La California è il film che segna il ritorno alla regia di Cinzia Bomoll a più di dieci anni dal suo precedente film, Let’s Dance. La lunga assenza ci viene spiegata dalla regista emiliana nel corso di quest’intervista ed è dovuta fondamentalmente a ragioni personali da un lato e da una certa dose di delusione sul sistema cinema. Per La California, Cinzia Bomoll ha puntato su una coppia di protagoniste mai vista prima sullo schermo: le gemelle Giulia e Silvia Provvedi, meglio conosciute come Le Donatella.
Quella che sulla carta sembrava una scelta rischiosa si è rivelata invece vincente. Le gemelle Provvedi non solo risultano credibili nei panni di Ester e Alice ma hanno anche preso molto seriamente l’impegno per la recitazione, cominciando a studiare anche mesi prima di mettere piede sul set. Curiosamente, Cinzia Bomoll non conosceva molto delle Provvedi prima di sceglierle. Non sapeva del loro passato televisivo e non era a conoscenza di certi argomenti più da gossip. Ma non per presunzione intellettuale: semplicemente era lontana dall’Italia.
Quando per tanti anni stai nel deserto del Mojave e diventi mamma è difficile che ti interessi sapere chi abbia vinto l’Isola dei Famosi o chi abbia partecipato a X-Factor. In quei momenti, tutto ciò che è effimero è lontano da te, soprattutto se hai bisogno come ha fatto Cinzia Bomoll di rimetterti in contatto con la natura, di far pace con la tua mente e ritrovare te stessa.
La California è un film che è anche figlio degli anni che Cinzia Bomoll ha trascorso lontana dalla sua Emilia. Così com’è figlio della sua turbolenza giovanile e del suo divenire donna tra prove più o meno facili da superare. Ma per parlare del film occorre anche tenere in considerazione altri due aspetti importanti: la passione di Cinzia Bomoll per la criminologia e la scrittura di romanzi (ha appena pubblicato La ragazza che non c’era) da un lato e l’intervento di Piera degli Esposti dall’altro.
La California è un film che racconta di come due gemelle, Ester e Alice, in una zona del modenese schiacciata tra cielo, terra e fabbrica, imparano a scoprire gli aspetti positivi e negativi del loro essere donne. Ma è anche inevitabilmente la storia di come gestire ognuno il proprio doppio, quell’alter ego spesso metaforico che cerca di prendere il sopravvento sull’io per imporsi e portare a una rinascita. La scelta di rimanere sul vago è voluta: il film ha un colpo di scena senza il quale non potrebbe essere raccontato ma è giusto lasciarlo alla visione proprio perché avviene sul finale.
Prodotto da Cinzia Bomoll per Amarcord e Karina Jury per 17Producciones con il contributo di Emilia-Romagna Film Commission e Ibermedia, La California è stato presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma e arriverà in sala il prossimo 24 novembre grazie a Officine Ubu.
Intervista esclusiva a Cinzia Bomoll
La California è quella zona del modenese in cui è ambientato il tuo film ma è anche dove hai vissuto tu per un lungo periodo, nel deserto del Mojave.
Ci sono delle similitudini tra il deserto del Mojave e quell’angolo di provincia modenese. Certe cose a livello inconscio rimangono: ho fatto un film ambientato tra Modena e Bologna ma poi l’ho intitolato come qualcosa che ha interessato un certo mio periodo di vita. Ma c’è anche un’altra coincidenza curiosa: da piccola, passavo spesso per quella zona del modenese per andare da mia nonna. Guardavo il nome sul cartello, La California, e sognavo di andare oltreoceano. Il film è frutto anche di certe coincidenze nostalgiche e anche affettive, legate alla mia infanzia, al periodo nel Mojave (dove, tra l’altro, sono anche diventata mamma) e al mio ritorno in provincia dopo vent’anni in cui sono stata lontana. Il fattore nostalgia ha giocato un ruolo abbastanza potente.
