Cate (Caterina Rebesani) ha diciotto anni e ha pubblicato il suo primo ep, Vetro (PeerMusic Italy). Attraverso le cinque diverse tracce contenute da Vetro, Cate dimostra le sue capacità di scrittura e riflessione raccontando le difficoltà dei suoi anni e le emozioni di una generazione a cui appartiene di diritto, quella Gen Z che spesso gli adulti descrivono in maniera sommaria.
In Vetro, Cate presenta cinque canzoni sì distanti ma accomunate da un concept che definisce l’attitudine della giovane cantautrice romana e la natura del progetto. Ogni brano di Cate, infatti, può essere paragonato a un pezzo di vetro: uno specchio rotto, una bottiglia vuota, uno specchietto retrovisore, un finestrino o un pupazzetto da collezione.
Come un cristallo puro, all’apparenza duro ma dal cuore vulnerabile, Cate in Vetro dimostra la sua autodeterminazione ma anche il suo desiderio di affrontare i bombardamenti mediatici, le illusioni digitali e la voglia di trovare un proprio posto nel mondo, come lei stessa ci spiega nel corso di questa intervista in esclusiva.
Intervista esclusiva a Cate
“Puoi darmi anche del tu”, dico subito a Cate dopo essermi reso conto che mi stava dando del lei. “Ma che ne so, ho pur sempre 18 anni”, mi risponde ridendo, nel pudore della sua età.
Come stai dopo l’uscita del tuo primo ep, Vetro?
Bene, sono molto felice. Non ho ancora realizzato completamente quello che è successo: è una cosa quasi assurda per me. Ho 18 anni e ho fatto uscite cinque canzoni: se un anno fa mi avessero detto che sarebbe accaduto, non ci avrei nemmeno creduto.
Hai già avuto le prime reaction da parte di hi l’ha sentito?
Si. E sono state molto positive, anche se al momento l’hanno sentito quasi solo tutte le persone che mi conoscevano già e conoscevano il mio stile. Il feedback è comunque positivissimo al momento.
Avevi paura dell’uscita?
Sì, anche se non me ne fregava molto del giudizio altrui. Per me, rappresentava un traguardo personale così grande che, se anche fosse piaciuto solo a me, sarei stata felice ugualmente: non avrebbe intaccato la consapevolezza di chi sono. Non poteva essere il giudizio di qualcuno a mettermi in discussione.
Presentati: chi è Cate?
È semplicemente una ragazza di 18 anni che scrive canzoni da quando aveva più o meno 13 anni.
E che ne ha scritte qualcosa come 150. Cosa ti spinge a scrivere?
Come numero di canzoni scritte adesso siamo già sopra i 200. Tutto mi spinge a scrivere: una canzone può partire da un incontro fatto per strada, da un film visto, da una sensazione provata, da un pensiero, da un ricordo o da una speranza sul futuro. Scrivo tantissimo, davvero tantissimo, da sempre su qualsiasi cosa: l’altra sera, ad esempio, ho scritto una canzone a partire da una frase che mi aveva detto una mia amica.
Ed è terapeutico per te scrivere?
Si, assolutamente. Fa benissimo scrivere ma non lo dico io, lo dicono anche gli psicologi: in qualche modo, paga.
Il titolo dell’ep, Vetro, è molto metaforico. A cosa si deve?
Quando ho dovuto scegliere il titolo, sono andata un po’ in crisi. L’ep contiene cinque pezzi diversissimi che tra loro non c’entrano sostanzialmente un cazzo. Mi serviva quindi un qualcosa che riuscisse a racchiuderli tutti e, lavorando molto per immagini, ho realizzato come ogni canzone potesse essere ricondotta a qualcosa che aveva una componente di vetro: uno specchio, un finestrino, una bottiglia… L’unica che sembrava non rispondere a quest’idea era Manchi tu, che poi sono riuscita a collegare benissimo a pupazzetto di vetro in particolare, un piccolo pinguino da collezione che aveva mia nonna in casa. Non potevo dunque che chiamare Vetro tutto l’ep! Il vetro è un materiale molto bello, secondo me: trasparente, cristallino e fragile ma anche tagliente se si rompe.
Una descrizione che restituisce anche a pieno il senso delle tue canzoni. Hai citato Manchi tu, che le note biografiche dicono essere la tua prima canzone scritta in assoluto tanto tempo fa.
Ed è la canzone che mi fa più effetto cantare nelle poche esperienze live fatte finora. Mi riporta alla quattordicenne che ero, che tira fuori ciò che aveva dentro: cantarla davanti anche a una sola persona è un’emozione fortissima perché mi sento molto esposta e rivivo ciò che provavo quando l’ho scritta.
In barba al luogo comune che vuole l’amore adolescenziale passeggero…
Tanto che sono rimasta per quattro anni con la stessa persona: direi che proprio così passeggero non era. L’altra persona in questione solo ieri mattina ha scoperto come la canzone fosse dedicata a lei.
