Chiara Vidonis, cantautrice triestina, ha pubblicato il suo nuovo album: La fame. A distanza di sette anni dal suo prorompente esordio con Tutto il resto non so dove, Chiara Vidonis ritorna con otto nuove canzoni che la riportano al centro della scena indipendente italiana.
Prodotto da Karim Qqru, il batterista dei The Zen Circus, il nuovo album di Chiara Vidonis è meno “urlato” del precedente e le ragioni che le spiegherà lei stessa. Ma non per questo meno interessante. Anzi, la sensazione è che Chiara Vidonis abbia raggiunto una maturità artistica che le ha permesso di concepire quello che un tempo si sarebbe chiamato “concept album”, in cui tutte le canzoni possono essere ricondotte a un fil rouge.
E il fil rouge scelto da Chiara Vidonis è la fame ma non quella fisica. “La fame è quello che ci fa sempre procedere in avanti, è quell’istinto che ci fa rispondere ai nostri bisogni più bassi ma anche a quelli più alti, la fame ci comanda e fino a che c’è la fame siamo vivi”, ha spiegato in occasione della presentazione del suo lavoro.
E la fame di cui canta Chiara Vidonis ha mille sfaccettature: è fame di volersi incontrare, è fame lucida che spinge a saziarci a piccoli morsi ed è fame di consapevolezza. Capirete cosa vuol dire conoscendola attraverso quest’intervista.
Intervista esclusiva a Chiara Vidonis
Il tuo nuovo album si chiama La Fame, facendo riferimento al fil rouge che lega tutti gli otto brani proposto. Te lo avranno chiesto già centinaia di volte: quando hai capito che era la fame a far da filo conduttore al tuo lavoro?
L'ho capito quando ho scritto La mia fame, che è uno degli otto pezzi del disco. È stato in quell’occasione che per la prima volta è entrato nella mia mente il concetto della “fame”. E mi è piaciuto molto perché in realtà nella canzone parlo di una fame bella, dosata: non è un inno alla l'ingordigia, canto semmai della fame di conoscere un'altra persona, di scoprirla piano piano, di assaporarla dopo morso, senza avere quella fretta che di solito mettiamo in atto quando si creano delle dipendenze.
E, quindi, l'idea di questa fame “bella” ha iniziato pian piano a girarmi in testa. Dopo di che, mi sono resa conto che era un concetto che, in effetti, avevo dentro per un qualche motivo. Evidentemente avevo voglia di fare una certa differenza tra la fame, appunto, quella bella che ci nutre e la fame invece di cui spesso siamo vittime, soprattutto in un momento come questo.
Viviamo sommersi da informazioni, da stimoli, da emozioni: sono così tanti che siamo quasi vittime di una sorta di bulimia, non riusciamo ad assimilare un vero nutrimento. Mi piaceva l'idea di ricordare a me stessa, attraverso il disco, di non avere invece questo tipo di fretta ma di assaporare le cose, di avere una fame che nutra l'anima e non soltanto il fisico.
Mi fai pensare che L’inizio è una delle canzoni dell’album che parla proprio di bulimia dei contenuti. Io dico sempre che viviamo in un momento in cui c’è sì la bulimia dei contenuti ma anche l’anoressia dei messaggi. Si scrive e si posta tanto sui social senza in realtà comunicare più niente, senza esprimere il nostro reale pensiero. Cosa che invece non può dirsi del tuo album che di contenuti e messaggi è pieno. In un momento in cui la discografia impone una nuova canzone ogni tot di mesi, come mai La fame arriva a sette anni di distanza dal tuo precedente lavoro? E perché hai scelto di virare più verso l’elettronica, pur mantenendo la vena rock di fondo che ti caratterizza?
La continua ricerca di presenza, anche quando poi così non si ha molto da dire o non si ha niente da comunicare, è sacrosanta ma, onestamente, non mi pare che siamo esseri umani programmati per dover avere sempre qualcosa da dire, una canzone o un’opinione su tutto. Credo, quindi, che sia bello prendersi ognuno il proprio tempo e cercare anche di contrastare questa tendenza all’onnipresenza, soprattutto sui social e con le regole che vengono imposte.
