Caterina Rocchi, aka Pane e Manga, ha meno di trent’anni ma già a diciassette anni ha fondato una scuola, la Lucca Manga School, che forma non solo studenti dagli 8 ai 99 anni ma anche i futuri insegnanti. Il disegno ha sempre fatto parte della sua vita, sin da quando da bambina non ha mai smesso di lasciar bianchi i fogli che le capitavano sotto tiro.
Un talento e una passione quella per il disegno che già a tredici anni ha portato Caterina Rocchi, aka Pane e Manga, a cominciare a studiare giapponese e a far la spola con il Sol Levante, anche su consiglio di due genitori che hanno sempre intravisto il suo potenziale e non hanno provato a farle cambiare idea. A differenza di tutti quegli adulti che invece storcevano il naso di fronte alle sue scelte o dei coetanei che consideravano il disegno una stranezza e la emarginavano.
Mentre la Lucca Manga School si prepara ai corsi pasquali, Caterina Rocchi, aka Pane e Manga, si è raccontata in esclusiva a TheWom.it con un’intervista che scava a fondo nel suo passato ma anche nel suo presente e nel suo futuro, sia come direttrice di scuola sia come fumettista. Non si è tirata indietro nemmeno quando le abbiamo chiesto cosa l’ha appassionata dei manga o come l’abbiano accolta i colleghi maschi. Anche perché Caterina Rocchi, aka Pane e Manga, le cose non le manda certo a dire e lo sanno bene coloro che ha asfaltato quando hanno provato a farle pesare le differenze di genere.
Intervista esclusiva a Caterina Rocchi, aka Pane e Manga
Cosa ti ha spinta verso il disegno?
Ho sempre avuto le idee molto chiare. Sin da piccola sono stata portata per il disegno: tutti i bambini lo sono ma io non ho mai smesso di disegnare. L’ho sempre fatto ed era a tutti chiaro che da grande non avrei fatto l’avvocata o la matematica.
Avevo 11 anni quando ho espresso ai miei genitori il mio interesse per il disegno manga, per quei fumetti che mi avevano colpito. Non hanno provato a farmi cambiare idea ma la prima cosa che mi hanno detto è stata: “Bene, allora comincia a studiare il giapponese perché è una cosa che si fa in Giappone: se vuoi imparare a farlo, in Italia non c’è nulla che ci convinca e dovrai andare lì”. E così ho fatto: ho cominciato a studiare il giapponese e a 14 anni sono stata per la prima volta in Giappone, dove sono poi tornata ogni anno.
Nel frattempo continuavo anche a proseguire il mio percorso di studi. Frequentavo il liceo artistico e, quindi, fondamentalmente studiavo e disegnavo 11 mesi su 12, mettendo da parte tutto quello che poteva essere l’adolescenza. Era chiaro che ero come ossessionata dal disegno: non mi interessavano i vestiti o i compagni di classe e non andavo in discoteca.
Mentre i miei coetanei andavano a ballare, cominciavano a bere, desideravano le scarpe nuove o il motorino, io chiedevo solo di avere la connessione internet libera per poter guardare i miei anime preferiti e avere a disposizione risme di carta su cui poter disegnare. Ricordo che compravo due pacchi di fogli da cinquecento all’anno e che li consumavo tutti.
Ricordi qual è stato uno dei primi manga o anime che ti appassionava?
Sicuramente uno dei primi fumetti che ho cominciato a seguire è stato Naruto. È grazie a lui che ho poi cominciato a disegnare quello che è stato il mio primo fumetto, una storia collaborativa in tandem con la mia compagna di banco, l’unica in classe alle medie che come me disegnava. Ci passavamo questo quaderno e ognuna di noi disegnava una vignetta, portando avanti la nostra con i nostri personaggio che vivevano avventure nel mondo di Naruto.
La tua inclinazione per il fumetto ti ha portata però negli anni di crescita a essere oggetto di bullismo ed emarginazione.
Viviamo in una società dove deviare dalla norma non è molto ben visto. Ripensando a quel periodo, trovo onestamente agghiacciante il fatto che le mie compagne di classe alle elementari avessero come massima aspirazione quella di voler fare le veline. Mi fa accapponare la pelle ma la norma era quella: sognare di diventare veline o mamme, dato che avevano tutte un bambolotto con cui giocare a far le madri. Io non riuscivo a giocare con loro in quella maniera, non riuscivo a giocare a far la mamma: io ero un gatto.
E in effetti mi sentivo come se fossi una bestia strana in un mondo che non era fatto per me, un’infiltrata in un posto in cui nessuno la pensava come me. Per me, era chiaramente difficile fare amicizia o trovare persone che avessero la flessibilità mentale di guardare al di là di quella che poteva sembrare un’iniziale stranezza.
