Chiara Celotto nella serie tv evento di Rai 1 Mameli interpreta Adele Baroffio, la rivoluzionaria che tornerà a far battere il cuore di Goffredo a distanza di tempo dalla morte di Gelsomina, suo primo grande amore. Donna forte e indipendente, la Adele di Chiara Celotto è sposata a un benestante cavaliere che, per codardia, ha lasciato la città mentre la moglie abbracciava la causa repubblicana divenendo quell’amore travolgente che Mameli vive fino alla fine dei suoi giorni.
“Mi ha riempito di orgoglio ed emozione interpretarla”, esclama entusiasta Chiara Celotto quando le chiediamo del suo personaggio in Mameli. “È una donna che ha combattuto per quei diritti delle donne di cui anch’io oggi posso usufruire. È stato un pensiero costante durante le riprese: stavo impersonando qualcuno che aveva lottato e che si era sacrificato anche per me”. Sì, perché la sua Adele è anche colei che, seppur cedendo ai sentimenti per Mameli, si rivela moderna e coraggiosa nel dare voce al suo sesso in un’epoca in cui non era ancora possibile: con ardore, difenderà infatti il suffragio universale quando si discuteranno gli articoli della costituente.
Oggi si direbbe che Adele fosse una ribelle. E la ribellione è una parola chiave per capire chi è Chiara Celotto al di là del suo personaggio in Mameli. Nel corso della lunga intervista che ci ha concesso, Chara Celotto non smette mai di ridere: è una sua caratteristica peculiare anche perché, come ci dice tra una battuta e l’altra, alla fine il suo è un lavoro divertente, quasi surreale o paradossale ‘quando ci si ritrova a recitare con il corsetto con 40° d’estate’.
Lei che in una vita alternativa avrebbe potuto essere la Rosa Ricci di Mare fuori (aveva sostenuto il provino quando, per farsi conoscere dai casting, prendeva al volo tutte le occasioni possibili) è oggi una ragazza che cerca di capire chi è. Oltre a Mameli, rivedremo Chiara Celotto nella seconda stagione di Avvocato Malinconico, nella serie Netflix Sara e in La casa degli sguardi, primo film diretto da Luca Zingaretti per il cinema. Quello stesso cinema che le ha regalato uno dei ruoli più significativi in un film più che generazionale, Mixed by Erry, e che ha imparato a volere quando ha capito che la danza classica non le bastava più per esprimersi.
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Intervista esclusiva a Chiara Celotto
“Tendenzialmente, è tutto molto vero. Ovviamente c’è una parte romanzata, però Adele era in fondo una garibaldina. Su di lei, c’è poco su internet, le ricerche non sono state semplici e mi sono dunque affidata molto alla sceneggiatura”, tende subito a specificare Chiara Celotto prima di raccontarmi chi è Adele Baroffio, il personaggio realmente esistito che interpreta nella serie tv evento di Rai 1 Mameli.
E, dunque, chi è la tua Adele?
Adele è la moglie di un cavaliere, è arrivata a Roma insieme al marito ma, mentre lui ripudia la rivolta, lei decide di rimanere a Roma per sostenere la causa repubblicana. È attiva politicamente e crede nei suoi ideali: non scappa di fronte alle difficoltà e si dimostra più coraggiosa rispetto al marito. È stato molto bello interpretarla per due motivi: è realmente esistita, come dicevamo prima, ed è un’eroina.
Ho sentito sulle spalle la responsabilità di dare vita a una donna super passionale, intraprendente, determinata e dura, anche se ho voluto più concentrarmi sulla persona che sul personaggio: ho cercato di ammorbidire il suo lato più rigido e schivo per cercare di dare risalto alla grande fragilità che si porta dentro e che non è sinonimo di debolezza. Emerge soprattutto quando vive il suo momento di romanticismo con Mameli, spogliandosi della sua scorza dura.
Adele è una rivoluzionaria a tutto tondo per il periodo in cui vive: sebbene sia sposata, sceglie di vivere liberamente il suo amore per un altro uomo, Mameli appunto.
Ha inizialmente delle resistenze, un po’ come tutti noi, causate anche da quel retaggio cattolico che ci porta a innalzare paletti mentali anche dove non dovrebbero esserci. Ma, superati i dubbi, si lascia andare all’amore proprio perché si considera una donna libera.
E tu ti consideri una donna libera?