Francamente, è una perversione di cui faccio volentieri a meno. Di recente, tra l'altro, ho letto un articolo su come molti artisti internazionali, molto affermati, si stiano ribellando a certe imposizioni che vengono dalle case discografiche legate ai social. Artisti che vendono milioni di copie sono costretti a passare prima dalla viralità di Tik Tok per poter fare la loro musica. Spero che questa “moda” si esaurisca presto: è pericolosa, non mi piace, la trovo triste.
Per indole, non amo essere divorata dalla fretta o dover continuamente fare cose. A me piace tanto stare a non far niente: sono i momenti in cui vengono fuori le idee migliori e, quindi, li difendo. È vero: sono passati sette anni dal mio primo disco ma sono stati gli anni che ho ritenuto necessari per arrivare a questo secondo disco. Naturalmente, per realizzare un album, si scrive tanto e io non volevo che La fame ripetesse la formula già attuata per Tutto il resto non so dove, non avrei mai voluto ripercorrere una strada già fatta. Non perché non ero fiera, sono orgogliosissima del mio primo disco, ma perché prima di tutto devo essere stimolata a fare musica.
Devo trovare delle soluzioni diverse per farla, come è accaduto nel caso della produzione di La fame, che ha una direzione diversa, più elettronica, rispetto al passato. Ciò è stato anche possibile grazie all’incontro con il produttore del disco, Karim Qqru, che, tra le altre cose, è il batterista dei The Zen Circus. Mi ha spinto a non aver paura di prendere direzioni diverse da quelle prese nel primo disco: è giusto sperimentare, è giusto allontanarsi.
Una delle canzoni più sentite di La fame è Era meglio quando non capivo niente. Cos’è che non capivi?
Non è un qualcosa di specifico… La canzone vuol essere una riflessione sul fatto che spesso la consapevolezza, che ogni tanto arriva come una doccia fredda, non è sempre proprio la cosa migliore che ci possa capitare. Certo, essere consapevoli è sempre bello, perché ci restituisce in qualche maniera una verità. Ma non vuol dire che non sia indolore. La consapevolezza va metabolizzata, va accettata. Ci vuole una certa forza per farlo, no?
Non a caso ho scelto questo brano per chiudere il disco: forse è proprio il mio brano più sincero. Anche musicalmente è un brano senza troppi orpelli, solo voce, pianoforte e violoncello. Spoglio, nudo e crudo. L’ho scritto in pochi minuti e metterlo in chiusura è stato un modo per ammettere come tante volte, per orgoglio, non mostriamo le nostre debolezze, la nostra fragilità. Quante volte dopo aver preso consapevolezza di qualcosa ci diamo “Ma guarda che imbecille, come ho fatto a non accorgermene?”: siamo umani e fa parte del gioco.
Non è un po’ l’evoluzione del “si stava meglio quando si stava peggio”?
Ma no. Non necessariamente la consapevolezza deve portarci a qualcosa di brutto o a dire “sto meglio adesso che ne ho consapevolezza ma era meglio quando non stavo così bene” quando magari, invece, inconsapevole, stavi benissimo. Nel pezzo, infatti, dico “era meglio quando mi accontentavo dei contorni delle cose”, come se ci fosse stata effettivamente una condizione prima in cui vivevo più superficialmente le cose. E, quando finalmente ci sono entrata dentro, mi ha fatto stare peggio ma di fatto è un'evoluzione.
Nella canzone, contrapponi anche fortuna e talento. Cosa credi che serva maggiormente a chi fa il tuo mestiere?
Sono entrambe importanti ma spesso si contendono la pole position. A volte il talento da solo non basta, perché magari mancano le occasioni, mancano i contesti o manca anche la voglia di coltivarlo. A volte, invece, è soltanto una questione di fortuna. Spesso confondiamo le due cose. Nel caso del successo fulminante di un artista dietro può esserci più fortuna che talento. Ma con il passare degli anni si nota.
Pensi di aver avuto tutte le occasioni che meritavi?
Sono una che rimugina continuamente, h 24, sette giorni su sette, sulle varie ed eventuali possibilità della vita perse. È un continuo “ah, se avessi fatto così, se avessi fatto cosà”. E ogni giorno mi sforzo di far pace con questi pensieri del tutto inutili: si auto alimentano e non portano a nulla. È chiaro che ognuno di noi avrebbe potuto vivere mille vite diverse rispetto a quelle che ha vissuto ma non si tratta sempre e solo di occasioni perse ma di scelte che ci hanno portato a essere felici o no. Ogni tanto fermo il criceto che ho nella testa e mi dico che va tutto bene. Se mi chiedessi se sono felice in questo momento, ti direi di sì. So che è una cosa rischiosa da dire, ma oggi sono soddisfatta. Chissà poi cosa potrà accadere domani.