Forse è anche per questo motivo che sono molto soddisfatta del lavoro che ho fatto con la Lucca Manga School: è diventata un posto molto sicuro e molto aperto in cui anche gli insegnanti con qualche annetto in più rispetto alla media si sono adattati alle nuove realtà. Ci stiamo muovendo per fortuna verso una direzione più positiva e meno repressiva.
L’avvento di internet ha poi fatto sì che diventasse anche più facile per le persone che rimangono marginalizzate trovare compagnia. Io per prima mi rifugiavo nel mio mondo virtuale perché quello reale non aveva molto da offrirmi.
Quella della Lucca Manga School è anche una realtà molto inclusiva, dal momento che è aperta a tutti gli studenti senza distinzione di età, genere o abilità psicomotorie.
Sì, assolutamente. Per me l’importante è che gli studenti imparino o facciano qualcosa che piace loro e che incontrino persone in grado di comprenderli: facciamo tutto il possibile per assistere gli studenti, andando anche incontro a chi per un motivo o per un altro ha qualche difficoltà in più, non solo psicologica o motoria. Una delle cose che facciamo è ad esempio insegnare a colorare a una persona daltonica.
Non abbiamo mai trattato il corpo studenti come se fosse un unicum: ogni studente è una persona unica. Preferiamo lavorare con classi piccole composte più o meno da dieci persone per dare la possibilità agli insegnanti di adattarsi a ciò che lo studente ha bisogno e per permettere loro di passare un po’ di tempo in più insieme.
A breve inizieremo i corsi pasquali. Durante le vacanze di Pasqua, terremo tre giorni di workshop full immersion a cui chiunque può partecipare: ci saranno un po’ di corso (si possono già sbirciare sul sito della scuola) aperti a tutti, dagli 8 ai 99 anni, senza alcuna distinzione. Si potrà partecipare in presenza: in sede ci si può fermare anche a dormire creando anche i presupposti per incontri e amicizie che si spostano dalla sfera digitale al mondo reale. Ma anche a distanza: i corsi online rappresentano sempre una soluzione ugualmente importante e comoda.
Ci fai un esempio delle materie che vengono studiate?
Si studia l’anatomia, l’inchiostro, l’azione, la struttura della storia, la creazione di una pagina, ma anche il colore e la prospettiva. A ciò si aggiungono anche delle materie un po’ più particolari, come l’interazione tra i personaggi e l’acting fisico del personaggio all’interno della pagina (un re, ad esempio, si muove diversamente rispetto al suo valletto).
Te le ho fatte elencare per demonizzare quel luogo comune secondo cui disegnatori ma anche attori, musicisti e via di seguito, si divertono e non studiano…
Noi per primi ci ritroviamo a dover spiegare che la nostra è una scuola in cui ci si diverte ma si studia tutti parecchio. La scuola non è un parcheggio per chi non sa che fare. Siamo molto seri in quello che facciamo perché anche il divertimento è una cosa seria alla fine. Il disegno, il fumetto è parte del mondo dell’Entertainment, un universo molto più duro di quello che può sembrare. Quando guardiamo un programma in televisione, non abbiamo la più pallida idea di quanto lavoro ci sta dietro!
Personalmente, tutte le volte che vado in Giappone mi sento dire di essere andata in vacanza. Mi si chiede che cosa ho visto o che luogo ho visitato. Ignorano che io sia stata lì per lavoro o che abbia dormito poco o niente per parecchi giorni.
Quante volte ti sei sentita dire che disegnare non era un lavoro?
I miei primi detrattori sono stati gli adulti quando ero piccola. Quando intorno ai 13 anni ho cominciato a dire che avrei frequentato il liceo artistico, chi me lo chiedeva passava dal sorriso alla delusione negli occhi in pochi secondi. Era una delusione che non capivo perché per me era molto chiaro quanto lavoro ci fosse dietro al disegno.
Non era molto incoraggiante vedere quelle facce, le stesse di chi oggi non capisce in realtà che lavoro ci sia dietro una scuola di fumetto. Mi tocca spiegare che l’anno scorso ha superato i 1300 studenti, ha un corpo di 18 insegnanti di cui mi occupo personalmente, che è come una piccola azienda vera e propria da mandare avanti e che, come tale, comporta anche impegno quotidiano per incastrare un po’ tutto.
E come sei stata accolta in quanto donna?
