Nel panorama artistico contemporaneo, dove i percorsi si intrecciano e le storie personali si fondono con quelle professionali, incontriamo Chiara Martegiani, un'attrice che ha saputo ridefinire il concetto di resilienza e trasformazione attraverso il suo ultimo progetto, la serie tv Antonia, dal 4 marzo su Prime Video. L’intervista che segue si apre con un sorriso e una battuta che racchiudono anni di ricerca, desideri e incontri mancati, segnando finalmente il momento in cui le nostre strade si incrociano nuovamente dopo un primo incontro virtuale nel 2011.
La sua carriera, iniziata con ruoli che sfiorano tematiche profonde come la depressione post-partum, si è evoluta fino a coinvolgerla in una serie che va oltre la sua figura di attrice, trasformandola in un'emblematica narratrice di storie femminili, crisi generazionali e battaglie personali anche contro malattie ancora troppo spesso ignorate come l'endometriosi. Antonia, la serie tv diretta da Chiara Malta e prodotta da Fidelio e Groenlandia in collaborazione con Rai Fiction e Prime Video, emerge non solo come un racconto di intrattenimento ma come il frutto di una crisi personale trasformata in opportunità di dialogo e confronto su temi universali e ancora, ahinoi, stereotipati.
In questa conversazione, intendiamo esploriamo le molteplici sfaccettature di Chiara Martegiani, evitando consapevolmente di ridurla a semplici etichette o definizioni riduttive. Dal suo rapporto con la malattia all'impegno per una rappresentazione femminile libera da stereotipi, dalla collaborazione professionale con il compagno Valerio Mastandrea alla creazione di un personaggio che è al contempo rifugio e specchio delle sue lotte e delle sue vittorie.
Attraverso le sue parole, scopriremo come Antonia sia nata da un momento di stallo esistenziale, trasformandosi in un viaggio di scoperta personale e collettiva, in cui le crisi diventano momenti di crescita e i personaggi portano i segni distintivi di chi li ha creati. Chiara Martegiani non solo ci racconterà di Antonia ma ci guiderà attraverso il suo mondo, fatto di sfide, rivelazioni e, soprattutto, di una continua ricerca di autenticità e libertà.
Intervista esclusiva a Chiara Martegiani
“Ce l’abbiamo fatta ma speriamo di non risentirci tra 13 anni”, scherza Chiara Martegiani quando a inizio conversazione le rivelo come il nostro incontro sia qualcosa cercato da tempo e finalmente realizzato. Era infatti il 2011 quando le nostre strade si incontrano per la prima volta: l’occasione veniva data dal film Maternity Blues: scrivendone per FilmTv.it, avevo chiuso delle interviste con il regista Fabrizio Cattaneo e una delle protagoniste, Marina Pennafina, ma la mia ambizione sarebbe stata proprio lei, che nel lungometraggio interpretata una giovane donna alle prese con la depressione post partum.
Il momento a lungo atteso arriva oggi: Chiara Martegiani è la protagonista assoluta di Antonia, la serie tv targata Prime Video che è un frutto di un progetto tutto suo. La premessa, comunque, del nostro incontro è abbastanza chiara sin dall’inizio e la pongo io. L’endometriosi di cui la storia racconta sarà soltanto uno dei temi da noi affrontati, evitando di far diventare Chiara Martegiani l’endometriosi in persona, come spesso è capitato sui media in questi giorni: non può essere la malattia a definirla e a trasformarsi in un tratto peculiare della sua identità.
Ma non solo: contrariamente a quanto avviene altrove, le chiedo anche, quando possibile, riferirsi al suo compagno di vita, l’attore e regista Valerio Mastandrea, solo in termini di coinvolgimento professionale, dal momento che è anche supervisore artistico di Antonia. In parole semplici, se avessi voluto sentire Valerio o avere il suo punto di vista, avrei chiamato lui. Affinché, ancora una volta, sia chiaro che una donna non ha bisogno di essere definita o raccontata in relazione a un uomo: Chiara Martegiani è Chiara Martegiani al di là di chi ha al suo fianco.