Visto che ne canti, quali sono la tua maggiore debolezza e la cosa che hai nella testa a cui fai più affidamento?
È difficile elencarle: di debolezze ne ho tante. Un altro aspetto su cui sto cercando di lavorare è che spesso sono io stessa vittima di quello che è il concetto di “fame”: sono la prima a non riuscire a scegliere nel modo giusto ciò che è nutrimento e quello che è invece inutile fagocitare. Sono una cantautrice ed è chiaro che nelle mie canzoni parlo di me stessa ma cerco di non esagerare con l’auto-giudizio. Di mio, sono un pochettino rigida e spesso casco nei tranelli della mia mente. Cerco di evolvermi sempre in un modo che mi piaccia e in cui mi riconosco quantomeno. Questa è la fissa degli ultimi tempi e vedo che funziona bene come faro nella nebbia.
E per una che viene da una città di mare non potrebbe esserci metafora più azzeccata. Sei originaria di Trieste, una città di confine segnata nel tempo da divisioni territoriali, da guerre vicinissime e da mare. Che effetto ha avuto su di te?
Quando ho scritto La mia debolezza avevo nella mia testa, l’immagine di Trieste, la mia città. La amo infinitamente, anche per le sue contraddizioni. È una città italiana che, per certi versi, si sente ancora poco italiana o messa in un angolo: è talmente a est che si mescola spesso con tante altre cose.
Nella canzone, ho usato l’immagine del mare di confine, un concetto che non esiste ma che è stato imposto dall’uomo quando ha tracciato linee geografiche anche ai mari, che non possono essere reali. Ho pensato proprio a questo aspetto, a come bisognerebbe lasciare andare i propri mari interiori a vagare liberi quando si interagisce con l’altro… proprio per diventare dei mari di confine che mescolano continuamente le loro acque. Come accade nel golfo di Trieste, in cui mescolano mare italiano, sloveno e croato.
Quando hai iniziato a fare musica?
Non me lo ricordo esattamente. La musica mi è sempre piaciuta tantissimo. Ricordo però che, a un certo punto alle elementari, verso i nove anni, ho iniziato a frequentare uno di quei corsi pomeridiani, che si tenevano a scuola, di chitarra. Un po’ per caso, direi: erano comodi, ero già a scuola… Quando ho cominciato, mi sono resa conto subito che la chitarra era quasi un'estensione di me: mi piaceva talmente tanto che ho iniziato a suonare sempre e a scrivere, non con l'obiettivo di scrivere canzoni: evidentemente dentro di me c'era l'urgenza di comunicare con la musica, mi dava pace e mi veniva spontaneo.
Ci ho messo un bel po’ di anni per focalizzare quello che era poi il mio mondo, il mio modo di esprimermi. Ho sperimentato generi di ogni tipo prima di trovare la mia chiave. Sicuramente il rock è stato quello che mi ha più stimolato, soprattutto negli anni della mia giovinezza: era il tipo di musica che più mi entrava dentro. Alcuni hanno scritto che il primo disco è troppo urlato: questa cosa mi ha fatto sempre un sacco a ridere. Secondo me, la musica deve essere un canale di comunicazione che parte sempre dall’esigenza di chi la fa. Sono io che decido come comunico a te qualcosa. Quindi, se effettivamente il primo disco era urlato, vuol dire che in quel momento io avevo voglia di urlare. Nessuno che si sia invece chiesto perché avessi deciso di urlare.
Un’esigenza che invece non hai sentito per La fame. È molto più intimista, come se fosse quasi una tua analisi di psicoterapia.
Me ne sono resa conto anch’io ma non perché abbia voluto allontanarmi da una certa aggressività. A me, l’aggressività nella musica piace, penso che sia una forma di comunicazione molto diretta, smuove qualcosa dentro e non lascia indifferenti. La differenza tra primo e secondo disco è dettata dal contesto in cui li ho scritti.
