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Caterina Shulha: “Il mio cuore tra Italia e Bielorussia” – Intervista esclusiva

caterina shulha
Attrice tra le più talentuose della sua generazione, Caterina Shulha esordisce alla regia con Insultati. Bielorussia, un film che dà voce al suo popolo ed è legato a un importante progetto in sostegno di donne e bambini che fuggono dalla guerra in Ucraina o dalla repressione in Bielorussia. Di questo e di molto altro abbiamo parlato nel corso di un’intervista tra pubblico e privato.
Nell'articolo:

Quello di Caterina Shulha è un volto che non passa inosservato. Non è solo una questione di bellezza ma anche di bravura e credibilità. Di recente, l’abbiamo vista al cinema nel bellissimo The Land of Dreams e nel futuristico Ipersomnia ma anche in televisione tra i protagonisti della serie tv di Rai 1 Blackout – Vite sospese, dove interpretava di Irene, la giovane infermiera dell’Est Europa, compagna del meccanico Marco.

Per elencare i progetti a cui Caterina Shulha ha preso parte non basterebbe una pagina intera, dai Cesaroni a Un passo dal cielo, ma del resto non è mai stata con le mani in mano. Anche quando non era sul set era impegnata a far qualcosa, a prendere lezioni di canto o a imparare ad andare a cavallo. Ha avuto sempre un paracadute, come ci racconta lei in quest’intervista esclusiva in cui si apre in maniera inedita e profonda, sia sul suo percorso artistico sia su quello personale.

L’occasione del nostro incontro con Caterina Shulha è data dal suo primo impegno come regista. Ha infatti deciso di passare anche dall’altro lato della macchina da presa con un lavoro impegnativo ma necessario: Insultati. Bielorussia, un film tratto dalla pièce di Andrei Kureycik. In scena, un gruppo di affermati attori danno voce alla drammatica situazione che la Bielorussia, Paese originario di Caterina Shulha, sta vivendo a causa del sesto mandato presidenziale di Aleksandr Lukashenko la cui elezione è stata tutt’altro che democratica.

Insultati. Bielorussia è soltanto uno degli impegni che Caterina Shulha sta portando avanti per i suoi fratelli rimasti sotto un giogo che li priva delle libertà anche più elementari, a cominciare da quella di parola. Beneficienza è una parola riduttiva per spiegare ciò che nel privato sta portando avanti senza proclami: insieme alla madre, Caterina Shulha si occupa di una casa di accoglienza in Polonia che ospita donne e bambini in fuga dalla guerra in Ucraina e dalla repressione in Bielorussia.

La casa di accoglienza a Varsavia è stata aperta nell’aprile del 2022 dalla Fondazione Kraj do zycia (Paese per la Vita, voluta da Svetlana Tichanovskaja e suo marito) con il sostegno dell’organizzazione italiana Progetto Sud. Qui i residenti trovano un rifugio gratuito e vivono in stanze individuali per un periodo che varia dall’1 ai 3 mesi, durante i quali vengono aiutati a costruirsi legalmente un futuro migliore. Chi volesse, trova qui tutte le indicazioni e le informazioni sul progetto e sulle donazioni.

Caterina Shulha.
Caterina Shulha.

Intervista esclusiva a Caterina Shulha

Insultati. Bielorussia è il tuo debutto alla regia. Il tema di fondo, la dittatura di Lukashenko, è molto ostico e per certi versi lontano da noi. Scegli il testo di un autore bielorusso per affidare dei monologhi a un gruppo di attori eccezionali, senza che lo spettatore avverta mai un momento di stanca e senza ricorrere all’escamotage dei filmati da documentario.

Siamo abituati a vedere i servizi ai telegiornali, a leggere sui libri quanto accaduto e a informarci, ma per raccontare una storia del genere serviva ricorrere alla vita comune delle persone: è attraverso il loro racconto che può arrivare direttamente la durezza di una realtà che fatichiamo a comprendere. Poiché non posso partire e testimoniare sul campo quello che accade nel mio paese d’origine (ma anche in Ucraina, perché non dimentichiamo che siamo tutti fratelli), era mio obiettivo raccontare la verità che vivono anche molti dei miei amici andati a combattere.

