Per capire chi è Chris Clun, basta dare un’occhiata ai suoi social: 59 mila iscrizioni al suo canale YouTube, 154 mila followers su Instagram e quasi 600 mila su Facebook, dove un lontano giorno di una delle sue sei vite ha cominciato a caricare video che pian piano lo hanno fatto conoscere al di fuori dei confini della sua Palermo.
Classe 1987, Chris Clun ha anche pubblicato un libro per Mondadori, Ma minchia! Storia comica delle mie 5 vite, in cui ripercorrere la sua movimentata esistenza, caratterizzata da continue rinascite, spostamenti e aspirazioni. Quelle che nel 2021 erano solo 5, sono inevitabilmente diventate 6 proprio nel momento in cui ha dato il libro alle stampe, scritto in collaborazione con la compagna Giulia Cassibba.
Nato in un quartiere popolare di Palermo, dove alle scuole elementari era anche normale che ti puntassero un coltello contro segnandoti tutta la vita, Chris Clun sta per esordire allo Zelig di Milano con la sua prima tournée nazionale, L’ultimo uomo sulla Terra, prodotto e distribuito da Tramp Management. E la casa della comicità italiana lo ha già eletto piccolo principe con un sold out inaspettato per chi, come lui, è arrivato ad avere un palco tutto suo dopo essersi reinventato.
Da quando a 14 anni ha scoperto il teatro amatoriale, Chris Clun è stato tante cose. Ha distribuito volantini, ha lavorato come barista e rigattiere, ha studiato hip hop in California ed è volato a Parigi per ricoprire il ruolo prima di barman e poi di chef in un ristorante che di italiano aveva solo la pretesa. Eppure, proprio da Parigi, città in cui aveva un’occupazione solida a tempo indeterminato, un’esistenza da bohemien e una casa appena acquistata (ma col mutuo, come ci ricorda off record durante quest’intervista), ha deciso di rientrare a Palermo per tentare la strada della comicità.
L’ultimo uomo sulla Terra, spettacolo cinico, ironico e divertente, è dunque l’apice della sua essenza. In chiave comica, Chris Clun usa lo spettacolo per intraprendere un percorso introspettivo in cui parla di sé e contrappone il siciliano medio in relazione al resto del pianeta. Dietro alla sua verve, si nasconde però un giovane uomo la cui attenzione è spostata spesso verso la denuncia sociale e le attenzioni nei confronti di chi viene considerato un po’ troppo superficialmente “limitato”.
Chris Clun, che di limiti ne ha conosciuti parecchi per via di una balbuzie che lo accompagna da sempre, insegna infatti in una scuola per giovani con disabilità, prodigandosi affinché questi abbiano un’esistenza sì considerata diversa dagli altri ma realmente inclusiva.
Intervista esclusiva a Chris Clun
L’ultimo uomo sulla Terra, il tuo nuovo spettacolo teatrale, parte da Milano il 9 marzo dal tempio della comicità: lo Zelig.
Lo spettacolo comincia con me che racconto cosa si cela dietro il desiderio di scegliere come nome d’arte Chris Clun. Mi sono riallacciato a quello che hanno fatto Pasquale Zagaria o Enzo Ghinazzi che, prima di diventare dei grandi (spero anch’io di diventarlo!), hanno cambiato il loro nome in Lino Banfi o Pupo (anche se in questo caso, forse sarebbe stato meglio mantenere il proprio nome!). Nel corso dello spettacolo, racconto la mia vita ma parlo anche di temi importanti. Tra questi c’è anche la questione della privacy sui social, dove tutti ormai esterniamo qualsiasi cosa ci passi per la mente, dai ricordi a quello che ci accade. Ed è lì che si disvela il titolo: sono io l’ultimo uomo sulla Terra a pensarla in un certo modo?
Ma tu ti senti davvero l’ultimo uomo sulla Terra?
Siamo in tanti a essere gli ultimi uomini sulla Terra: è vero che ho un modo di pensare mio ma non è così diverso da quello che hanno le persone che mi scrivono: “avrei voluto dire le stesse cose ma non ho mai trovato le parole per farlo: tu ci riesci”. Quindi, è come se, con i miei spettacoli o i miei video, mi facessi portavoce della voce del popolo: chi non ha mai pensato che c’è un limite a tutto? Prendiamo il caso dei Ferragnez, ad esempio: al posto di interessarci dei nostri problemi reali, ci interessiamo a quelli degli altri.