Da quel punto di vista sono stata abbastanza fortunata. Non ho avuto grossi problemi ma, allo stesso tempo, essendo donna, ciò che io considero un problema minore potrebbe far accapponare la pelle ad altri. Non credo, onestamente, di affrontare niente di diverso da qualsiasi altra donna nel mondo del lavoro: ci sarà sempre la persona che crede di parlare con la segretaria o che mi chiede chi è il direttore della scuola, chi non ti prende sul serio o chi non crede che sia una professionista. Quando capita, mi consolo in un certo senso: chi non considera una giovane donna una direttrice di un’azienda seria non ha la flessibilità mentale di lavoro nel mio capo di lavoro in generale.
E i tuoi colleghi uomini fumettisti? In Italia, a parte qualche rara eccezione, non è che fosse così comune trovare una donna fumettista…
Ormai più che fumettista sono direttrice di una scuola di fumetto che mi occupa tanto tempo. C’è stato chi ha cercato di venire da me per insegnarmi il mio lavoro. Ma questo capita sempre con persone che hanno meno capacità di me: chi è veramente bravo è capace di riconoscere che so il fatto mio. Capita anche che qualche studentello cerchi di rimettermi al mio posto: non so cosa pensino di fare ma vengono puntualmente o ignorati o asfaltati.
In tutti questi anni, come hai visto evolversi i personaggi femminili raccontati dal mondo dei fumetti?
Dipende sempre dalla testata e dall’autore in generale che prendiamo in considerazione. Onestamente, ho visto un peggioramento rispetto a ciò che c’era quando stavo crescendo io. Forse è anche la nostalgia che mi mette le fette di prosciutto sugli occhi ma vorrei vedere qualcosa di più interessante rivolto al pubblico femminile. Il manga o comunque tutti i prodotti del mercato asiatico – stiamo lavorando anche con i webtoon, il fumetto con un formato a scorrimento verticale fatto per essere letto sullo smartphone – sono intensamente femminili. Così come molto alta è la percentuale di donne che vengono nella mia scuola e che si dichiara appassionata del genere proprio perché colpita dal fatto che ci fossero delle protagoniste femminili.
Quand’ero piccola, leggevo volentieri libri e fumetti. Ma i fumetti avevano un problema di fondo: i protagonisti, da Topolino a zio Paperone, erano sempre uomini di una certa età in cui io, bambina di nove anni, non potevo immedesimarmi. Non potevo vedermi come Lupo Alberto: gli voglio molto bene, è stato parte integrante della mia infanzia e mi piace ancora molto, ma non capivo perché si volesse imboscare con quella gallinella. Così come Dylan Dog: ho i primi 200 volumi in libreria ma non è un fumetto che una bambina può capire fino in fondo.
È la prima volta che ho letto un manga che per me si è aperto un mondo: ho preso una testata qualsiasi semplicemente perché mi attiravano i disegni e mi sono ritrovata tra le mani la storia di una ragazza che frequentava le superiori e che aveva una cotta per il suo compagno di classe mentre il suo migliore amico l’aveva per lei e la sua migliore amica per lo stesso ragazzo. Era una storia per carità romantica ma banale ma era qualcosa che potevo capire, trattava di problemi che per me erano attuali e di situazioni che vivevo in quel momento.
Per la prima volta, mi sono sentita capita. Non ho dovuto fare io lo sforzo di capire il personaggio ma è stato il personaggio che capiva me: è stato un punto di svolta che mi ha cambiato la vita. Se quel giorno non avessi preso quel fumetto in quell’edicola, chissà oggi dove sarei.
Il manga ha anche un’altra potenza. Non si trattiene dal toccare argomenti difficili, qualcosa che il fumetto occidentale non fa. Ed è un motivo per cui non raggiunge i livelli di vendita dei manga. Da noi, si sottovaluta in maniera criminale l’intelletto dei bambini. Ci sono la credenza e l’arroganza di voler proteggere i bambini da tutte le cose brutte del mondo quando in realtà queste fanno parte di una fase cruciale dell’infanzia, dove si comincia a esplorare il rischio in maniera controllata. I manga permettono di farlo senza doversi esporre fisicamente.
Hai già scritto una sorta di manuale, Come far finta di essere un fumettista professionista e diventarlo davvero, e stai lavorando al tuo nuovo libro. Di cosa tratterà?
Dopo aver parlato di giovani che stanno per entrare nel mondo del lavoro, ho spostato la mia attenzione a molto prima, ai bambini delle scuole elementari, a quelli che stanno cominciando a disegnare. Esploreremo il Giappone imparando a disegnare.
Avrà lo stesso tono anche scanzonato del primo?
Credo fermamente che l’insegnamento non debba essere noioso, soprattutto in un campo come quello del disegno, dove non si smette mai di imparare e si continuerà a studiare per tutta la vita. Cerco quindi di alleggerire la fatica senza andare però ad alleggerire il tema.