Metti in scena i monologhi di persone semplici, dal poliziotto al manifestante ucciso, ma anche di personalità più illustri. Oltre a Lukashenko e alla moglie, ci sono ad esempio le ipotetiche parole del figlio del presidente, portato in scena da Giacomo Ferrara. È un giovane di oggi e come tale il simbolo di tutti quelli che aspirano ad avere maggiore libertà e diritti.

Ho scelto di raccontare le conseguenze che le azioni di un singolo individuo hanno sulle persone che lo circondano. Tutti quanti si ritrovano a subire gli effetti delle decisioni di una sola persona che da un giorno all’altro prende provvedimenti senza senso e decide di portare avanti una guerra che neanche il proprio figlio comprende: nessuno avrebbe mai preso un fucile in mano e cominciato ad attaccare e uccidere qualcuno.

Purtroppo, nel caso del presidente bielorusso ma anche di quello russo parliamo di individui folli che decidono per tutti. E il popolo spesso reagisce: due anni fa, ad esempio, le proteste in Bielorussia erano molto forti. Persistono ancora oggi ma hanno perso potenza per via dell’inasprimento delle condanne: basta camminare in strada con dei pantaloni bianchi e rossi per prendersi tre o quattro giorni di galera. Si sta rasentando un livello di follia senza ritorno.

Fin quando potrò continuerò a raccontare ciò che accade alla gente. E ripeto non è solo la Bielorussia ad avere come presidente un tizio che nessuno ha votato.

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Diciamo che quella della Bielorussia è una storia purtroppo universale. Di presidenti che non sono democraticamente tali ne esistono diversi al mondo. Motivo per cui Insultati. Bielorussia, il tuo film, assume un valore più universale.

Quello che più mi sconvolge è pensare come Bielorussia, Russia e Ucraina fossero dei paesi fratelli, figli di un unico grande Paese. Ci sono famiglie divise a metà tra Kiev e Mosca, i cui componenti partivano per questioni di lavoro. Ma questo non dà a nessuno il diritto di riconquistare gli altri e imporre la propria supremazia. È un aspetto che non viene mai raccontato ma sto per curiosità seguendo anche quanto avviene nello star system russo: ci sono personalità che hanno lasciato Mosca perché non hanno più accettato una guerra insensata nei confronti di quelli che a Kiev erano i loro fratelli. Nessuno si aspettava una roba così radicale e folle da un giorno all’altro.

Mentre parliamo non nomini mai il nome di Lukashenko. Trovi diversi termini per definirlo ma non lo chiami mai per nome. Nel tuo film è ad esempio presente come “il Vecchio”, il cui monologo è affidato a Stefano Fresi.

Chiamarlo per nome significherebbe già considerarlo un individuo, una persona. Per me, rimane uno che ha ammazzato e sta ammazzando insieme a un altro alla sua pari, Putin, migliaia di uomini, donne, nonne, nonni, bambine e bambini. Non può essere considerato un individuo, mi dà anche fastidio dargli un nome. Nel monologo della parte iniziale del film, lo si presenta per quello che è: il “Vecchio” attaccato a qualcosa che gli sta sfuggendo di mano e che gli sfuggirà, una conseguenza che non si aspettavano ma del quale siamo convinti sia noi sia l’Ucraina. È per questo che continuiamo a resistere: prima o poi finirà, non può più andare avanti o rinnovarsi. Ci metterà tantissimo a finire, perderanno la vita tantissime altre persone ma dovrà terminare.

È una situazione a cui assisto da quando ero piccola. Ricordo i discorsi dei grandi ogni volta che si avvicinavano le elezioni e c’era sempre un clima di sfiducia. Oggi siamo passati dal “cosa andiamo a votare” al recarci alle urne per farlo. E forse è proprio per questo che siamo incazzati, per la presa per il culo: possibile che da decenni votiamo diversamente e lui sia ancora al potere? Per far sì che un cambiamento effettivo abbia atto, i giovani non lasciano più la Bielorussia come una volta ma rimangono per continuare a far sentire la loro voce.