Siamo come tutti come le vecchie signore che si nascondevano dietro le persiane a spiare i vicini…
Molto peggio. Cambiamo professione di ora in ora diventando man mano politici, dottori, psicologi, avvocati: ci siamo presi tutte le lauree possibili e le abbiamo appese al muro del nostro balcone!
Come hai trascorso la vigilia del debutto?
Ho un certo nervosismo addosso: è la prima volta che faccio una tournée nazionale. Sono stato alle prese con interviste varie e ho continuato a lavorare per il web e collaborare con dei brand. Ieri, ad esempio, è stata una giornata assurda: mi sono seduto al computer alle nove del mattino e mi sono alzato alle dieci di sera. Ho dovuto scrivere e montare dei video, ultimare il monologo dello spettacolo e rispondere al telefono. Lo stress è tanto che poi non so realmente se a volte dico delle cose corrette o meno.
Senti il peso dell’aspettativa, la famosa ansia da prestazione?
Esatto. Sento quell’ansia da prestazione che per me termina nel momento in cui metto il primo piede sul palco: mi passa ansia paura e persino la balbuzie, è come se fosse una magia! Per me, salire su un palco non vuol dire fare uno spettacolo ma uscire con degli amici che, mentre si mangia una pizza, ti ascoltano e ridono. Quello che ho sempre voluto creare con il mio pubblico è un clima familiare: mi diverto tantissimo a fare gli spettacoli in teatro, cosa che non sempre posso dire per quelli in piazza. Ecco, in quei casi mi sento un po’ a disagio: è come quando esci con una comitiva nuova e non sai fino a che punto si può osare perché non conosci chi hai davanti.
Cambia di certo la prospettiva. A teatro, sai già che il pubblico è venuto per vedere te. In piazza, invece, hai davanti uno spettatore qualsiasi di cui devi catturare l’attenzione.
Partiamo dal presupposto che chi fa uno spettacolo in piazza, soprattutto per le farie feste patronali, parte con uno svantaggio enorme. Capita spesso che il pubblico sia prevenuto: sul palco può esserci l’artista più affermato o talentuoso del mondo ma il “paesano” sa già che non gli piacerà. Toccherà a te, artista, farlo avvicinare a poco a poco e portarlo nel tuo mondo per fargli cambiare idea. E, a volte, è complicato farlo: mi sono ritrovato in situazioni in cui, mentre mi esibivo sul palco, gruppetti di persone si giravano dall’altro lato e cominciavano a parlare tra di loro o a giocare a carte! Chiamo le piazze “palestre”: sono i luoghi che ti formano e in cui ti fai le ossa… ma io odio la palestra, non ci vado mai: pensa un po’ che connubio!
Da palermitano che va a fare il suo primo spettacolo a Milano, tra l’altro sold out da tempo, come pensi che reagirà il pubblico?
Molti comici mi hanno spesso detto come a Milano si rida facilmente ma non mi cullo su ciò. Avere uno spettacolo totalmente inedito e debuttare nel posto a cui tengo di più, lo Zelig, la casa dei comici, è una bella responsabilità. Mi aspetto che allo spettacolo venga un pubblico che senta l’esigenza di staccare per un po’ la spina dai ritmi di vita frenetici della città per godersi quattro risate, un pubblico che sia lì per divertirsi e quindi carichissimo.
Chi ti accompagnerà in questo viaggio da Palermo a Milano?
Intanto, Giulia, la mia compagna. Mi accompagna ovunque, non poteva mancare per la mia prima tournée nazionale. Ci sarà ovviamente Roberto Bonanno, il titolare della mia agenzia, Tramp Management… e Simone Roccobono, mio amico e comico palermitano a cui spetta il compito di aprire lo spettacolo: non lo sapeva ancora nessuno, doveva essere una sorpresa!
Non ci sono i tuoi genitori, di cui parli spesso anche nel libro Ma minchia! Storia comica della mia vita. Cosa ne pensano oggi di quello che fai?
I miei genitori sono contentissimi, sono dei supporter incredibili. Mia madre, tra l’altro, commenta assiduamente i miei video sui social! Quando hanno visto che stavo cambiando per l’ennesima volta vita, tornando da Parigi, dove avevo un lavoro e comprato anche casa, a Palermo, mi hanno lasciato fare perché hanno capito che in ballo c’era la mia tranquillità: anche ripartendo da zero, ero tranquillo e mi hanno concesso fiducia.
