Si scrive CasX ma si legge Casper, come il fantasma protagonista di un celebre cartone animato e fumetto prima e di un film con Christina Ricci dopo. La musica che propone rappresenta un nuovo inizio per la scena underground milanese, un nuovo capitolo che affonda e si stratifica di influenze dark e alternative.
Il primo singolo di CasX, Seminterrati, è uscito lo scorso 23 settembre. Parla a una generazione dimenticata: quella che ha vissuto Myspace e le band chiuse nei garage, quella esclusa dai bonus e quella che, di base, torna a casa ubriaca e non sa che cosa fare in futuro.
Il secondo singolo, Fammi male, arriva invece il 28 ottobre. È un brano che tratta la paura di innamorarsi, “quella voglia che hai nel petto di amare in maniera incondizionata, ma quel freno che senti nella testa che non ti fa credere a niente di quello che vedi e che senti. L’urgenza di baciarsi e fare l’amore nella maniera più viscerale o carnale, ma anche la nausea che ti viene dalla paura di lasciarsi andare”, per dirlo con le sue parole.
Nel corso di quest’intervista esclusiva, CasX ci parla delle sue canzoni, di come nascono e dell’esigenza, terapeutica, di scriverle. Ma per capire CasX bisogna andare dietro al moniker e parlare con Arianna Puccio. Classe 1993, laureata in Cinema ed esperta grafica, Arianna Puccio ha fondato nel 2020 Studio Cemento, dove si occupa di produzione artistica.
La musica così come l’arte in tutte le sue forme è stata presente nella sua vita sin da piccola. Mamma e papà, entrambi insegnanti, si muovevano anche in contesti artistici, finendo con l’influenzare Arianna. Ed è parlando degli anni di infanzia e d’adolescenza che CasX si lascia andare al ricordo di chi è stata, ripercorrendo anche episodi che hanno oggi condizionato il suo desiderio di far musica.
Intervista esclusiva a CasX
Perché hai scelto come nome d’arte CasX (si legge Casper), con chiaro riferimento al fantasma protagonista anche di un film con Christina Ricci?
Sono nata negli anni Novanta e ho, per ovvie ragioni, dei riferimenti che appartengono a quel periodo. A livello personale, sono molto legata al personaggio di Casper in sé e alla sua storia. È una storia triste perché racconta di un bambino che non c’è più e rimane incastrato in una casa. Da fantasma, però, cerca di essere amico di qualcuno e non ci riesce quasi mai, perché considerato cattivo o spaventoso.
Mi ricorda un po’ come da ragazzina. Ero molto insicura e avevo sempre l’impressione che le persone non capissero una parte di me o chi volessi realmente essere. Solo crescendo mi sono resa conto che ero io a mettere molti muri e a “impedire” agli altri di conoscermi.
Questo mio atteggiamento mi rendeva quasi “invisibile”, un po’ come Casper. Mi sono portata dietro il personaggio sia concettualmente sia esteticamente: Casper, se vogliamo, era un po’ dark e da punketta qual ero non poteva non piacermi.
Quanto ha influito Casper nel tuo mondo musicale? Dalla tua scrittura sembra emergere il tuo lato più insicuro…
Tantissimo. Hai centrato un aspetto fondamentale per capire il mio progetto discografico. Nella vita mi occupo di tutt’altro: lavoro sempre nella musica ma come direttore artistico. Ci ho messo del tempo a capire che potevo far musica anch’io e lasciar uscire il Casper che è in me.
CasX è una parte molto fragile di me, oltre che inedita un po’ per tutti: sono abituata per lavoro a mostrarmi forte e decisa, per vari motivi. Innanzitutto, perché sono una donna che si muove in un ambiente pressoché maschile. E poi perché devo comunque relazionarmi con altri artisti che hanno le loro fragilità da gestire. Di conseguenza, da un certo punto di vista, devo essere tutta d’un pezzo.
