Cinzia TH Torrini, figura di spicco nel panorama cinematografico italiano, porta sullo schermo la storia vibrante e intensa di Gianna Nannini nel suo ultimo film, Sei nell'anima, prodotto da Indiana e distribuito da Netflix. Cresciuta nell'ambiente artistico fiorentino, Cinzia TH Torrini ha trascorso una carriera distinguendosi non solo per la sua abilità tecnica, ma anche per un approccio empatico e distintamente emotivo alla narrazione. Il suo percorso l'ha portata a studiare cinematografia a Monaco di Baviera, una mossa audace che riflette il suo spirito indomito, simile a quello di Nannini, che ha rinunciato all'eredità familiare per inseguire la sua passione musicale.
Le loro storie si intrecciano ancor prima di conoscersi, legate da un filo conduttore rappresentato dalle loro madri, entrambe dirigenti nell'Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d'Azienda (AIDDA). Questo retroscena familiare e la condivisione di radici toscane arricchiscono il tessuto emotivo e culturale del film Sei nell’anima, permettendo a Cinzia TH Torrini di esplorare le sfide e le conquiste di Nannini con una prospettiva intima e comprensiva.
Sei nell'anima non solo racconta tre decenni della carriera di Gianna Nannini, ma si addentra nelle profondità della sua vita personale, esplorando temi di emancipazione, resilienza, salute mentale e identità artistica. Cinzia TH Torrini, con il suo stile regista versatile e la sua capacità di evocare profonde emozioni sullo schermo, affronta questi temi con una sensibilità che trascende il genere e il ruolo tradizionalmente attribuiti alle registe nel cinema.
Con un cast attentamente selezionato che include volti noti e nuovi talenti, Cinzia TH Torrini ha orchestrato una narrazione che è sia un omaggio che una rivelazione, esplorando le complessità di una donna che ha osato vivere secondo i propri termini. La sua visione regista e la collaborazione stretta con Nannini per la sceneggiatura e la colonna sonora hanno permesso di creare un'opera che è tanto un biopic quanto un'esplorazione universale di lotta e trionfo personale.
Questa intervista a Cinzia TH Torrini ci offre uno sguardo esclusivo dietro le quinte di Sei nell'anima, attraverso gli occhi di una regista che ha fatto della passione e dell'integrità artistica i pilastri della sua carriera. Ma è anche un ritratto di una donna che per la prima volta racconta le sfide personali e professionali che ha incontrato.
Intervista esclusiva a Cinzia Th Torrini
“Non esiste un cinema al femminile, però sicuramente ognuno di noi psicologicamente è influenzato da ciò che sente: una donna vede tutto in modo diverso e ha delle emozioni diverse”, mi risponde subito Cinzia TH Torrini quando nel complimentarmi con lei per il lavoro fatto con il film Sei nell’anima la conversazione vira subito al tipo di sguardo adottato. “Anch’io mi sono sempre difesa dicendo ‘Io sono regista’: ho studiato per esserlo e su un set so far tutto, dal macchinista al fonico o all’elettricista. Tecnicamente, quindi, tra me che sono donna e un uomo non ci sono differenze”, mi accenna dando lo spunto per un argomento che nel corso della nostra intervista torneremo ad affrontare.
Sei nell’anima ripercorre tre decadi della storia di Gianna Nannini. Tu e lei siete legate da uno strano legame che affonda le sue radici indietro nel tempo: a conoscersi per prime sono state le vostre rispettive madri.
Entrambe facevano parte di un’associazione che si chiama AIDDA (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda), che esiste tuttora: ai tempi, di donne manager non ce n’erano molte e le poche che esistevano andavano in giro per il mondo per incontrare le altre colleghe. Sono state tutte e due vicepresidenti e hanno avuto modo di conoscersi bene e di condividere la disperazione per avere due figlie, coetanee, ‘anomale’: Gianna, che invece di seguire l’impero della pasticceria Nannini ha rinunciato a tutto per far la cantante, ed io che, che ho mollato Firenze, la famiglia e tutto, per frequentare la scuola di cinema.