Quello da Parigi a Palermo è uno dei tanti spostamenti che hanno segnato la tua vita. Cosa ha portato un ragazzo ventenne, ad esempio, a lasciare casa per trasferirsi prima negli Stati Uniti?
Non è stato strano averlo fatto: per me è strano chi non tenta di trovare la sua strada e vedere cosa c’è al di là di casa. Non sono mai stato un figlio di papà. Mia madre era casalinga e mio padre carabinieri e insieme hanno cresciuto tre figli. Per andare a Los Angeles e seguire la passione per l’hip hop ho venduto l’oro che mi era stato regalato per il battesimo o per la comunione. Me l’aveva dato mia madre: “È tuo, fanne ciò che vuoi”. Non amando particolarmente i gioielli, l’ho venduto e ne ho ricavato duemila euro: o me li “mangiavo”, come si dice a Palermo, o li usavo per qualcosa di più intelligente. Ho scelto la seconda: ho comprato il biglietto aereo e ho affittato la casa in cui sarei andato a vivere insieme a degli amici.
Parafrasando Marco Mengoni, che giro fanno sei vite?
Fanno dei giri innumerevoli. Sono cresciuto a Bonagia, un quartiere molto popolare di Palermo, e ho visto amici non muoversi da lì: sono nati lì, cresciuti lì e sono ancora lì a far quello che hanno sempre fatto. Non critico e non giudico le loro scelte ma io ho preferito vivere a pieno. La mia vita ha fatto giri immensi e mi sono ritrovato in situazioni sia belle sia spiacevoli ma ho fatto ciò che volevo fare. Ho 36 anni ma spesso mi chiedono com’è possibile che io abbia fatto tutto ciò ma l’ho fatto: quando mi annoio, cambio. Ora sto facendo il comico, mi piace e mi diverte… ma magari tra due anni farò il camionista! È una battuta ma credo di aver trovato ora la mia giusta dimensione.
Vivendo a Parigi, ti sei confrontato con la più terribile delle paure: quella generate dagli attacchi terroristici a Charlie Hebdo prima e al Bataclan dopo. Cosa di prova in quei momenti?
Eh. Si tratta di avvenimenti che spesso senti al telegiornale e pensi che non succederanno mai a te. Il secondo attentato è stato qualcosa di più forte del primo, almeno per me. Non è che un attentato sia qualcosa che capiti tutti i giorni e a cui ti abitui come la pioggia: è stato anche forse una delle ragioni che mi hanno poi portato a prendere la decisione di lasciare la città. Una delle vittime del Bataclan era il proprietario di un negozio di ferramenta a pochi passi dal ristorante parigino in cui lavoravo come chef. Era un cliente del ristorante e, spesso, passando davanti al suo negozio ci si salutava: vedere la saracinesca chiusa con dei fiori lì davanti e sapere così della sua morte mi ha turbato, al suo posto avrei potuto esserci io quella sera.
Hai anche vissuto un momento di paura particolare da bambino: un ragazzino alle elementari ti ha puntato un coltello contro, un’esperienza che ha lasciato in te vari strascichi. Com’è stata la tua infanzia segnata dalla balbuzie?
Quando ero molto piccolo, non ci facevo caso. Crescendo, però, notavo la differenza con gli altri bambini che parlavano bene e non avevano il problema: mi chiedevo perché ce l’avessi io… e tuttora non mi spiego come si faccia a “spegnerla”: prima di parlare, devo fare mente locale e concentrarmi sul provare a non balbettare. Ci sono dei periodi in cui non balbetto per nulla e altri in cui la balbuzie torna in maniera aggressiva, quindi è stato complicatissimo, almeno fino a quando non ho cominciato a conviverci e a collaborarci.
Non parliamo poi dei problemi che mi dava a scuola: ero ad esempio l’unico in classe che non facevano mai leggere ad alta voce. Le interrogazioni orali per me erano un tabù: mi ricordo che i professori mi rimandavano subito al mio posto con un sei e mezzo senza aver detto quasi nulla. Ma forse questo era un bene: tagliavano subito corto, come fanno i call center che, quando si rendevano conto che balbettavo, mi evitavano.