In generale, potrei dire di sì ma sono reduce da un percorso personale complicato e combattuto, che sto cercando di superare con la terapia. Essere liberi non è semplice: è difficile soprattutto quando il primo paletto da rimuovere lo abbiamo piantato noi stessi. Per molti anni, ho praticato danza classica, un’arte che va a incidere sulla tua mentalità. Ho iniziato a ballare a cinque anni e ciò mi ha portato ad avere un fortissimo senso della disciplina, del sacrificio e delle rinunce, e a rispettare quasi passivamente ciò che mi dicevano gli altri o ciò che mi imponevano di fare per essere ‘brava’.
È solo crescendo che ho iniziato a maturare idee mie: obbedire ai limiti o accontentare le aspettative altrui si è trasformato per me in qualcosa di molto doloroso fino a quando non ho capito che avrei dovuto scegliere per me stessa e imparare a non aver paura, anche nel dire ciò che realmente si pensa, sempre nel rispetto di ognuno o delle gerarchie. Ho cominciato pian piano a riprendermi la mia libertà e oggi, a livello intellettuale, mi sento abbastanza libera mentre, a livello personale, sto ancora cercando di capire come gestire la mia libertà.
La danza classica comporta grande disciplina ed io forse ero diventata fin troppo disciplinata. Ciò che per molti può avere una valenza positiva aveva assunto per me un risvolto negativo: dovevo tendere alla perfezione ma non solo su un palco ma anche nella vita privata. Dovevo essere perfetta in tutto ciò che mi riguardava…
E hai chiesto aiuto alla terapia.
Credo molto nella terapia, la psicologia come materia è molto vicina al lavoro che oggi faccio come attrice. Prima di capire quale fosse la mia strada, ho anche per tre mesi frequentato la facoltà di Psicologia. Non avevo ancora realizzato che volessi recitare e Psicologia, tra le altre cose, era quella che meno mi dispiaceva. Poi, però l’ho abbandonata: in quel periodo, lavoravo ancora nella compagnia di danza Skaramacay di Erminia Sticchi.
Mi ero diplomata in danza classica nel 2015 quando frequentavo ancora il quarto anno di liceo classico, avevo iniziato a lavorare mentre ero al quinto e, dopo gli esami, dovevo scegliere cosa fare. Da persona dotata di una capacità di analisi molto realistica, pensavo di non poter ballare per tutta la vita e occorreva un ‘piano B’. Psicologia non mi dispiaceva, magari avrei potuto fare danza terapia in futuro: del resto, la danza mi accompagnava da quando ero piccolissima… a tre anni conoscevo già a memoria tutte le canzoni di La gatta Cenerentola e ho ballato fino a quando non ho realizzato che oltre che con il corpo avevo bisogno di comunicare anche con le parole.
È stato allora che ho cominciato a informarmi su cosa potessi fare per recitare. Provenendo dalla danza, non mi bastava il semplice corso di teatro: volevo far l’Accademia. Leggendo un bando di ammissione per il Teatro Bellini di Napoli (non potevo permettermi il trasferimento altrove), scopro casualmente che i provini si sarebbero tenuti dopo un mese: ho esitato ma alla fine ci ho provato, dopo un mese immersivo di lezioni. Ho così passato, incredula, la prima di diverse fasi di selezione, che mi hanno poi aperto una settimana di stage durante la quale per vergogna non mi prestavo mai all’improvvisazione volontaria. Fino che a che non è stato il direttore del teatro a mettermi di fronte a un aut aut: ‘Se non vieni, non ti posso valutare’.
E sarebbe stata per me la fine se quel direttore non mi avesse vista, nel senso lato del termine. Era la seconda volta che mi capitava di essere vista in quanto attrice… la prima ad accorgersi delle mie velleità era stata, poco dopo la mia nascita, la mia nonna paterna: guardandomi, disse ai miei genitori che da grande avrei fatto la cantante o l’attrice.
Qual è stata la prima libertà che ti sei presa?
Rispondere a qualcosa che non mi andava bene, ho avuto però dopo una scarica emotiva fortissima tanto che mi sono scoppiata in lacrime. Era la prima volta che mi trovavo in disaccordo, avevo una mia visione, e che trovavo la forza di reagire, andando contro a una sorta di autorità (consideravo tali anche le persone che non mi stimavano).