Con CasX volevo invece lasciar emergere una parte di me che normalmente non faccio vedere, quella più fragile, fatta di insicurezze e di tutto ciò che ho dovuto affrontare nel corso del tempo. Quella di CasX è una scrittura volutamente fragile e senza patine: emergeranno via via nelle canzoni aspetti che nemmeno i miei genitori conoscono. È arrivato anche per me il classico momento in cui spogliarsi di tutto senza saper bene come la prenderanno le persone che hanno un certo tipo di idea sul tuo conto. A volte fa bene resettare tutto.
Seminterrati, il tuo primo singolo, può adattarsi benissimo ai giovani di ogni generazione. Racconta della paura di confrontarsi con il mondo e con le aspettative sul futuro. Da cosa nasce questa paura?
Ho scritto la canzone un paio di anni fa. Per studio, mi ero trasferita a Verona ed era la prima volta che mi ritrovavo fuori casa. È vero che ero a due passi da Milano e non in Burundi ma dovevo per la prima volta arrangiarmi da sola. Ed è stato come ripartire da zero. Ho avuto poi la fortuna di conoscere diversi ragazzi che venivano da ogni parte d’Italia ma tutti accomunati dal bisogno viscerale di rendere gli altri, soprattutto i genitori, orgogliosi di loro.
Ognuno di loro, così come anch’io, alla fine doveva fare i conti anche con se stesso, relazionarsi con quello che stava facendo e non sentirsi un fallimento. Tutte le volte che incontravo ragazzi sempre diversi nei seminterrati di una radio, Radio Verona, gli argomenti di discussione erano sempre gli stessi: i sogni e la tristezza del non raggiungerli.
Ciò valeva cinque anni fa ma vale anche oggi. I tempi che stiamo vivendo ci mettono a dura prova: l’ombra del fallimento è sempre in agguato perché ci sono davvero poche opportunità rispetto a quelle che ci potrebbero essere. La sensazione è che ognuno debba quasi crearsi il suo futuro. Io per prima l’ho fatto, aprendo una mia propria agenzia. Non si deve mai smettere di sognare anche se alcune situazioni ci obbligano a farlo per sopravvivere. Non sempre il sogno corrisponde alla sopravvivenza.
Forse le generazioni di oggi, rispetto alla mia, sono più fortunate perché vivono con genitori che hanno un rapporto diverso con il mondo del lavoro. I miei, ad esempio, sono abituati allo stipendio fisso e avrebbero sognato per me un lavoro d’ufficio invece che la partita Iva, che considerano – giustamente – precaria. Ciò non significa che non sono contenti di me: sono semplicemente preoccupati per la mia sopravvivenza!
A proposito di sogni, quali erano i tuoi?
Il paradosso è che sognavo di lavorare nella musica ma mi sono laureata in Cinema e per tanto tempo ho lavorato come grafica. È stato solo dopo che ho capito che c’era qualche spiraglio per lavorare nel mondo della musica facendo quello che stavo già facendo. Ciò che invece fatica a concretizzarsi è qualcos’altro: sogno che si sposti verso l’alto l’asticella e che in Italia si cominci a considerare la musica come un lavoro. C’è sempre molta difficoltà a riconoscerlo come tale, un po’ come accade con tutte le arti in generale. Ancora oggi faccio fatica a far capire ad esempio l’onere e l’utilità del mio ruolo da art director per esempio.
Musicalmente, al di là di quanto possa aver successo la mia musica o meno, volevo provare a raccontare alle ragazze che in Italia si può fare un genere che non sia necessariamente il pop o l’indie. Per lavoro, vedo tantissime ragazze che in quanto donne fanno fatica a imporsi in generi musicali diversi: vedo la loro paura di proporre cose altre. Io ero consapevole che la mia musica potenzialmente sarebbe andata verso una certa nicchia ma era quella che avevo in testa e che volevo realizzare così come è stata fatta. Era mia intenzione dare un po’ di manforte alle altre giovani: so che ci sono (e ce ne sono tante) e che hanno voglia di farlo.
Da chi provengono i paletti?