Ricordo ancora quale fu la reazione di mia madre quando le dissi che volevo trasferirmi a Roma per provare l’ammissione al Centro Sperimentale: un bel ceffone, un mezzo educativo che ai tempi ancora era tollerato e che in qualche caso faceva anche bene. Non nel mio, considerando che proprio i ceffoni m’hanno insegnato a disobbedire o a escogitare alternative.
E quale fu l’alternativa?
In quel periodo, il cinema tedesco a livello internazionale era molto riconosciuto, grazie ad autori come Fassbinder, Schlöndorff e Wenders. Feci allora in modo di iscrivermi all’università in Germania e da lì provare a fare gli esami per entrare all’Accademia di Cinematografia di Monaco di Baviera.
La Germania è un altro aspetto in comune con Gianna Nannini: anche lei passò da lì durante gli anni di gioventù.
Ma non solo. Come lei, anch’io prima di partire per la Germania, sono passata da Milano, dove ho lavorato come assistente a un fotografo di arredamento. Sono rimasta in città per un mese e, non avendo abbastanza soldi, sono stata i primi giorni ospite di una pensione a ore e poi di casa in casa: era normale ritrovarsi a dormire in casa di altri che ti invitavano. Ma allora io e Gianna non ci conoscevamo: le nostre madri non ci avevano ancora presentate.
Entrambe avete cercato emancipazione molto presto.
Siamo molto simili. Siamo partite entrambe dalla Toscana quando non eravamo ancora maggiorenne. Quella delle nostre madri è una generazione di madri avventurose: non c’erano ancora i telefonini, non c’erano i social media e le loro figlie sparivano non dando notizie per interi periodi di tempo. Ho fatto ad esempio dei lunghi viaggi da sola: a diciannove anni, andai in Egitto senza che i miei volessero. Poteva capitarmi di tutto, era la loro spiegazione fino a quando una notte, mentre parcheggiavo l’automobile in giardino, mi imbattei in uno sconosciuto che cercava ben altro: il pericolo, quindi, era anche in casa, ragione in più per partire… l’ho fatto e non mi è successo nulla.
Cosa aveva fatto nascere in te l’amore per il cinema?
A far scattare l’amore in me per il cinema è stato il film Paper Moon: ha fatto nascere in me la voglia di raccontare storie, un desiderio anche mio sin da ragazzina. Vedevo intorno a me tante cose che non funzionavano e in me era forte la volontà di dare dei messaggi che fossero positivi: è ciò che cerco di fare in tutti i miei lavori, anche se ho fatto Elisa di Rivombrosa…
Ti attaccano ancora per quella serie tv da 12 milioni di spettatori?
Mi hanno un po’ appiccicato addosso l’etichetta della melodrammatica, anche se fino a quel momento avevo sempre realizzato storie molto toste, come ad esempio Dalla notte all’alba, una miniserie per la Rai in cui Remo Girone interpretava un chirurgo che per operare aveva bisogno della cocaina, o il mio primo film di finzione, Hotel Colonial…
…che non era di certo per educande.
E non lo era nemmeno Elisa di Rivombrosa, sebbene il riferimento fosse Pamela: di fondo c’era molta sensualità. In tante all’epoca mi scrivevano che grazie a Elisa avevano imparato ad amare il proprio marito. Il messaggio era proprio l’amore, ciò che alla fine manda avanti tutto. Al di là delle critiche, fu un vero fenomeno di costume: mi raccontavano episodi di camerieri che nei ristoranti portavano i piatti in fretta sui tavoli per correre in cucina a vedere cosa accadeva o di gente che scappava in fretta dai matrimoni o dai battesimi per non perdersi la puntata… si inventano le scuse anche meno plausibili per stare chiusi in casa davanti alla televisione.
Il messaggio: quale pensi che sia quello che arrivi attraverso Sei nell’anima?