Eppure, come dicevi anche prima, sul palco scompare…
Me ne sono accorto quando ho cominciato a fare teatro. Avevo all’incirca quattordici anni, tutti facevano teatro in chiesa e cominciai anch’io, nonostante si sapesse quanto grave all’epoca fosse la mia balbuzie. Mi aiutò molto il regista in quel caso affidandomi un piccolo ruolo che servì a infondermi fiducia: dopo una prima recita andata bene, cominciò ad affidarmi altri ruoli che mi hanno permesso di capire quanto fosse strana la mia balbuzie. E con la fiducia acquisita cominciai anche ad essere anche più divertente in scena, ad avere un mio personaggio e un mio stile.
Quindi, a 14 anni facevi già teatro. Hai fatto il giro delle tue vite per poi ritornare a fare ciò con cui avevi iniziato.
Esatto. Anche se quando ballavo, tutti – compreso mio padre – mi dicevano che ero comico e facevo ridere. La cosa assurda sia dello spettacolo sia del mio libro è che quello che racconto è tutto realmente accaduto. Spesso anche Giulia, mentre lo scriveva sotto mia dettatura, mi chiedeva se stessi esagerando ma no!
Nel tuo libro, non nascondi di aver pianto in alcuni periodo molto delicati. In una società che ci vuole vincenti e iper performanti, è sempre bello vedere o leggere qualcuno che mostra i suoi lati più vulnerabili.
Nessuno si dovrebbe vergognare di dirlo o di ammetterlo: fa parte dell’essere umano anche il pianto. È un modo per mostrare a chi ti segue di essere comunque un umano come loro: in molti pensano solo all’aspetto più ludico del mio mestiere ma anche noi comici siamo persone con dei lati molto comuni. Ed è anche una maniera per ripagare la fiducia che pubblico e follower ripongono in me: mi raccontano spesso situazioni molto delicate che vivono e mi ringraziano per quegli attimi di spensieratezza che regalo loro. È giusto quindi che anch’io confidi loro i miei fatti personali.
Uno dei momenti più toccanti è sicuramente rappresentato dal tuo addio alla famiglia quando prendi un pullman che da Palermo ti porterà all’aeroporto di Trapani per volare fino a Parigi.
Ricordo benissimo quel momento: è stato quello in cui ho capito realmente quello che stava accadendo. Ho realizzato che mi stavo staccando dalla famiglia, dagli amici e da tutto il resto: stavo letteralmente per cambiare vita e mettere da parte quella che avevo vissuto fino a quel giorno. La partenza del pullman ha rappresentato l’attimo in cui ho soppesato il distacco.
Sei molto presente sui social, soprattutto su Facebook. Come ti relazioni con gli haters?
Li blocco. Prima tendevo a rispondere ai commenti negativi ma capitava che alla mia risposta seguissero quelle dei fan che in mia difesa passavano all’attacco: si finiva così con l’andare sul pesante. Oggi, invece, blocco gli hater: accetto le critiche costruttive ma non l’attacco gratuito o quello che va sul personale. Fortunatamente, di hater ne ho avuti finora pochissimi: l’unico episodio sgradevole mi è capitato tempo fa quando sono stato oggetto di dissing da parte di un cantante neomelodico per un mio video di denuncia sociale sull’abusivismo.
Cosa ti porta ancora oggi a impegnarti così tanto a livello sociale?
Un pensiero di fondo: tutti potremmo denunciare una situazione scomoda o aiutare chi ne ha bisogno. Ma non lo facciamo perché “tanto ci pensano gli altri” a farlo. Quando mi è stato proposto di insegnare alla Yellow School, un’accademia per ragazzi con disabilità, non mi sono posto molte domande: vi posso assicurare che ti ambiano anche il modo di pensare. Per me, è come ritrovarsi con degli amici: con loro sono tornato a fare le cose che facevo a 14 anni, quindi gli sketch, i video, le commedie… in questo periodo, stiamo mettendo in piedi una versione di Romeo e Giulietta rivisitata.
La finalità della scuola è quella di inserirli nel mondo del lavoro e di responsabilizzarli, non di giudicarli o di considerarli “limitati” come ha fatto effettivamente qualcuno. E, quindi, proponiamo loro numeroso attività: c’è chi lavora con i pupi o con i robot, chi con la stampa 3D, chi va a lavorare al b&b, chi si occupa sia di teatro sia di web, chi fa capoeira… insomma, tutta una serie di attività che stimolano sia la mente sia il corpo.