Come è nata Antonia e, soprattutto, chi è Antonia?
Antonia nasce da una mia crisi personale, che ho avuto intorno ai trent’anni: non sapevo cosa volessi dalla mia vita, dal mio lavoro e dalle relazioni. Ero in un momento in cui non andavo né avanti né indietro: stavo ferma lì, in attesa non si sa di cosa. Mi sono resa però conto che quello che vivevo non era solo una crisi mia ma una crisi generazione. Guardandomi intorno, notavo che a esserne maggiormente interessate erano soprattutto le mie coetanee: vedevo le donne della mia età più in crisi rispetto agli uomini.
Anche perché per le donne quella è comunque quella fase di vita in cui ci si deve confrontare anche con la domande delle domande, prima che l’orologio biologico stabilisca la “scadenza”: ‘Vuoi o non vuoi un figlio?’. E, quindi, è quella la fase in cui arriva il frangente in cui si è chiamate a fare delle scelte.
In quel turbinio di emozioni ho pensato che potesse essere interessante raccontare la crisi di una donna di trent’anni. Sono partita da questa semplice premessa quando ho chiamato le due autrici, Carlotta Corradi ed Elisa Casseri, e ho proposto loro la mia idea: se ne sono subito innamorate.
Già il fatto che tu pensi a due autrici è significativo di quanto volessi parlare di crisi femminile.
Sì, il mio desiderio era quello di raccontare proprio una donna. E per farlo ho pensato che magari due persone come loro fossero perfette, dal momento che ci conoscevamo, erano miei amiche ed ero conscia di come la loro penna sarebbe stata perfetta per la storia che avevo in testa. Eravamo già al lavoro sul soggetto quando poi mi è stata diagnosticata l’endometriosi.
Confrontandoci, abbiamo capito come introdurre la malattia nel progetto poteva essere una grande occasione per il nostro personaggio per fare un passo in avanti e capire che doveva prendersi finalmente cura di sé. In più, potevamo anche affrontare questa malattia di cui si parla ancora molto poco e raccontare quanto sia invalidante nella vita di tutti i giorni.
Le difficoltà quotidiane legate all’endometriosi sono quelle di cui, se vogliamo, non si è mai parlato. C’è stato un momento in questi ultimi due anni in cui l’endometriosi sembra essere stata sdoganata, soprattutto sui social, ma nessuno si è mai addentrato nelle pieghe di ciò che significa concretamente la malattia.
Combattere tutti i giorni contro una malattia invalidante è chiaro che ha conseguenze anche a livello psicologico: ti rende la vita sicuramente molto difficile sia fisicamente sia emotivamente. In Antonia se ne parla molto ma non è il tema principale del racconto: è una serie che parla di crisi, di crescita, di rinascita e anche delle varie terapie psicologiche con cui la protagonista si confronta.
Quest’ultimo è un aspetto che abbiamo voluto affrontare per contribuire allo sdoganamento di un tabù perché, che se ne dica, andare in terapia in Italia è ancora oggi un tabù: vi si ricorre solamente se si sta male quando invece potrebbe essere utile a chiunque. Abbiamo scelto quindi di parlarne con leggerezza, mostrando come vi ricorra anche Antonia che, sebbene viva una crisi, non ha particolari problemi psicologici, se non quelli che hanno un po’ tutti quanti, dal rapporto irrisolto con la madre alla relazione con uomo che, dal suo punto di vista, era per certi versi realizzato e per altri no.
La nostra priorità era quella di raccontare una donna semplicemente imperfetta, con i suoi difetti e anche antipatica, soprattutto all’inizio della storia (si capiranno pian piano le ragioni di un vissuto che l’hanno portata a essere com’è). Abbiamo quindi cercato di allontanarci dallo stereotipo di donna e dai cliché: Antonia, se vogliamo, è una donna maschile per molti aspetti, una donna che scappa dal confronto quando solitamente accade che siano gli uomini a fuggire di fronte alle difficoltà. Nel ribaltare i ruoli, le abbiamo affiancato un uomo solido che vorrebbe affrontare tutte quelle questioni da cui Antonia fugge nel confrontarsi quotidianamente con il dolore fisico, con quello emotivo e con le responsabilità.