Il primo nasce nel periodo in cui ho vissuto a Roma: sono stati dieci anni molto dolorosi della mia vita e l’album è pieno delle sensazioni che ho vissuto. Roma è stata una città in cui, a livello personale, mi sono sentita molto sola e inascoltata. Quindi, avevo l’esigenza di usare certe sonorità e di urlare moltissimo.
Quando sono tornata a Trieste, casa mia, è cambiato qualcosa. Si è calmata una parte di me, ritrovando un po’ di pace. Il secondo disco è, quindi, figlio di uno stato d’animo diverso.
Ma a Trieste è così forte il peso della religione come canti in Come i sassi?
Assolutamente no. Trieste è una città abbastanza godereccia, un po’ come tutte le città sul mare. Ci piace appunto stare all'aria aperta, vivere e cenare bene, il bicchiere di vino di fronte mare al tramonto. Direi che non è una città così religiosa. Ciononostante, io ho vissuto un'infanzia e un'adolescenza, un po’ dipendenti dalla religione. Ma non perché i miei genitori in qualche maniera mi avessero portato in quella direzione. È capitato. Come capita spessissimo a tanti, ci si ritrova in un contesto in cui si va a messa la domenica mattina, a suonare come me in chiesa e a vivere la religione come un insieme di superstizioni più che di concetti spirituali.
Sono stata molto abbandonata a me stessa. La religione cattolica, in tante realtà, si riduce ad ascoltare una predica di cui non si capisce niente, a sapere che ci sono delle cose sbagliate che non si devono fare o per cui sarai giudicato o punito. In un'età così delicata per la crescita, come appunto l'infanzia e l'adolescenza, ti mette dei pesi addosso che, secondo me, che non si risolveranno mai. Nessuno ti dice cosa sono quei pesi, non c’è supporto spirituale, cosa che nel mio caso ho ricercato poi negli esseri umani più che nella religione in sé.
Ho scoperto in un secondo momento come ci siano delle comunità religiose caratterizzate da una forte umanità, perché sono proprio delle comunità di persone che effettivamente fanno la differenza chiaro. Ho amici che sono molto legati alle loro comunità d'appartenenza religiosa ed è una cosa bella: non vivono la religione come un'oppressione ma come un momento di incontro, di scambio. Non hanno vissuto quei danni che ti rimangono sempre sottopelle.
Come sei riuscita a liberarti da quei diktat, da quelle imposizioni che ti avevano segnata?
Ti rimangono sottopelle, anche quando pensi di essere libero da certe cose e di vivere la tua vita. C’è sempre la vocina che ti dice “no, non si fa”. È arrivato però un momento in cui mi sono detta “Basta, non ne frega più niente”. Ero stufa di avere quel sottobosco di pensieri fastidiosi che non volevano dire nulla. Non mi davano una guida morale ma solo privazioni e sensi di colpa. Ma è arrivato tardi, verso i miei 25 o 27 anni. E ci ho scritto su una canzone, un po’ come Alanis Morissette con Forgiven.
Cosa ti aspetta adesso? Sarai in tour?
Sicuramente sì. Ora sono in una fase un di recupero vocale. Ho subito un intervento alle corde vocali proprio il giorno dell'uscita del disco. Però, sicuramente ci sarà un concerto a luglio, il 15 a Milano, poi ce ne sarà uno a Trieste il 13 agosto e passerò anche per Roma il 24 agosto. A queste si aggiungeranno altre date che verranno comunicato sul finire dell’estate.
Cosa significa per un cantante subire un intervento piccolo o grande che sia stato corde vocali? Quali sono le paure o i timori?
Si è trattato di una tiroidectomia, ovvero una asportazione della tiroide. La mia tiroide, essendo particolarmente grossa, si era appiccicata a tutto quello che le stava intorno, tra cui le corde vocali. Mi hanno avvisata sul rischio di una possibile perdita temporanea o permanente della voce o sulla sua modifica. Un po’ di preoccupazione c'era.
Però, ero anche molto fiduciosa. Mi ero affidata a mani esperte ed ero molto tranquilla, del resto è un intervento di routine non è particolarmente. Certo, le mie corde vocali stanno soffrendo, però so che è una situazione momentanea e che si risolverà con un po’ di riabilitazione vocale. Coglierò l'occasione per essere un po’ rieducata vocalmente. Sono un autodidatta e non mi farà male mettermi un po’ a studiare.