Sognare la California è qualcosa che fanno anche i due personaggi principali del tuo film, le gemelle Ester e Alice. Quanto di te c’è in loro?
C’è tanto di me e dei miei ricordi. Qualcuno mi ha addirittura fatto notare che c’è una certa somiglianza tra Silvia e Giulia Provvedi, le attrici protagoniste, e la me degli anni Novanta. Vestivo un po’ come i loro personaggi e avevo anche un certo camaleontismo, soprattutto con il colore dei capelli. Un po’ come si vede anche sin dalla copertina del mio romanzo Lei che nelle foto non sorrideva. La California si ispira vagamente alle figure di quel romanzo ma la storia è talmente diversa che il film necessitava di un altro titolo. Tanto che l’editore, Ponte alla Grazie, mi ha chiesto di trasformare anche La California in un libro.
Un libro permetterebbe di approfondire meglio la psicologia dei personaggi. Non solo quella delle gemelle al centro della storia ma anche quella, ad esempio, della loro madre Palmira, alle prese con la depressione post partum, argomento quasi tabù per il cinema italiano a parte rare eccezioni. Sul finale, che non possiamo ovviamente svelare, Palmira (Eleonora Giovanardi) è protagonista di un gesto che molto fa riflettere sul suo ruolo di madre.
È un modo per dire alla figlia che nelle prime sequenze vorrebbe quasi lanciare dalla finestra che alla fine “è sopravvissuta”. E deve, per forza di cose, accettarlo.
La sceneggiatura porta la firma anche di Piera degli Esposti. Come avete lavorato?
La California nasce dal mio desiderio di fare un film che parlasse del doppio, un elemento che è insito in quasi tutti noi e al centro di Lei che nelle foto non sorrideva. Rispetto alla storia del romanzo, mi piaceva l’idea di aggiungere un’atmosfera più noir, comunque più coinvolgente dal punto di vista cinematografico.
Quando Piera degli Esposti è entrata nel progetto, quello che si è approfondito maggiormente è stato l’aspetto storico del suo personaggio, Saetta, una donna che lei conosceva bene. Bolognese, Piera ha vissuto ovviamente diversi anni in Emilia prima di trasferirsi a Roma e diventare la grande attrice che è stata. Ha dunque vissuto nella sua infanzia tutta una serie di situazioni, tra cui il periodo dei partigiani. Tutto ciò ci ha permesso di creare Saetta, la voce narrante di tutto il film.
Staffetta partigiana, Saetta stava nella storia con il nonno delle gemelle protagoniste, che a sua volta era un partigiano. Piera ci teneva molto a essere la voce narrante e a curare tutto l’aspetto, compreso quello politico, legato alla sua Saetta. È grazie a lei se nella storia sono entrati nuovi personaggi.
L’intero film è dedicato a Piera. Ha registrato la voce narrante prima di andarsene via e il suo personaggio non ha volutamente un volto: non me la sono sentita di usare il volto della controfigura, nonostante il rispetto per l’attrice che ha poi “interpretato” Saetta. Ecco perché ho scelto di lasciare Saetta aleggiare misteriosa e coperta da un velo: è al tempo stesso fantasma e memoria storica. Saetta è metafora di tante cose, al punto che il romanzo che trarrò dal film penso che sarà raccontato in prima persona da lei.
Da un punto di vista produttivo, La California è frutto di una collaborazione italo-cilena, la tua Amarcord Film, e la 17 Producciones di Karina Jury.
Ho conosciuto Karina Jury per un altro film per cui ho vinto un bando di sviluppo ma che è ancora, appunto, in fase di sviluppo, Chi ha ucciso Lumi Varela?, la storia della combattente cilena trovata morta all’interno dell’ambasciata italiana in Cile. Ci siamo incontrate e ha espresso il desiderio di leggere altre mie cose, incappando così in La California. Ne è rimasta subito molto colpita. Dal momento che ne trovava il soggetto più fattibile e facilmente realizzabile, ha deciso che sarebbe entrata nella produzione.