Antonia è Chiara?
Per molte cose, sì, per altre no. Io purtroppo sono molto più pesante di Antonia: voglio affrontare tutto ciò che mi si presenta davanti. Se si presenta nella mia vita un problema, voglio vederci chiaro e non mi tiro indietro, andando ad esempio in terapia. Le invidio molto la libertà e la leggerezza con cui Antonia riesce a fuggire continuamente dalle situazioni.
Sotto altri punti di vista, invece, ho molto di Antonia. La sua storia è ispirata alla mia vita: ci ho messo tutta me stessa. Mi sono detta: dal momento che, come attrice, non mi date un personaggio del genere, me lo creo da sola. Le opzioni a disposizione di noi attrici italiane sono veramente limitate: non ci sono personaggi femminili raccontati in maniera verosimile o, se ci sono, rispondono comunque sempre a qualche cliché. Mi ero stancata di tutto ciò e ho voluto dunque scrivere un personaggio che avrei io per prima voluto vedere e che mi permetteva anche di mostrare parti di me che in pochi, a eccezione di Valerio (Mastandrea, ndr) in Ride, sono riusciti a tirarmi fuori a livello attoriale. Avevo voglia di divertirmi e di non dovermi pormi chissà quali domande esistenziali.
Un desiderio comprensibile e sacrosanto per chi come te ha alle spalle un percorso che oramai va avanti da tanto tempo, da quando eri un’adolescente in pratica.
Un cammino lunghissimo fatto però di poco lavoro: ho ricevuto tanti no e molte delusioni da questo lavoro. Ne avevo abbastanza quando ho poi pensato che Antonia potesse essere un’occasione per farmi vivere la mia professione in maniera diversa. Considero la serie come terapeutica e non di certo per l’endometriosi, malattia che al momento delle riprese avevo già ‘processato’ diventando mamma (dalla scrittura alla realizzazione sono passati quattro anni). Girarla, mi è servita per cambiare il mio atteggiamento nei confronti del mio mestiere: l’ho potuto vivere in maniera più spensierata, senza giudicarmi, senza sentirmi dire che dovevo piacere agli altri…
Dovevi piacere solo a te stessa.
Sì, ma anche questa è stata un’idea che ho poi abbandonato. Mi doveva piacere come stavo lavorando e capire se mi stessi divertendo: se fosse accaduto, sarebbe andato tutto bene rispetto a un passato in cui il divertimento e il piacere spesso mancavano. In più, per la prima volta, non mi sono cimentata solo con la recitazione: è vero che Valerio ha curato la supervisione artistica ma quasi tutte le decisioni le abbiamo prese insieme e altre ancora sono frutto delle mie idee.
Nel racconto di Antonia subentra, come dicevamo prima, la terapia psicologica.
Le due autrici sono state bravissime nell’affrontare l’argomento. Hanno provato in prima persona le varie metodologie di terapia che si raccontano proprio per non inventarci nulla e rimanere abbastanza vicini alla realtà delle cose. Non volevamo ricorrere, anche in questo caso, alle solite figure stereotipate o sopra le righe degli psicologici che siamo soliti vedere rappresentate. Nel togliere lo stigma che circonda la terapia, abbiamo mostrato come esistano diversi approcci alla psicologia, da quello più formale a quello sciamanico.
Come hai accennato prima tra le righe, tu stessa sei andata in terapia.
La prima volta che sono andata è stata un anno dopo la morte di mio padre. Sono dapprima stata da una psicologa freudiana ma non faceva al caso mio: parlavo, parlavo, parlavo e non avevo risposta quando invece io ho bisogno di qualcosa di un po’ più concreto… l’ho abbandonata e ho fatto un percorso bellissimo e utilissimo con una psicoterapeuta. Nella fase di creazione di Antonia, poi, ero già in terapia e mi è servita tantissimo.