Il mio problema principale in quel periodo era la scuola: al quarto anno, mi sentivo già troppo adulta per sottostare ai diktat degli altri. E quel giorno ho risposto a un’insegnante mentre prima non lo avevo mai fatto per la mia preoccupazione di deludere gli altri. Le diedi dell’immatura, mi rispose facendomi il verso e la trovai ancora più immatura… Il ruolo dell’insegnante dovrebbe essere quello di stimolarti a riflettere, a pensare, a sviluppare un pensiero critico, ad aprire anche dei dibattiti, a spingerti alla curiosità, e non di esercitare il potere in maniera unilaterale. È importante studiare le versioni di latino ma sarebbe altrettanto importante essere creativi per infondere creatività anche negli studenti.
Quello di Adele in Mameli per te è il primo personaggio non napoletano al cinema e in televisione.
E ci tenevo molto che non lo sembrasse. Adele era padovana, ragione per cui in fase di preparazione avevo proposto di prendere un coach per imparare il padovano. Tuttavia, mi hanno risposto che non serviva perché, comunque, Adele si era trasferita a Roma da tempo. Mi sono allora impegnata a ripulire la mia dizione per evitare che venisse fuori la mia inflessione napoletana e per cercare di restituire un po’ di musicalità romana al suo modo di parlare. Ed è stato molto bello: da attrice, il mio desiderio è quello di andare oltre la mia Napoli. Purtroppo, mi rendo conto che è complicato: noi napoletani, così come tutti gli attori del Sud, siamo leggermente discriminati e legati al nostro luogo di origine. Ci si dimentica che essere attori significa portare anche altro da sé: potrei benissimo interpretare una milanese.
Sarai quindi una napoletana, oltre che nella serie tv Sara, anche nel film di Luca Zingaretti La casa degli sguardi?
Nel film interpreto una studentessa fuori sede ed è circondata da altri ragazzi non tutti di Roma. Ho sostenuto il provino in romano ma non era una caratteristica che a Luca interessava particolarmente. Sara è ambientata a Napoli ed era inevitabile che fosse così.
Adele, nel tuo percorso, non è il solo personaggio ispirato a uno realmente esistito. Hai interpretato la co-protagonista Francesca in quel gioiellino che è Mixed by Erry di Sidney Sibilia. Andato discretamente in sala, è diventato pian piano un cult. Hai sentito il riflesso del successo che ha avuto?
La verità? No, non credo di essere un personaggio iconico. Non mi sento una di quelle attrici per cui i fan perdono la testa ma in parte è anche perché sono ‘pessima’ in molte attività collaterali. Penso ad esempio all’uso che faccio dei social, il secondo più importante mezzo di comunicazione che abbiamo a disposizione: non ho quel quid che mi porta a mettermi eccessivamente in mostra o che mi fa apparire al di là dell’essere.
Ma anche sull’apparire avrei qualcosa da aggiungere: a me piace molto cambiare anche aspetto ed è un bene per il mio lavoro. Spesso ho incontrato persone con cui parlando è venuto fuori che avessi fatto quel film: nonostante lo avessero visto e amato, faticavano a riconoscere Francesca in me. Alla copertina di una rivista patinata preferisco un ruolo per cui impegnarmi.
E per Adele l’impegno deve essere stato massimo dal momento che in amore è costretta a sopportare la continua ombra di Geronima…
Eh, mi rendo conto che il primo amore non si scorda mai e Mameli ne è la riprova: ci si pensa sempre fino a idealizzarlo e farlo diventare iconico.
Vale così anche per te?
Sono una romantica in piena regola, super passionale ma con un’idea forse infantile dell’amore. Ci ho creduto troppo fino a quando una batosta non mi da del tutto inaridita. Purtroppo, dopo la pandemia, ho avuto modo di notare come tutto ciò che riguarda la sfera più intima dei sentimenti e delle emozioni sia diventata consumistica: è come se ci fossimo tutti disabituati ai rapporti diretti per concentrarci maggiormente sull’affermazione virtuale.
Ci trasciniamo dietro l’atteggiamento per cui di fronte a tutto ciò che è profondo ci si ritrae per paura: siamo tutti un po’ rotti… Non c’è né la voglia né il coraggio di andare oltre il sé: manca quell’apertura emotiva che ti porta a vedere l’altro, come se si temesse il rimettere in discussione quell’equilibrio che si è virtualmente raggiunto.
