisce e ferisce. Proprio per questa ragione occorrerebbe fare tutti un passo avanti e superare anche la nostra paura del dolore. Lo ripeto spesso anche a me stessa, anche per cose semplici come donare il sangue o anche il midollo osseo: è un po’ più doloroso ma si sopravvive. Basterebbero da tutti noi un po’ più di coraggio e volontà.