E come hanno reagito i tuoi genitori di fronte alle verità che ti riguardano che hai raccontato nelle canzoni?
Ho fatto sentire loro il disco prime che uscisse. Erano contenti del risultato, anche se mia madre quando ha sentito La mia generazione mi ha detto che non le piace… e ci credo che non le piaccia: è un atto di accusa verso il mondo degli adulti e dei genitori, in fondo la capisco. Ovviamente, non erano pronti a sentirmi dire determinate verità così crude sull’amore, sui disturbi alimentari o sulla società in generale, ma pian piano hanno iniziato ad accettare e apprezzare ciò che avevo da dire: sono sempre stati molto aperti mentalmente.
In La mia generazione passi in rassegna i malesseri della Gen Z. Si tratta di qualcosa che hai provato sulla tua pelle?
Per quanto riguarda la maggior parte delle cose, no. Ho sì sofferto di un paio di attacchi di ansia e forse anche di panico (ma non sono sicura che fossero tali) ma tendenzialmente sono sempre stata bene. Ma da ragazza empatica è come se avessi vissuto ogni malessere nel momento in cui lo osservavo nelle persone intorno a me. Ho visto davvero tante, troppe persone stare male da diversi punti di visti: quando notavo un’amica o un amico stare male, la vivevo male anch’io. La canzone è nata dall’esigenza di sfogare tutto ciò che vedevo e sentivo attorno a me…
Anche se in Stracci c’è un erso che dice “combatto ciò che non conosco con gli antidepressivi”…
Non sono antidepressivi reali ma metaforici. Per fortuna, non ne ho mai presi… i miei antidepressivi sono stati sempre naturali: l’alcol, purtroppo, per un po’ di tempo ma, soprattutto, il cioccolato. Mi drogo di cioccolato: quando sono giù, vado dritta di fondente.
Era una dipendenza quella dall’alcol?
No. L’uso dipendeva da quel meccanismo per cui in adolescenza, se si è tristi, si beve. Anche perché viviamo in una società in cui, intorno a te o in un film, stanno tutti a bere: arrivi al punto di considerarlo normale. Ho iniziato a bere molto presto, intorno ai 15 o 16 anni, l’ho fatto per un po’ ma ho poi smesso. Tuttavia, è un problema a cui molti non pensano o a cui non attribuiscono la giusta importanza: vedo adolescenti intorno a me che bevono anche prima di entrare a scuola o durante le ore di lezione.
Trovo assurdo che nessuno se ne sia mai accorto. C’è davvero un grosso problema su come vengono percepiti i ragazzi. Non c’è comprensione e c’è molta disattenzione. Un genitore che scopre suo figlio a farsi dei tagli per autolesionismo o sua figlia a vomitare dopo aver mangiato è più incazzato per il gesto che preoccupato per le motivazioni che lo o la spingono a farlo. C’è un’incomprensione generazionale su cui speravo di attirare l’attenzione parlandone in una canzone: l’obiettivo era quello di spingere qualche genitore o professore ad aprire gli occhi.
Speravi nel senso che non ci sei riuscita o che aspetti ancora il risultato?
Ho ricevuto diversi feedback in merito, alcuni positivi e altri negativi. Ma a me basta essere arrivata anche a una sola persona: non tutti hanno capito ma non potevo sicuramente cambiare il mondo da sola.
Tra riuscire a capire e non voler capire c’è una questione di fondo da non sottovalutare: la volontà di farlo. Così come ci vuole volontà per amarsi e andare avanti. Qual è il rapporto che hai con te stessa?
Ultimamente, un po’ più difficile. Ma è sempre difficile il rapporto con se stessi. Non lo sa quasi nessuno ma Stracci, che sembra dedicata a un’altra persona e raccontare una relazione finita, parla in realtà della relazione che ho con me stessa. “Sei un mostro, così mi uccidi”: basta questa frase per far capire che non sia proprio rose e fiori ma ci sto lavorando.
Ma è inficiato il rapporto in qualche modo da quello che hai con il mondo esterno, da cui può provenire il giudizio degli altri?
Anche in questo caso, del giudizio altrui a me importa davvero poco.
Ragione per cui hai anche una certa immagine, decisa e unica, che rivela anche una certa dose di coraggio, voglia di osare ed essere se stessa?
Ho avuto degli ottimi esempi a cui ispirarmi. Oltre alle personalità che seguo sui social, ho sempre avuto intorno gente con i controcoglioni. Sono cresciuta in un ambiente in cui sono stata spinta a vivere come volevo e a fregarmene del giudizio altrui. Devo molto a mia madre, per esempio.
Che rapporto hai con lei?
Da quando sono andata via di casa per andare a vivere da sola e studiare a Milano, è migliorato tantissimo il rapporto con i miei genitori. Uscendo dal nido, ho cominciato a chiamare casa e a parlare effettivamente con i miei genitori. Sono diventata amica di mia madre e non so se sia sanissimo (ride, ndr) ma so che è molto bello. Mia madre mi ha insegnato molto: caratterialmente assomiglio più a mio padre ma da mia madre ho preso buona parte dei difetti e qualche pregio.