Dal tuo punto di vista, perché in Italia non si parla molto di quello che accade tuttora in Bielorussia?

Ti rispondo sinceramente. Se n’è parlato molto quando il Vecchio è stato rieletto per la sesta volta con l’82% dei voti. Poi, lo scoppio della guerra in Ucraina ha portato, giustamente, l’attenzione altrove. Nel mio piccolo, sto cercando di far conoscere la situazione portando il mio film nei vari festival. Cerco così di farmi ascoltare e di catturare un po’ di interesse.

Rispetto all’Ucraina, c’è anche un impatto mediatico differente. Un leader come Zelensky è dotato di una certa personalità ed è in grado di rappresentare tutto il suo popolo. In Bielorussia, invece, la resistenza passa per il popolo e non per una persona eretta a simbolo. Negli ultimi tempi, abbiamo a rappresentarci la figura di Svetlana Tichanovskaja (nel film impersonata da Ambra Angiolini, ndr): è stata ricevuta dai vari Capi di Stato, dall’America all’Europa, ma il suo è un cammino che procede piano piano. L’ho conosciuta quando è venuta a Roma, occasione in cui le ho fatto vedere il mio progetto, ma anche lei ha difficoltà a farsi ricevere dalle cariche più alte. Ad accoglierla ci sono stati sempre quelli che “avevano meno da fare”.

La guerra in Ucraina tocca maggiormente noi italiani per le sue conseguenze pratiche: non arrivano più i pezzi di ricambio per le macchine, il grano, il gas, la benzina e tutto ciò che vuoi. Fin quando qualcosa non smuove il divano di casa, non ce ne interessiamo. A volte, io stessa quando racconto storie vissute in prima persona dai miei amici o dai miei familiari (un mio zio è stato arrestato solo per un commento su Facebook ed è tornato in libertà solo sganciando una lauta somma di denaro), non vengo quasi creduta: sembra tutto finto per quanto è talmente assurdo.

Fin quando non si vivono, certe situazioni non sembrano possibili. In Italia viviamo in un Paese dove la libertà di stampa non è in discussione e, quindi, non riusciamo a immaginare come si viva dove manca anche la libertà di parola: lo leggiamo sui libri e pensiamo che sia un problema sepolto anni fa con altri personaggi storici.

Svetlana Tichanovskaja e Caterina Shulha.
Svetlana Tichanovskaja e Caterina Shulha.

Come accennavamo anche prima, nel tuo film Insultati. Bielorussia non si citano mai le persone con nome e cognome. Si ricorre semmai a dei termini per definirli: il Vecchio, la Positiva, il Morto, il Giovane, la Nuova, il Volatile e la Didatta.

Ogni storia racchiude la storia di tante persone, non potevo limitarmi a un nome. Per farti un esempio, quella della Didatta è la storia di tantissime persone che vivono con una mentalità chiusa e che non credono che esistano persone cattive. Lo capisce solo quando toccano la sua sfera. Quella del Giovane non è solo la storia del figlio del presidente ma anche quella di tanti coetanei che mai avrebbero voluto trovarsi in quella situazione.

Tutti i personaggi sono interpretati da una schiera di attori che possiamo definire come tra i migliori dell’ultima generazione: tu, Ambra Angiolini, Carla Signoris, Luca Argentero, Ivano De Matteo, Giacomo Ferrara e Stefano Fresi. Come hai fatto a convincerli?

Sono rimasta molto meravigliata del loro supporto. Per molti dei miei colleghi, schierarsi anche solo politicamente è una decisione molto lunga e faticosa da prendere. Loro son quasi tutte persone con le quali avevo lavorato e con cui ero rimasa in contatto. Con alcuni, come ad esempio Ivano De Matteo, c’è anche un bel rapporto di amicizia per cui ci si vede anche al di fuori del lavoro. Ma da qui a pensare che mi dicessero sì e che prendessero un treno per venire a Roma da Milano o Genova (come nel caso di Carla Signoris) durante il CoVid per registrare ce ne vuole: è stata una cosa bellissima. Ho mandato a tutti quanti una mail in cui raccontavo la mia idea e quale personaggio avessi pensato per loro: ci avranno messo forse tre giorni per accettare. Non smetterò mai di ringraziarli.