Ed è stato l’incontro con Karina che ti ha permesso di avere nel cast di La California uno dei più grandi attori sudamericani viventi: Alfredo Castro.
Amavo Castro da quando l’ho visto in Tony Manero di Pablo Larrain. L’ho detto a Karina e lei mi ha risposto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, che lo conosceva bene. Ed è così che Alfredo è entrato a far parte del cast, nei panni di Martin, un cileno che arriva in Emilia alla ricerca della sezione del Partito Comunista. La sua storia ricorda quella di tanti cileni esuli che dagli anni Settanta agli anni Novanta sono arrivati nella mia regione per cercare l’appoggio della sinistra emiliana.
Martin, il personaggio di Castro, porta però con sé il figlio Pablo, colui che diventerà per molti versi il motore dell’azione: è il ragazzo conteso da Ester e Alice, le due gemelle protagoniste.
Purtroppo, Pablo è l’elemento di discordia. Entrambe le sorelle si invaghiscono di lui. Ma più che voler Pablo, in realtà, entrambe desiderano che non sia dell’altra. E il motivo è semplice: hanno paura di perdersi. Sin da piccole, si sono promesse che mai niente o nessuno, nemmeno un moroso, le separasse. Il terrore di Ester e Alice è quello di perdere la loro forte sorellanza nel momento in cui una delle due si innamora di un elemento esterno. Pablo rompe il loro equilibrio.
Ester e Alice, uguali fisicamente, sono diverse psicologicamente. Sono il giorno e la notte, lo yin e lo yang.
Ho pensato proprio a questi elementi mentre scrivevo la loro storia. Le ho definite il dottor Jekyll e mister Hyde femmina. Anche a livello estetico, una è più dark mentre l’altra è più solare.
La California: Le foto del film
1 / 39Hai scelto di fare interpretare le protagoniste a una coppia di gemelle che per la prima volta si sono cimentate con la recitazione: Giulia e Silvia Provvedi, le Donatella. Non è stato un azzardo?
Mi rendo conto benissimo che è stato un rischio, una scommessa. La mia è stata una scelta coraggiosa, certo. Però, non per i motivi che tutti pensano. Quando ho cominciato a concepire il film, ricordo che sono andata su Google e ho cercato coppie di gemelle italiane. Ovviamente, il motore di ricerca mi ha restituito una serie di nomi, tra cui le gemelle Fontana, Marianna e Angela. Le ho anche prese in considerazione ma, purtroppo, hanno deciso di non lavorare più insieme. Sarebbero anche state fisicamente poco adatte per via dei loro tratti meridionali e non parlano emiliano, caratteristica che le gemelle Ester e Alice dovevano avere.
Tra i risultati restituiti, c’erano anche Silvia e Giulia Provvedi. Sinceramente, non le conoscevo: non guardo un certo tipo di televisione e, soprattutto, non ho visto la televisione italiana per molto tempo. Fisicamente, Silvia e Giulia corrispondevano a ciò che avevo in mente io. In più, bionda e mora, essendo originarie di Modena, parlavano già emiliano. Ho voluto allora conoscerle e, grazie a un amico in comune di Modena, le ho incontrate. Sono andata all’incontro senza sapere nulla di loro: volevo conoscerle direttamente, senza farmi influenzare da altro. Mi sono così ritrovata davanti a due ragazze molto genuine, spontanee, in tuta e totalmente senza trucco: erano loro le mie gemelle.
Le ho conosciute sotto tutto un altro aspetto, lontano da quello che può aver mostrato la loro partecipazione a X-Factor o all’Isola dei famosi, o il gossip. Non sempre uno è ciò che sembra: io punto più al primo aspetto, all’essenza, non mi lascio influenzare da fattori esterni. E mi sono ritrovata davanti due attrici che sono andate dritte al sodo, in maniera diretta e senza filtri.