Quali?
Un pregio è sicuramente la pazienza, in pratica non mi arrabbio mai. Un difetto è invece il disordine: vivo in un modo molto disordinato che per me invece ha un senso. Per me, ogni cosa non ha un posto predefinito: il loro posto diventa quello dove le metti. E nella pratica questo si trasforma in un casino.
Tu sei romana, eppure dedichi una canzone, SMN, a Santa Maria Novella, la stazione ferroviaria di Firenze. Ed è l’unica canzone, se vogliamo, felice dell’intero ep, in grado di restituire la gioia con cui è stata scritta. L’arrivo alla stazione descrive benissimo l’emozione che si prova quando si va incontro alla persona amata.
È un pezzo molto felice. Ho avuto una relazione a distanza molto lunga. Il mio primo amore era una ragazza che viveva a Firenze e l’arrivo alla stazione era accompagnato da un turbinio di emozioni che precedevano l’incontro stesso. L’attesa dell’incontro si portava dietro tutto il desiderio e il piacere del rivederla. L’abbraccio si sarebbe risolto in un istante ma l’attesa era più lunga e dal sapore più intenso.
Hai cominciato a studiare pianoforte a cinque anni.
E non è che mi piacesse molto. I miei genitori mi avevano chiesto se volessi iniziare a studiare uno strumento, avevo risposto la chitarra ma ero troppo piccola per farlo: non ero manco in grado di tenerla in mano, pesava forse anche più di me. Mi mandarono allora a lezione di piano, l’ho studiato per cinque anni ma mi annoiavo abbastanza: ritrovarsi a sette anni a eseguire un pezzo di Mozart non era per me proprio il massimo.
Ma prendi la chitarra in mano quando a dieci anni ti trasferisci con tutta la famiglia a Bruxelles.
Non ero per nulla contenta di trasferirmi e di lasciare Roma… paradossalmente, suonando la chitarra, mi sono resa conto che mi piaceva anche il pianoforte: potevo combinare i due strumenti insieme e cominciare a registrare le mie prime canzoni. Cosa che ho effettivamente fatto, motivo per cui dopo le prime cover ho iniziato a scrivere qualcosa di mio.
Vivi oggi da sola a Milano. Qual è la pressione maggiore di cui ti sei liberata?
Gli orari in cui mangiare. Amo stare da cosa e la cosa che più mi piace è il poter mangiare da cosa quando voglio io, dove mi va e cosa mi va. Se decido di mangiare fagioli alle 4 di notte sul letto, posso farlo. Mi stavano stretti gli orari o il dover stare a tavola tutti insieme fino a quando tutti avessero finito: è stato liberatorio poter mangiare anche in piedi o davanti al computer!
Ti stanno stretti gli orari ma anche le regole.
Abbastanza. Sono del parere che le regole non vadano imposte ma autoimposte. Riesco a seguire e rispettare le regole che capisco e che mi impongo da sola.
Se le relazioni con gli adulti sono complicate, come sono quelle con i tuoi coetanei?
Non facili. Spesso mi trovo meglio proprio con gli adulti o con quelli più piccoli di me. È come se vivessi in un’età non mia, come se non stessi nella fase giusta di vita.
Cosa significa per te la parola diversità?
Ho studiato al liceo scientifico e mi appello spesso a una spiegazione biologica. Siamo tutti biologicamente diversi a causa di un dna che, anche nei gemelli, è differente per tutti. Quindi, siamo tutti diversi per natura e il fatto di esserlo ci rende spaventosamente simili.
Hanno mai provato a farti sentire diversa attribuendo alla parola un’accezione negativa?
Ci hanno provato. All’apparenza sembro una persona molto sicura, che sdrammatizza, che ride e, nei casi peggiori, sfancula. Ma, quando torno a casa e sto da sola, penso a quanto mi hanno detto e mi prende anche un po’ male. Sono forte ma non sono invincibile.
Quando è accaduto, hanno provato a farmi sentire diversa per il mio aspetto fisico, per il mio modo di vestire e per il mio modo di essere o vivere. Non mi piace ad esempio andare in discoteca e per tutti ciò ha una valenza negativa, sono la strana: quando non ci si omologa agli altri, si viene categorizzati come diversi o asociali.
E per le tue scelte sentimentali?
Abbastanza poco ma è successo. I commenti, le risatine o gli sguardi sono arrivati non dalle persone vicine a me (amici o compagni di scuola) ma dagli sconosciuti che incontro per strada. Ma ho imparato a dare poco peso a ciò che viene detto da chi non ci conosce: è la mia massima di vita. Siamo noi che attribuiamo alle cose, belle o brutte che siano, il potere di trasformarsi in importanti.