Secondo me, dall’industria musicale stessa. Le etichette, nonostante tutte le battaglie che si fanno, hanno ancora un approccio lavorativo molto vecchio che fa sì che nella loro mente il progetto che renda meglio sia quello della bella ragazza che fa ballare tutti. Non vuol dire che la bella ragazza non sia brava vocalmente ma deve essere “vendibile” sotto tutti i punti di vista, a cominciare dall’estetica. C’è paura nello sperimentare: hanno il terrore del buco nell’acqua, del non ritorno economico.
È un discorso estendibile un po’ a tutti, dalle band ai gender fluid. Ma per le donne la difficoltà è maggiore proprio perché non c’è molta varietà di generi musicali. Io me ne sono un po’ sbattuta: volevo sperimentare e far qualcosa che fosse quello che avrei poi realmente ascoltato in cuffia io stessa. Mi rendo, tuttavia, conto che per una ragazza di diciotto o vent’anni che sogna di far la cantante non è facile sedersi al tavolo delle trattative: molto spesso per loro, la musica si trasforma in one shot, motivo per cui finiscono per far pop, indie o surrogati vari. Non è che non ci siano giovani che realizzano musica stupenda: il problema è poi spingerle, farle diventare “belle” o tiktokabili.
Seminterrati parla anche della fatica, in senso lato, di essere ascoltati. Sia tuo padre sia tua madre (entrambi insegnanti ma anche uno musicista e l’altra organizzatrice di eventi) hanno avuto a che fare con l’arte. Tu poi hai studiato anche danza prima e cinema dopo. Cosa ti ha portato a laurearti in cinema?
Sono cresciuta in mezzo all’arte e con la musica: forse era un po’ “destino”. Ho scelto la laurea in Cinema perché sin da bambina son sempre stata una fanatica di film cult prima e di serie tv dopo. Mi sono specializzata in sceneggiatura e avrei voluto scrivere serie tv ma all’epoca non c’era ancora Netflix. Avrei dovuto accontentarmi della serialità italiana o di scrivere i dialoghi di CentoVetrine (mi era stato anche proposto) ma le mie ambizioni erano diverse: guardavo al mondo anglosassone e ai suoi prodotti.
Non avendo la possibilità di andare all’estero, ho puntato allora al mondo della grafica. Diciamo che ho sbagliato l’anno di laurea: due anni dopo, con l’avvento di Netflix, avrei potuto avere un minimo di spiraglio per la mia carriera di sceneggiatrice!
Ho comunque conservato la mia propensione per la scrittura. Molti dei singoli che verranno in futuro come CasX hanno diversi riferimenti ai film perché volevo che fossero molto immaginifici.
Il 28 ottobre esce Fammi male, il tuo nuovo singolo. Parla di un’altra fondamentale paura che attanaglia tutti noi: quella di innamorarsi.
È una canzone sulla paura di amare ma anche della sensazione di non essere mai in grado di amare le persone in maniera davvero profonda per paura di farsi male. Ci sono relazioni viscerali e complicate che decidi di vivere lo stesso seppur con la consapevolezza che saranno suicide. Personalmente, ho sempre bisogno di andare a sbattere la testa: anche se ho paura, non riesco a non vivere intensamente una situazione. Tutte le cose belle, del resto, hanno un’alta percentuale di farti molto male. E il perché è semplice: ti rendono inevitabilmente fragile.
Quando è stata scritta?
Fammi male è recentissima. È associata a una delle mie ultime relazioni, una tra le più importanti dal punto di vista del mio vissuto personale perché fatta di tante prime volte con una persona che aveva molte più fragilità di me. Per quanto si possa essere innamorati, non è detto che tu riesca a gestire le fragilità dell’altro.
E come si risana la ferita?
Fortunatamente, si è risanata. Ma anche dall’altra parte: la persona in questione sa perfettamente che esce una canzone che parla di noi e le vuole anche bene! Tuttavia, le ferite lasciano sempre tutta una serie di conseguenze: l’importante è non vivere di rimpianti e di rimorsi. Cerco sempre di dirmi che ho dato tutto quello che potevo e di non recriminare niente: ho vissuto tutto a pieno.