Ti ha insegnato a ridere di te stessa?
Assolutamente: mi ha insegnato a ridere di me stessa e ad accettarmi per quella che sono. Anche se, a dir la verità, ho sempre riso di me stessa e sono sempre stata molto ironica nei miei confronti. Me l’ha insegnato il mio compagno: mi ha sempre detto di divertirmi.
Nel vedere Antonia, non ho potuto che riflettere su un aspetto: è più facile per una donna parlare di endometriosi con le altre donne o con gli uomini?
Il problema quasi non si pone: sia uomini sia donne spesso non sanno nemmeno cosa sia l’endometriosi. Quando mi è capitato di parlarne apertamente, gli uomini sono forse più in imbarazzo perché non hanno dimestichezza con parole come utero, ciclo o fertilità, ragione per cui le donne mostrano in genere maggiore comprensione. Ma non è detto che sia sempre così: mi sono trovate anche al cospetto di donne che non ne sapevano molto.
Frutto forse di una formazione che poco punta all’educazione sessuale?
Sono tante le cose che dovrebbero essere insegnate ai giovani e alle giovani, troppa roba… Ma un corso di educazione sessuale a scuola non sarebbe male: gli e le adolescenti di oggi si rapportano con la sessualità solo attraverso quel mezzo che è lo smartphone, dove però si imbattono anche in atrocità varie alla portata oramai di tutti. Finiscono così con l’avere una percezione distorta della sessualità, molto diversa da quelli che avevamo noi quando scoprivamo il sesso dai giornaletti porno che scoprivamo a casa di qualcuno e ci sembrava chissà che cosa (ride, ndr).
Fare educazione sessuale a scuola sarebbe importante per capirsi e conoscersi. Sarebbe servita anche a te per capire che quel tuo primo ciclo mestruale così doloroso non era ordinaria amministrazione e che per risolverlo non sarebbe bastata una pillola anticoncezionale.
Quelle prime terapie non sono state il massimo: un anticoncezionale e abbiamo risolto tutto, senza avere ulteriori informazioni ad esempio sugli effetti collaterali. Ma a me è successo anche che mi abbiano messo in menopausa farmacologica senza nemmeno spiegarmi in cosa consistesse. O, meglio, la spiegazione era solo uno: non alimentiamo l’endometriosi e la teniamo ferma. Ho capito solo dopo quali erano gli effetti, quando dopo qualche mese mentre ero seduta a tavola sentivo delle grandi vampate di calore e mi chiedevo che cosa mi stesse accadendo, facendomi venire anche un attacco di panico. Ho realizzato poi che erano le stesse vampate che ricordavo di mia madre quando stava entrando in menopausa…
Ha quel periodo inficiato il tuo lavoro?
Fortunatamente è durato poco. Dopo sei mesi, sono andata da un’altra ginecologa e ho smesso di prendere tutto. Non so se ho sbagliato ma so che dopo mi sono messa a cercare un figlio, facendo altri danni da un’altra parte. Anche in quel caso, se non segui delle terapie giuste, l’endometriosi aumenta… A livello lavorativo, però, non so se ha inficiato o meno: il mio lavoro era sempre andato male (ride, ndr): non è che prima avessi questa carriera così consolidata.
Il primo ‘no’ nel tuo caso è arrivato abbastanza presto, ad Amici di Maria de Filippi, quando la recitazione era ancora uno dei percorsi che venivano presi in considerazione.
Ripensandoci oggi, dico che quel ‘no’ è stato una fortuna: vivevo male quella situazione ed ero troppo piccola per stare lì. Non parlo di età, ovviamente, ma di testa… arrivavo da un paesino vicino Rimini, andavo a cavallo e mi era venuto in mente di fare l’attrice, catapultandomi nel programma senza avere la cognizione di ciò che significasse: è stato come prendere una macchina senza sapere guidare. Era tutto troppo grande per me e non superare l’esame di sbarramento non è stata vissuta da me come una sconfitta, tutt’altro: mi ha fatto capire che per fare questo lavoro dovevo come prima cosa mettermi a studiare.