Che futuro avrà il film?

Adesso sto montando su uno spettacolo teatrale con dei ragazzi giovani. Non hanno ancora dei nomi altisonanti ma il mio obiettivo è quello di portare il testo, molto leggero seppur parli di un argomento pesante, a quanta più gente possibile per continuare a informare, informare e informare. Il film in sé è passato al Trieste Film Festival e sarà presentato a Roma il 23: continuerò poi a organizzare proiezioni con i cinema e con tutti gli spazi che vorranno darmi una mano.

Anche perché sono proiezioni di beneficenza: a quella di Roma, parteciperà la maggior parte delle diaspore ucraine e bielorusse, i rappresentanti della Uil e qualcuno del Pd, tutte persone con le quali collaboro per dei progetti sociali che io e mia mamma portiamo avanti. Lo facevamo già da prima ma da quando è scoppiata l’emergenza ucraina ci occupiamo di una casa d’accoglienza in Polonia. Qui, vengono accolte soprattutto le donne sole con i bambini che scappano dalla guerra in Ucraina o dall’oppressione in Bielorussia: le ospitiamo per periodo, le sosteniamo con vitto e alloggio, forniamo loro sostegno psicologico e le aiutiamo a cercare un lavoro o in Polonia o ovunque vogliano spostarsi per continuare le loro vite.

Stiamo poi lavorando anche all’ipotesi di distribuzione del film ma è tutto molto complicato.

La casa di accoglienza a Varsavia seguita da Caterina Shulha e da sua madre Olga.
La casa di accoglienza a Varsavia seguita da Caterina Shulha e da sua madre Olga.

E che a sottolineare quanto sia complicato sia la compagna di un grosso produttore (Marco Berardi) la dice lunga sulle condizioni in cui versa il nostro sistema cinema.

È complicato anche per me. Ho incontrato il mio compagno quando ho cominciato a fare il lavoro di attrice. All’epoca, la sua società faceva dei contratti ai giovani attori ancora sconosciuti. Quando ci siamo conosciuti e innamorati, abbiamo disdetto il contratto e deciso ognuno di seguire strade lavorative diverse per i primi anni, proprio per evitare ogni pregiudizio patriarcale.

Nella casa di accoglienza in Polonia ospitate donne con i loro bambini. Una scelta che inevitabilmente mi fa pensare anche alla tua storia personale.

Mia mamma aveva imparato l’italiano grazie a quei cd che si allegavano ai giornali ed è arrivata alla Stazione Tiburtina a Roma con una sola certezza: un’amica che l’aspettava. Io l’ho raggiunta dopo due anni in cui facevo avanti e indietro. Quando mi sono trasferita anch’io, mi ha fatto studiare il programma scolastico italiano ma facendomi continuare anche quello bielorusso: non mi ha mai fatto mancare quella che era la mia cultura d’origine, mantenendola sempre viva. Il progetto della casa di accoglienza è nato soprattutto grazie a lei: io le do una mano e l’aiuto con la visibilità che serve per dei progetti.

Sei poi ritornata negli anni in Bielorussia?

Tornavo almeno due volte all’anno prima che la situazione diventasse critica come oggi. Ho anche portato con me Lorenzo, il mio primo figlio. Ci tornavo perché lì è rimasta gran parte della mia famiglia e perché avevo nostalgia di andare a passeggiare nei posti che ho lasciato a tredici anni e in cui ho fatto le mie prime esperienze adolescenziali, frequentato le scuole e salutato gli amici. Le mie due bimbe più piccole, Mina e Futura, invece non sono mai state in Bielorussia per via della situazione che si è creata: mia nonna, a settant’anni, è costretta lei a venire a vedere i nipoti per evitare ogni pericolo. È una situazione abbastanza pesante dal punto di vista affettivo e psicologico.