Al di là del biopic su Gianna Nannini, una donna straordinaria e vulcanica per cui nutro grande ammirazione per il suo essere una vera artista, una poetessa con una voce in grado di far vibrare l’anima, Sei nell’anima è una storia di formazione che invita a seguire la propria passione, quando se ne ha una, nonostante tutto ciò che accade intorno. A Gianna, per esempio, gliene sono successe tante ma non ha mai perso la sua determinazione, accettando di salire alle stelle ma anche di cadere nelle stalle e da lì provare a rialzarsi. Non è semplice farlo ma occorre tener duro, soprattutto quando nelle stalle devi capire come muoverti.
Ma è anche un film che racconta di salute mentale, di aspettative e dell’essere performante a tutti i costi, qualcosa che viene richiesto agli artisti ma anche agli sportivi, oltre che a tutti quanti: devi produrre, devi fare una hit, devi essere creativo… come se dietro ci fosse un calcolo matematico e non una questione di ispirazione. Per essere creativo, devi essere ricettivo, soprattutto se vuoi rinnovarti e non ripeterti. E Gianna con la sua musica ha dimostrato di essere un’artista vera, in grado di rinnovarsi totalmente e continuamente, andando sempre alla ricerca di nuovi stimoli emotivi.
Come dimostra anche 1983, la splendida canzone che accompagna i titoli di coda del film.
Una canzone che la casa discografica quasi non voleva che inserissimo ma che era necessaria per aprire le porte a quell’evento della vita di Gianna di cui non aveva mai parlato.
A sottolineare come le canzoni e la colonna sonora giochino un ruolo determinate: accompagnano la storia e assumono nuovo significato alle orecchie anche di chi le risente per l’ennesima volta.
Ci tenevo che fosse così per mostrare come anche le esperienze di vita si possano tradurre in messaggi poetici, tirando fuori ciò che si ha dentro e facendo del bene anche agli altri. Chi non sta bene, ad esempio, ascoltando Sei nell’anima?
Sei nell'anima: Le foto del film
1 / 29‘Devi sfornare una hit’: quando hai sentito sulle spalle tale peso?
Tanti anni fa, subito dopo aver girato Hotel Colonial. Il successo fu tale che ricordo ancora quando un gestore di cinema mi chiamò per dirmi che aveva registrato il record assoluto di presenze nel fine settimana. Se ne accorsero anche oltreoceano: i produttori americani del film volevano che andassi lì per proseguire con altro progetti. Dissi di no, anche perché nel frattempo sopravvenne la perdita di mio padre, venuto a mancare all’improvviso ancora giovane… nel bene e nel male, i padri sono sempre una rotta e ti danno una direzione: prima sono nemici ma dopo diventano amici e aiutanti.
Il mio incubo ricorrente allora era sempre lo stesso: ero su una scala dei pompieri altissima, stavo in cima e, vertigini a parte, svolazzavo a destra e sinistra. Evidentemente, non ero pronta per stare lassù e non andai negli Stati Uniti. Ma non lo rimpiango perché comunque avevo anche paura di essere sradicata dalle mie radici, per me molto importanti: un’artista deve stare nelle sue radici.
È per stare nelle radici che ti sei circondata di toscani per Sei nell’anima, a partire dai due sceneggiatori e dalla protagonista Letizia Toni?
C’è molta toscanità nel film perché penso che l’apparenza e l’essenza vengano fuori anche dal modo di parlare, di camminare o di relazionarsi. Noi toscani siamo tremendi perché siamo soliti ad esempio usare il sarcasmo o ricorrere a una sorta di cattiveria ironica anche nel dire in faccia ciò che pensa. Trovo affascinanti le differenze culturali legati al luogo di provenienza.
In Sei nell’anima, si racconta inevitabilmente anche gran parte della storia privata di Gianna Nannini. Nella fattispecie, il suo rapporto con Carla. Come hai vinto la ritrosia di entrambe a esporsi?