C’è voluto tempo affinché non soffrissi il mestiere che faccio, l’ho vissuto anche malissimo: nessuno ti spiega come funzioni realmente e in tanti si prendono troppo sul serio. Ma non io, sono totalmente diversa. Forse ho imparato a viverlo con serenità quando mi sono accettata io stessa a livello personale, accettando anche come mi rapporto a questo mondo.
Questo non vuole dire che non sia contenta del mio percorso. Lo sono perché ho sempre fatto delle scelte in cui credevo, anche quando non potevo permettermi di farlo. Ho spesso detto ‘no’ a dei provini perché non mi interessavano, preferendo mettermi in gioco in maniera diversa e finendo con il fare il percorso che ho fatto e i pochi lavori che ho portato a casa. Ma non mi pento di niente.
Da cosa erano e sono motivate le tue scelte?
Dal desiderio di raccontare personaggi che avessero uno spessore, che mi interessassero e che evolvessero nell’arco della storia proposta. Ho fatto scelte mirate verso copioni e argomenti di un certo peso ma non sempre si sono rivelate vincenti proprio perché l’ultima parola non spettava a me. Andare a sostenere un provino per un personaggio qualsiasi che può interpretare chiunque non mi ha mai attratto ma non per la popolarità, il successo o quant’altro potesse venire da un altro tipo di ruolo: semplicemente, ho sempre desiderato essere stimolata diversamente.
Recitare nei panni dei personaggi spesso indecenti che propongono per le donne o lavorare in progetti in cui non credo non mi piace, non mi diverte e non mi porta nulla. E, di conseguenza, la mia posta in gioco è sempre molto alta: ci si mette comunque la faccia, allora tanto vale mettercela bene.
Antonia come te fa l’attrice e ha un’agente sui generis, Gertrud…
Stupenda, Hildegard Lena Kuhlenberg (mi interrompe Chiara Martegiani, ndr).
…è stato facile per il tuo agente starti appresso?
Ho una agente bravissima. Ne ho avuti diversi ma quella di adesso è donna e sono contenta di chi è: ho finalmente trovato la persona che ha capito cosa voglio fare e che tipo di attrice voglio essere. Non sto attaccata al telefono tutti i giorni per chiederle un provino qualsiasi, ragione per cui so che quando mi chiama è perché c’è qualcosa che ci interessa realmente.
Quando come Antonia hai attraversato il tuo momento di crisi, qual è stata la cosa più difficile con cui fare i conti?
Sicuramente il lavoro. C’è tutto dentro, dall’autostima all’indipendenza economica. Mi faceva stare molto male ma il mettermi a lavorare su un progetto come Antonia, pur non avendo certezze sulla sua realizzazione, mi ha ridato luce. Mi ci sono dedicata anima e corpo, ci ho creduto tanto e la mia agente è stata brava anche a capire cosa avessi per le mani, aiutandomi a portarla avanti, a bussare alle porte dei produttori e a far capire che avevamo il progetto giusto nel momento giusto: oggi c’è un’attenzione diversa verso le donne ma cinque anni fa quando abbiamo cominciato a scrivere la storia la strada non era così spianata.
Cosa significava per te avere indipendenza economica a trent’anni?
Significava tanto. Originaria di Rimini, ero una fuori sede che viveva a Roma e pesava sulle spalle della madre. Divenire economicamente indipendente avrebbe comportato non aver più rotte le scatole da mio fratello, ad esempio: dopo la morte di nostro padre, si era assunto la responsabilità di essere il maschio di casa mentre io me n’ero andata per fare l’attrice e non per studiare come aveva fatto lui. Dovevo dunque dimostrare di essere libera e indipendente.