Cosa ti auguri che nel futuro le tue figlie sappiano o conoscano della Bielorussia?

È collegato a quello che cerco di insegnare loro e che si racchiude in un unico concetto: nella vita nulla è dovuto. I miei figli vivono una realtà quotidiana molto diversa da quella che ho vissuto io nei primi tempi in cui ero in Italia e non capivo perché si compravano cinque banane anziché sei. Mi sono scontrata molte volte con le opinioni di chi mi diceva che il contesto è diverso ma devono crescere con tale consapevolezza. Noi non siamo il contesto ma siamo quello che abbiamo dentro e quello che ci hanno insegnato i nostri genitori.

 È un po’ come quando vedi dei bambini maleducati al parco: non puoi prendertela con loro ma devi prendertela con i loro genitori. Si può anche vivere nel castello di Rapunzel ma, se i tuoi genitori ti insegnano a rifarti il letto, quando uscirai dal castello saprai come cavartela. Fa parte della mia mentalità, negativa o positiva che sia: nulla è dovuto e non bisogna mai abbattersi anche se a volte sembra quasi impossibile farcela.

Caterina Shulha sulla schermo

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Tu quando hai imparato che nulla è dovuto?

Nei primi anni in cui vivevo in Italia con mia mamma. Frequentavo la scuola a Ostia ma, abitando a Villaggio Tognazzi, ero costretta a prendere un autobus che la domenica non passava proprio e non mi permetteva di uscire gli amici o di andare al cinema. mi ricordo le mamme che ritiravano i loro figli con le macchine fin quasi dentro la scuola ed io ero contenta per loro: a casa avrebbero trovato la pasta pronta, qualcosa che sarebbe piaciuto anche a me… e invece ero costretta a cucinarmi il pranzo, a fare i compiti e a sistemare casa tutta da sola perché la mia di mamma lavorava fino a tardi. A sedici anni, però, ho trovato la mia strada e ho cominciato a lavorare come modella: la soddisfazione di poter pagare io una pizza a mia madre è stata una roba inimmaginabile.

Con voi non c’era un papà al seguito, non ne parli quasi mai…

È vero, non ne parlo mai ma sono super serena sull’argomento. Quando sono venuta a vivere in maniera stabile con mamma, abbiamo fatto un upgrade cerebrale: passare dalla Bielorussia a un Paese europeo occidentale ci ha mostrato che esistevano altre possibilità e altri orizzonti a cui non eravamo abituate. Ricordo che quando in passato tornavamo in Bielorussia, mia nonna si stupiva del fatto che mia madre dicesse “grazie” alle cassiere del supermercato: “Olga, non sorridere così”… mia madre aveva già acquisito un mood diverso: non che i bielorussi non sorridano ma non hanno l’abitudine di farlo per strada, c’è una cultura psicologica diversa.

Mio padre è invece rimasto legato a quel mondo lì, a quello degli anni Novanta, da tanti punti di vista. Quando ad esempio ho cominciato a raccontargli che lavoravo nel mondo della moda, non capiva e diceva che era “fuffa”, tutte cose inutili. Inizialmente accettavo con pazienza le sue parole ma, crescendo, il nostro rapporto è andato a sciuparsi.

Il mondo della moda che ti ha aperto la strada poi verso la recitazione sembra in questi ultimi tempi aver fatto un passo indietro per quanto riguarda i corpi e i messaggi legati alla body positivity…

Il mondo della moda si mostra molte volte aperto ai grandi cambiamenti e alle grandi inclusioni ma c’è ancora molto da fare per quanto riguarda tanti aspetti dell’inclusione sociale. Quando si lanciavano messaggi sulla body positivity e si usavano le modelle curvy è perché conveniva farlo, faceva notizia ed era cool, ma erano qualcosa che, secondo me, non è mai stato del tutto accettato.

E se le tue figlie da grandi ti dicessero che vogliono fare da modelle?