Le Donatella, che presentano un inedito nei titoli di coda, si dimostrano anche particolarmente brave e credibili. Mi auguro che il tuo film serva anche a far cadere molti dei pregiudizi nei loro confronti.
Esatto. Mi rendo conto che la mia scelta è stata coraggiosa ma si dovrebbe sempre scommettere un minimo sulle persone, al di là di quello che hanno fatto o da dove provengono. È interessante vederle in una nuova veste: sono diversissime da tutto ciò che hanno fatto prima, continuano a fare o daranno per scelte un po’ più commerciali. In La California, è come se fossero in una bolla a parte che esula da tutto il resto. Mi piace portare avanti questo tipo di operazioni. L’ho fatto, se posso dirlo, anche con Andrea Roncato, anche se per tutte altre ragioni: Andrea è un attore di professione ma ho voluto rivestirlo di un ruolo drammatico, di panni che non siamo abituati a vedere. Mi piace prendere delle figure, anche molto note, per poi plasmarle, trasformarle o tirar fuori da loro aspetti inconsueti.
Come hai lavorato con loro sul set?
Sul set, ha fatto loro da coach Paola Lavini. Prima di cominciare a girare, però, hanno avuto una coach a Milano, città in cui vivono, per un paio di mesi. Giulia e Silvia si sono dedicate completamente al film e hanno preso la recitazione in maniera molto seria: si rendevano conto che era qualcosa di diverso a cui non erano abituate, motivo per cui hanno voluto essere molto precise e, soprattutto, molto professionali. Si sono dedicate tantissimo al progetto e hanno studiato altrettanto. Mi sono piaciute molto e mi hanno confermato che avevo scelto bene.
Le Donatella non sono le sole cantanti presenti nel tuo film. Ci sono anche Lodo Guenzi, Angela Baraldi, Andrea Mingardi e Nina Zilli.
Non dimentichiamo che Lodo Guenzi aveva iniziato come attore, studiando all’Accademia d’Arte Drammatica: si è già rivelato molto bravo in Est. Ci sono così tanti cantanti nel film proprio perché in Emilia da sempre quasi tutti, parlo della gente comune, cantano e fanno musica: è una cosa normale, come dimostra anche Lavinia, il personaggio della parrucchiera con il sogno del rock interpretato da Angela Baraldi.
Ho chiamato io direttamente Nina Zilli: mi è sempre piaciuta e l’ho sempre trovata molto interessante. È emiliana anche lei, di Piacenza. E anche con lei trovavo interessante il farle fare qualcosa di lontano dalla sua comfort zone: recitare senza cantare. E questa è anche la ragione per cui Nina ha accettato di prendere parte al film: per la prima volta, qualcuno le proponeva di fare l’attrice senza dover necessariamente cantare. Mi ha raccontato di aver detto di no ad altri progetti cinematografici proprio perché la chiamavano per poi farla cantare. Io le ho proposto invece il ruolo di una barista in un bar Arci, qualcosa che le ricordava anche gli anni della sua infanzia. “Ho accettato perché, se faccio cinema, voglio fare qualcosa di diverso dal cantare: recitare”, mi ha detto.
In un certo modo, hai fatto da precorritrice a qualcosa che ultimamente vediamo spesso al cinema: l’uso dei cantanti come attori. Perché tu hai scelto il tuo cast due anni fa, in un periodo definiamolo non sospetto. Come mai ha impiegato così tanto tempo a finire il film?
L’idea dei cantanti come attori sembra quasi di moda in Italia ma è figlia della tradizione americana, non dimentichiamolo: negli Stati Uniti, dove la tradizione del musical è forte, gli attori e i cantanti devono saper far tutto. Perché due anni? Per un film indipendente, non è semplice mettere insieme i fondi necessari. Non ho avuto una grossa produzione alle spalle e, quindi, ho dovuto lavorare tanto per trovare i finanziamenti, gli sponsor o i contributi.