Ciò che più mi fa soffrire non è tanto la perdita di una persona ma la perdita del ruolo che quella persona aveva nella mia vita. Vale a livello sentimentale quanto a livello amicale. Sono solita circondarmi di gente per cui nutro molta stima e, da altruista quale sono, sono sempre disponibile al dialogo e al confronto: il rapporto può essere a volte riformulato in maniera diversa, non occorre necessariamente perdersi.
Sono masochista per certe cose. Fammi male è un titolo piuttosto complesso e il testo presenta anche frasi non particolarmente carine e dolci che vertono più sulla passione. La metafora con l’alcool è poi voluta: in un primo momento, doveva chiamarsi Mojito ma non era particolarmente dark (ride, ndr).
Hai appena parlato della paura di perdere le persone. Quanto sei stata sola in passato?
Da bambina ero abbastanza socievole. Sono stata semmai un’adolescente molto sola per via delle mie scelte, soprattutto al liceo. Sono sempre stata aperta a tutti e non ho mai escluso nessuno ma al liceo questo mio altruismo non sempre mi ha ripagata: stare con chi non veniva accettato dai fighetti della scuola faceva sì che anch’io fossi automaticamente emarginata. Non riuscivo quasi a capirlo: perché non potevo essere amica di tutti?
Che poi è anche l’idea che sta alla base del progetto CasX: mi piacerebbe che le persone che ascoltino le mie canzoni si sentissero meno sole e bene nelle proprie peculiarità. I difetti sono gli aspetti che ci rendono diversi e unici ed io sono una grande fan dei difetti. Li vado a ricercare anche in maniera minuziosa negli artisti di cui mi occupo: devono diventare quelli il loro punto di forza.
Ho imparato sulla mia pelle quanto importante sia circondarsi delle persone che hanno davvero voglia di conoscerti per quello che sei realmente. Non risolverà di certo la piaga del bullismo ma vorrei che chi mi ascolta si sentisse un minimo rincuorato: si possono avere degli amici, basta essere in pace con ciò che si è.
Hai citato il tuo lavoro di art director. Hai fondato lo Studio Cemento a Milano. Qual è il difetto più grande di un artista, senza far nomi e cognomi, che hai trasformato in unicità?
Lavorare con una ragazza curvy non è stato facile. E non lo è stato perché ho dovuto gestire da un lato la sua voglia di non avere paura del proprio corpo e dall’altra parte la fragilità che ciò comportava. Ho avuto molta paura: mi sembrava di avere tra le mani un oggetto fragilissimo.
Era arrivata da me con il desiderio di liberarsi di tutta l’iper sessualità che le avevano messo addosso nel corso della sua, seppur breve, carriera, tanto che era arrivata al punto di volersi coprire con felpe o dolcevita in modo che nessuno la guardasse più con quegli occhi. Ho cercato di spiegarle che avrebbe dovuto fare solo ciò che la faceva sentire a suo agio. Sono due anni che cerchiamo di trovare un equilibrio tra quello che gli altri si aspettano da lei e ciò che lei vuole per se stessa. È un po’ quello che avrei voluto che gli altri facessero con me quando ero bambina.
Quanto del tuo lavoro ti porti poi a casa?
Tantissimo. Mi si appiccica sulla pelle e non va più via. La mia parte preferita rimane andare sui set: è lì che percepisco la paura o la felicità degli artisti che seguo. Al di là di tutta la fatica del mio lavoro, mi piace quando riesco a farsi piacere le persone. E non parlo soltanto di donne: molti ragazzi sono venuti da me, ad esempio, senza avere minimamente l’idea di come vestirsi. La soddisfazione più grande è quando mesi dopo mi mandano le foto di loro nei negozi di abbigliamento, dove hanno capito cosa acquistare per valorizzare meglio il loro corpo. Sembra una cavolata ma umanamente parlando hanno capito chi sono.