Mamma mia, spero proprio di no. Mi auguro che i miei figli facciano tutt’altro. Lorenzo, il grande, frequenta una scuola di musica popolare. Ogni tanto se ne esce con il desiderio di voler fare il cantante o l’attore e a me prende un colpo. Perché la meritocrazia è ormai diventato un concetto più unico che raro. Oggi è sempre più difficile, lo vedo anche con il mio lavoro, portare avanti nuovi progetti: un tempo la gente andava a teatro a scoprire nuovi talenti mentre oramai si punta sul sicuro. È un lavoro bellissimo il nostro ma sempre più difficile: sarebbe meglio avere in casa un medico, un avvocato o qualsiasi altra cosa. Bastano papà e mamma che si occupano di cinema.

Discutete di lavoro anche in casa?

No, discutiamo solo quando non va un mio progetto. Ma più che una discussione sono lamentele da parte mia verso la vita e viceversa. Quindi, è più uno sfogo che una discussione.

Sono tanti i progetti che ti vedranno presto protagonista, da Il Re 2 con Luca Zingaretti a una serie tv thriller che stai girando in Svizzera…

Si chiama Alter Ego e sono affiancata da Gianmarco Tognazzi e Matteo Martari. Interpreto un personaggio per me inedito, quello di una giornalista che però non è proprio buona buona. Non posso far spoiler ma ha combinato bel po’ di casini, anche abbastanza pesanti.

Ti piace il thriller? Sono diversi i titoli del genere a cui hai preso parte, dalla serie tv Blackout ai film Ipersomnia e The Boat.

Molto. Mette in gioco parti di me lontanissime da quelle che sono. Per anni non mi hanno mai provinato per ruoli da thriller perché, dopo a Un passo dal cielo, mi si proponevano sempre parti da brava ragazza, da fidanzata a figlia di qualcuno, anche per via del mio aspetto angelico. Ma io mi diverto a interpretare anche personaggi che di angelico non hanno nulla.

È cambiato l’atteggiamento ai provini nei tuoi confronti?

Sicuramente sì da quando negli ultimi anni ho cominciato a lavorare tanto (faccio gli scongiuri mentre lo dico!). Ma non ho mai avuto l’ansia del dover necessariamente lavorare: quando non mi chiamavano, cercavo di far altro che mi potesse un giorno servire non solo per il mio percorso professionale. Ho sempre avuto una sorta di paracadute appresso: su un set ho la tendenza a diventare amica di tutti, mi fa impazzire la figura del runner e, quindi, se un giorno non dovesse più andare o resto a casa con i miei figli o faccio la runner!

Lavorando appunto tanto mi sono guadagnata la fiducia degli addetti ai casting o dei registi. Il mondo del cinema è come un piccolo paese: tutti si parlano e sanno quale sia la mia diligenza. La devo alle mie radici bielorusse: su un set per me prima di lavora e poi ci si diverte. Sono easy, alla portata di mano di chiunque, amo scherzare ma non mi sono mai permessa di presentarmi al lavoro senza sapere una battuta. È qualcosa che trovo inaccettabile, così come trovo inaccettabile che non si rispettino le clausole di un contratto: se c’è scritto di non praticare sport estremi durante le riprese, non vado di certo a sciare.

E la questione molestie?

È inutile girarci intorno: ci sono. Ma abbiamo sempre il potere di dire sì o no, a meno che non ci si trovi in una condizione in cui è impossibile respingere un attacco, bloccate contro un muro da un energumeno o con un coltello alla gola. C’è chi dice sì e non giudico la scelta ma è un altro tipo di carriera quella che affronta, costruita su altra roba che esula dal percorso artistico e che prima o poi chiederà il conto.

E a chi potrebbe dirti che per te è facile parlare?

Risponderei che esistono tanti registi che sanno chi è il mio compagno e che non hanno esitato a provarci. Non funzionava nemmeno quello come deterrente. Ecco perché ribadisco che, a meno che non ci sia un pericolo per la propria incolumità, è sempre una questione di sì e di no: tutte abbiamo la possibilità di scegliere la risposta.

Caterina Shulha.
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