Dovremmo rigirare la domanda a Gianna… Nel film, si racconta come nasce la loro storia e come entrambe abbiano vissuto anche la loro vita singolarmente, sebbene alla base ci fosse quell’intesa che poi le ha portate anche a sposarsi e a divenire madri. Ciò che ho raccontato è ciò che Gianna ha voluto che si raccontasse: nel girarlo, le ripetevo sempre che quello era il suo film e non il mio.
Mi sono messa anche un po’ da parte perché volevo che lei ci si ritrovasse: ero al servizio della sua storia e di una parte di lei non conosciuta, che è fortissima e bellissima, oltre che in grado di insegnare che c’è sempre una via d’uscita a tutto.
Per il ruolo di Carla hai scelto un’attrice giovane ma navigata come Selene Caramazza mentre per quello di Gianna hai optato per l’esordiente Letizia Toni, allieva della Scuola di Cinema Immagina di Giuseppe Ferlito a Firenze.
Per trovare Carla, abbiamo fatto diversi provini con Letizia Toni presente senza che l’attrice provinata sapesse che sarebbe stata lei Gianna. Tra le candidate, Selene era quella che più mi ricordava Carla, anche perché Carla esiste realmente e io l’ho conosciuta (ride, ndr). Letizia si è rivelata invece molto brava: non ha interpretato Gianna ma si è trasformata in lei, tanto che di recente le ho detto che è ora di farla uscire dal suo corpo altrimenti rischia di non lavorare più (ride, ndr).
Lavorare con un’attrice esordiente è una fortuna: ti permette di non avere qualcuno che arriva sul set dopo essere stata fino al giorno prima impegnata in un’altra lavorazione con un altro personaggio. Sembra poco ma non lo è: ciò ci ha permesso ad esempio di lavorare insieme alla sua Gianna per un anno intero, durante il quale ha imparato a cantare, a suonare e a muoversi sul palco. Letizia si è sottoposta a una preparazione immersiva e intensiva molto simile a quella a cui si sottopongono i professionisti statunitensi e a cui si dovrebbe ricorrere sempre.
A scegliere Noemi Brando per la parte di Tina è stata invece in maniera insolita la stessa Gianna Nannini…
Noemi era venuta a Firenze per assistere a un concerto di Gianna, senza che sapesse nulla del film. è venuta poi con un amico dietro le quinte a salutarla e, nel vederla così bella e intrigante, Gianna non ha avuto dubbi: si è girata verso di me e, facendomi l’occhiolino, mi ha detto che sarebbe stata lei Tina: ne ho anche le prove, ho filmato la scena! Chiaramente, avrei dovuto sottoporla prima a un provino, è stata scelta e abbiamo lavorato molto anche a casa mia: è una ragazza molto in gamba che sicuramente farà strada, ha molto dentro da offrire e saprà come muoversi col tempo.
Sei nell’anima è anche un film di genitori e figli. Dopo l’ormai famoso ceffone di mamma, come hanno reagito i tuoi quando hanno cominciato a vedere i tuoi primi lavori?
Il mio primo lavoro è stato Prima o poi…, un documentario sull’ultimo barcaiolo dell’Arno, un uomo che avevo conosciuto da ragazzina e che mi aveva anche insegnato a pescare. Ero molto legata a lei e di fronte all’idea che quelli potevano essere i suoi ultimi anni di questa vita (senza nemmeno una pensione perché nel suo piccolo era un imprenditore che prendeva cento lire a ogni traversata da ogni passeggero) volevo raccontare la sua storia. Ma ero disperata: non avevo soldi per farlo e non trovavo fondi. Non mi arresi, però: presi un gruppetto di amici che frequentava con me la scuola bavarese e lì portai con me, con la promessa che avrebbero mangiato bene in casa mia. E per mantenere tale promessa i miei genitori si spesero per bene.