Pensi che se a proporre lo stesso film fosse stato un uomo avrebbe incontrato le stesse difficoltà?
Dipende da chi sarebbe stato a proporlo. Mi dispiace un po’ ammetterlo ma, soprattutto all’inizio della mia carriera, quando c’erano meno donne registe, sono stati in pochi a concedermi fiducia: ero donna ed ero giovane. Fortunatamente, qualcosa sta cambiando ma, memore delle esperienze passate, posso affermare che per una donna è un po’ più dura, il pregiudizio è duro da abbattere. Guarda caso, per La California ho trovato il sostegno di una produttrice donna per prima. Solo dopo è entrato l’interesse e il finanziamento della regione Emilia-Romagna, ma non penso che per loro il mio genere abbia fatto differenza.
Sei tornata al cinema a distanza di più di dieci anni dalla tua ultima esperienza da regista con Let’s Dance. Come mai è passato così tanto tempo? Cosa ti aveva portata alla decisione, per fortuna revocata, di abbandonare il cinema?
Ero rimasta scottata da certe dinamiche e dal sistema. Ero stanca e forse delusa da come funzionavano le cose. Mi sono presa un lungo periodo sabbatico e mi sono dedicata alla scrittura dei miei romanzi e a mia figlia. Ho dovuto ora ricominciare quasi da capo: il cinema non ti viene a cercare se non sei tu a farlo, soprattutto se non sei un grande nome hollywoodiano. Mi sono un po’ isolata da tutto quando ma negli Stati Uniti, vedendo quanto è facile lì far cinema indipendente, mi è tornato il desiderio di rimettermi in gioco: ho aperto allora una mia casa di produzione e avrei anche voluto realizzare lì La California. Invece, poi, ho preferito girarlo in Italia e ho fatto bene: lo sento più mio e mi ha permesso di lavorare con Piera.
Com’è stato per te il primo giorno di set?
Molto emozionante. Ricordo che quando mi capitava di imbattermi in set altrui quasi mi veniva da piangere per la nostalgia: ciò mi faceva capire che non avrei mai potuto stare del tutto lontana. Ritrovare il set è stata un’emozione molto grande: è stato riprendere in mano qualcosa che per me è importantissima e di cui non posso fare a meno. La California è qualcosa di molto diverso da ciò che ho fatto in precedenza, restituisce maggiormente il mio sguardo.
Uno sguardo, il tuo, che negli anni è diventato anche più da criminologa. Hai una laurea in Scienze della Formazione ma poi negli anni hai conseguito un master in Criminologia. A cosa si deve tale fascinazione? È indotta o è innata?
La criminologia è sempre stata la mia passione, anche all’epoca dell’Università. Non ho avuto il coraggio di studiarla sin da subito ma, appena ho potuto, ho voluto conseguire il master. È una passione innata, la mia famiglia fa tutt’altro. Intorno ai dieci anni manifestavo già il desiderio di voler fare il medico legale da grande. Mi piace osservare scientificamente o, comunque, in maniera molto scrupolosa sia la realtà sia le cose che scrivo, quasi come fanno i medici legali.
Nei romanzi mi riesce ovviamente meglio. Il mio ultimo libro, La ragazza che non c’era, è molto psicologico: chi l’ha già letto, sostiene che è quasi come un film per il modo in cui si analizza la mente dei personaggi. Sono anche molto attratta dai film e dalle serie tv crime, ultimamente ho trovato bellissima su Netflix Dahmer: adoro i prodotti così tosti o che danno fastidio anche a me che oramai sono un po’ avvezza a tutto. C’è ancora qualcosa che riesce a farmi paura!
L’aspetto psicologico in La California è molto presente. Le due gemelle protagoniste è come se fossero le due facce di un’unica donna, chiamata a confrontarsi con il lato positivo e quello negativo della vita e scegliere dove stare o reinventarsi. Quanto c’è anche di tuo?