E devi esserlo ancora oggi?
Certo. Ed è quello che mi piacerebbe che arrivasse anche a tutte quelle donne convinte che avere un compagno o sposarsi significhi rinunciare alla propria indipendenza economica. Una storia può sempre finire e si deve essere libere di andare come o dove ci pare senza stare appesi a nessuno: dalle cadute ci si può rialzare, partendo anche dai lavori più umili ma necessari ad avere anche una minima indipendenza e libertà.
Non che la libertà te la diano i soldi ma i soldi ti danno la possibilità di girare i tacchi e andartene, sono una sorta di paracadute. A tutte dico di non fare la cazzata che ho commesso io anni fa quando molto giovane mi sono ritrovata a Londra per seguire il ragazzo con cui stavo. Non stavo lavorando e l’ho dunque seguito prima a Barcellona e poi in Inghilterra per ritrovarmi da un giorno all’altro senza niente, per le strade di Londra con il mio levriero. Grazie a Dio, c’era sempre la mia famiglia ma mi sono rimboccata le maniche e ho iniziato ad accettare qualsiasi lavoro per riprendermi la mia casa e le mie cose. Ed è stato lì che mi sono detta ‘mai più’.
Stai oggi con un compagno con cui condividi lo stesso lavoro. È difficile conciliare vita privata e vita professionale quando accade?
Lo è, perché inevitabilmente non stacchi mai la testa: anche a casa ti ritrovi inevitabilmente a parlare sempre delle stesse cose. Anche se io e Valerio abbiamo la nostra dimensione.
E che fai quando vuoi trovare il tuo spazio di libertà?
Per adesso, ne ho poca di libertà: ho un figlio piccolo da gestire, che ha tre anni e richiede le mie attenzioni. Con la maternità, inizia un’altra vita ancora, dove non ci si ferma mai: si finisce da una parte e si comincia da un’altra. Riesco ogni tanto ad andare al cinema e a ritagliarmi del tempo per me stessa ma è la vita che è fatta così: prima avevo così tanto tempo da non sapere che fare dalla mattina alla sera, soprattutto quando non lavoravo. Ho voluto la bicicletta e ora pedalo molto volentieri (ride, ndr).
Cosa ha rappresentato per te la nascita di Ercole?
La scoperta di tanti aspetti di me che ancora non conoscevo. Ho realizzato che tipo di donna e di madre sono e ho rivisto le mie priorità, comprendendo quali sono le cose a cui devo dedicare del tempo e quali sono invece quelle che di tempo me ne rubano e basta. Per me, la sua nascita è stata una grande gioia: desideravo tanto questo figlio…
Cosa vedi di te nei suoi occhi?
Tutto, purtroppo è uguale a me. Mi sembra di rivedere me da piccola, è matto come un cavallo e mi piace moltissimo che lo sia… è come se fosse una mia specie di clone, soprattutto ora che anch’io ho i capelli corti.
Si dice che ci si tagli i capelli quando c’è voglia di cambiamento…
Io taglio spesso i capelli. Poi li faccio riallungare e, quando mi stanco, li ritaglio. Semplicemente non amo vedermi sempre con lo stesso aspetto: mi piace cambiare e mi piace divertirmi farlo anche con i capelli.
Cosa vedi quando ti guardi allo specchio?
Vedo una donna che, dopo un certo percorso, è in pace con se stessa e con la vita. Ho ancora molto da fare ma questo è per me un momento positivo a livello personale ma so anche che arriverà l’attimo in cui si ripartirà nuovamente: non c’è mai la parola ‘fine’.
E che ne sarà della gallina che negli ultimi tre episodi di Antonia accompagna la protagonista?
Di sicuro, non l’ho cucina perché oramai sono io una gallina (ride, ndr). La gallina è l’animale guida di Antonia, la trova nel suo viaggio sciamanico ed è la metafora del cambiamento: da pollo devi diventare gallina, devi crescere e superare la paura di non farlo.