Anch’io mi sono un po’ ritratta. Non credo più a determinate cose e resto con i piedi per terra. Mi intristisce molto che sia così e mi manca l’amore: in definitiva, è sempre quel sentimento di cui si ha molto bisogno. Per lavoro, poi, conosco ovviamente sempre tante persone venendo travolta continuamente da un tornado molto alto senza che non riesca mai a vederne o a toccarne l’origine: sento che c’è sempre molta superficialità. E, quindi, Adele è una figa, io no.
Ma sui social siamo tutti fighi.
È tutto una foto da mostrare per dire che va tutto bene. Sono per la libertà di parola e di pensiero ma credo anche che dovrebbero esistere delle cose che si dovrebbero tenere per sé. Bisognerebbe anche conservare un minimo di sfera privata: rabbrividisco nel vedere foto di persone che si mostrano mentre piangono o mentre stanno male… è una celata richiesta di aiuto, un modo per placare il proprio senso di solitudine reale e l’incapacità di costruire rapporti umani.
Riesci a creare dei rapporti umani sui set in cui lavori?
Assolutamente sì. Ci sono persone che conosco e a cui voglio bene, pur non vedendole tutti i giorni. Il mio è un lavoro che con i suoi ritmi, spostamenti o viaggi, ti porta ad allontanarti fisicamente ma l’affetto profondo resta. Sul set di Sara, ad esempio, ho conosciuto una truccatrice che è stata chiamata anche per la seconda stagione di Avvocato Malinconico: il rapporto è stato così bello che l’ho anche ospitata a casa mia a Napoli per le riprese.
Mameli: Le foto della serie tv
1 / 39Che valore attribuisci ai commenti negativi che potresti ricevere sui social?
Fortunatamente, a oggi, non ho mai ricevuto commenti negativi sotto ai miei post. Più che altro, mi ha inorridito qualche messaggio ricevuto in privato, con del contenuto sgradevole. Ricordo ancora quando una donna mi ha scritto per invitarmi a conoscere un suo amico che tutti i giorni si ammazzava di s***e pensando a me. Ho avuto per un attimo l’istinto di risponderle ma poi non l’ho fatto: ho trovato sconcertante che a mandarmelo fosse proprio un’altra donna.
Un messaggio del genere è figlio di tantissimi fattori. Nasconde la continua oggettificazione del corpo della donna, la mancanza – per restare in tema – di rapporto umano e, soprattutto, la perenne demistificazione di un lavoro come il mio, che spesso viene frainteso da chi non lo conosce da vicino. Quasi nessuno comprende le difficoltà psicologiche che porta con sé il dover essere costantemente performante, figo e bravo: tutti dimenticano che si è invece in costante balia di scelte altrui, di come una mancata scelta innesti a volte conseguenze non semplici da gestire e di come si vivano enormi momenti di attesa, di vuoto e di solitudine.
Anche quando tutto sembra andare bene, ci sono altri risvolti da valutare: siamo costantemente in viaggio per set o promozione, passiamo le notti in albergo da soli ed è anche difficile pensare a una prospettiva di famiglia. Senza riflettere poi su come per una donna sia tutto reso ancora più complicato dal passare del tempo a causa di ruoli femminili stereotipati che ti fanno passare dall’essere adolescente al diventare mamma o zia senza soluzione di continuità. Per non parlare poi delle psicologie dei personaggi femminili che vengono a noi offerte, come se un uomo non potesse rivedersi in un’emozione femminile: siamo sempre al servizio di un uomo… sogno che si possa un giorno fare in Italia anche un film come Povere creature!.
A proposito di rapporti umani, è vera la storia per cui amavi prendere la metropolitana per osservare i volti degli altri?
Verissima. Accadeva fino a non molto tempo fa: la metropolitana è l’unico posto in cui gli smartphone non hanno copertura. Di conseguenza, le persone sono costrette a stare con se stesse e a guardarsi dentro: è in quel momento, per me molto emozionante, che vedi la loro essenza. E ciò che mi emozionava maggiormente era osservare gli anziani, con i loro sguardi stanchi e soli.
Mi sono chiesta mille volte dove stessero andando, perché avessero preso la metro anziché la macchina e perché con loro non c’era nessuno che li accompagnasse. Sarà perché non ho più nessuno dei miei nonni: l’ultimo che era rimasto in vita è morto durante la pandemia. Ero a Roma e a causa del lockdown non l’ho nemmeno potuto salutare, un qualcosa che non ho forse ancora metabolizzato.