C’è molto di mio. Come dicevo prima, c’è molto di me da giovane, quando una parte prevaleva sull’altra o viceversa. Credo sia una caratteristica di certi periodi della vita che appartengono a tutti noi, quelli in cui devi ancora capire bene cosa vuoi diventare. In quei momenti, si è come scissi tra le due parti, con una che cerca sempre di prevalere sull’altra. È la storia del doppio che è in tutti noi, soprattutto negli anni dell’adolescenza e della giovinezza, quando ancora non sai bene cosa vuoi.
Hai anche fatto una scelta precisa per le immagini: hai girato con lenti anamorfiche che richiamano un certo cinema degli anni Settanta, con una sequenza finale particolarmente interessante dal punto di vista tecnico.
Quel movimento di macchina è stato deciso insieme alla direttrice della fotografia, Maura Morales Bergmann… un altro elemento femminile sul mio set: per ruoli solitamente ricoperti da uomini, per quanto ho potuto ho scelto donne. Sarà stato qualcosa di inconscio. Con Maura abbiamo deciso di inventarci qualcosa di diverso, giocando tra ottica e movimento, grazie a una struttura costruita apposta per far slittare l’altalena di quella scena verso la macchina da presa.
Lo abbiamo citato tra le righe: hai appena pubblicato il tuo nuovo romanzo, La ragazza che non c’era, un thriller con protagonista un’ispettrice, Nives Bonora, che ben si presterebbe a una serie tv. Saresti disposta a metterti in gioco anche con quel linguaggio? Chi immagini come protagonista?
Assolutamente sì, anche perché il romanzo si presta alla serialità: termina con un cliffhanger e sto già pensando al seguito. Sto vedendo in questo periodo molte serie tv crime, anche italiane, e una che ho apprezzato molto è Petra, con una tosta Paola Cortellesi. Come eventuale protagonista vedrei bene Matilda De Angelis: come Nives, anche lei è emiliana ed è forte e fragile al tempo stesso. Mi ha colpita il suo coming out sull’ansia e gli attacchi di panico, per cui la vedo molto simile a Nives. E, come vedi, anche Matilda De Angelis da brava emiliana canta.
Soffri o hai sofferto anche tu di attacchi di panico?
Per fortuna, non più. Ne ho sofferto in passato, soprattutto quando ho vissuto dei momenti molto duri, coincidenti alla mia scelta di lasciare l’Italia e cercare una situazione più tranquilla nel deserto del Mojave.
E l’hai trovata?
Si. Il Mojave mi ha rimessa in contatto con la natura, un elemento che in La California è molto importante. Ritrovare il contatto con la natura mi ha permesso anche di ritrovare me stessa, permettendomi di ritrovare anche il rispetto per il corpo e per la mente. L’equilibrio mi ha insegnato a vivere meglio e a non cedere al panico. Tutta la frenesia e lo stress che ci circondano ci hanno fatto perdere il contatto con la terra, dobbiamo provare a riscoprire le cose concrete e spirituali. Perché la terra è sì concreta ma allo stesso tempo ti riallaccia al cielo, l’altra dimensione necessaria per imparare anche a gestire se stessi e vivere più sereni.
Di recente, sui social hai raccontato del tuo trasloco in una nuova abitazione facendo riferimento alla paura dei rumori notturni. Quali sono i rumori di notte che più temi?
I rombi delle macchine e dei motori. Li trovo agghiaccianti: la velocità potrebbe essere causa di incidenti e, quindi, di morte. Sono cresciuta a Sant’Agata Bolognese e ne ho visti di incidenti, per non parlare dei gatti che ho perso a causa delle auto che sfrecciavano.
Un’auto che sfreccia e che poi porta a qualcosa di negativo è presente anche in La California.
L’ho messa di proposito. Da quelle parti, c’è la fabbrica della Lamborghini e sin da piccola ho iniziato a collegare il rumore delle auto con qualcosa di molto horror.