Mentre giravamo, venne anche un giornalista di Firenze per intervistarmi. Mio padre avrebbe voluto ascoltare il tutto ma lo allontanai, come a sottolineare che era una conquista mia. Da allora, comunque, mi hanno sempre sostenuta, a cominciare dalla mia scelta di realizzare Giocare d’azzardo. Mi hanno semmai sempre rinfacciato di non aver finito l’Università, anche se per me l’Accademia era tale.
Papà è poi venuto a mancare a una settimana dall’uscita in sala di Hotel Colonial… è stato un momento tostissimo per me: a volte penso che se ci fosse stato ancora quella scala dei pompieri di cui prima non mi avrebbe fatto paura. Mi sarei sentita molto più sicura.
È stato emotivamente semplice girare la scena del funerale del padre di Gianna per il film?
No. Ho perso anche mia madre molto giovane e, quindi, dentro le scene della malattia e del funerale ci sono in qualche modo entrambi. Così come nei dialoghi sono presenti aspetti che mi toccano molto da vicino.
Quali sono state le sfide maggiori dell’essere una donna regista in Italia?
Tante, a cominciare dalla possibilità di reperire fondi, a partire dal mio primo film, Hotel Colonial. Ma ero più giovane e intraprendente, ragione per cui ne ho fatte di ogni pur di trovarli. In quel periodo, Sergio Leone stava girando C’era una volta in America e avevo individuato la trattoria vicino Cinecittà in cui andava a pranzare: mi infilai dentro, lo trovai a tavola con alcuni collaboratori che conoscevo, gli feci un pitch e gli chiesi i soldi che mi servivano. Non mi disse nulla, seppi dopo che rispose qualcosa come “figurati se do un miliardo a quella lì”.
Ma mi sono anche fiondata agli uffici della Common: dopo aver aspettato che la segretaria uscisse, raggiunsi la stanza di Renzo Rossellini per chiedere anche a lui i fondi necessari ma niente. Non mi arresi però: feci tradurre in inglese l’adattamento e riuscii a portarlo a Robert De Niro sul set di Leone. Non che volessi lui come protagonista ma speravo che conoscesse qualcuno a cui quel progetto poteva andare bene. Quella notte mi chiamò a casa John Savage (che sarebbe poi diventato il protagonista) e dal rapporto diretto che si instaurò sin da subito venne il resto: fece arrivare il progetto a Robert Duvall, che volle prima di ogni cosa conoscermi.
Partii allora per New York, lo incontrai e firmò il contratto a una sola condizione: che fossi io a dirigere il film. A quel punto, avuti i nomi, arrivarono i soldi e tutto il resto. Su quel set, non so più quanti pizzicotti mi sono data per l’incredulità: avevo a disposizione tutto ciò che serviva, persino 54 camion in Messico: ricordo il numero perché, una volta entrati nella giungla, si annodarono tra di loro e non riuscivano più a uscire (ride, ndr).
Così come ricordo le bizze di Duvall il primo giorno di riprese, ho scoperto solo dopo che lo faceva con tutti i registi per testare la loro tempra. Dopo un urlo pazzesco, si chiuse nel suo camerino con persino il produttore americano impaurito dalla sua reazione. Entrai io e mi ritrovai davanti una scena a là Apocalypse Now: nell’oscurità, c’era lui disteso nel letto che dalla penombra si lamentava del fatto che non avrei dovuto dire a un attore quello che deve fare. Risposi però che quello era il mio lavoro: se non avessi trovato il coraggio di andarci, sarebbe stata tosto continuare. Da quel momento, cominciai a prevenire quando sarebbe andato di matto, come diceva il suo segretario. È stato quello il mio vaccino, il momento in cui mi sono creati gli anticorpi per le difficoltà da gestire.
E con le troupe quasi sempre al maschile?
Non ho avuto quasi mai problemi. Anche perché era chiaro sin dall’inizio come sapessi fare tutto: avevo alle spalle cinque anni di accademia durante i quali alla fine di ogni anno andava presentato un film. Ciò mi ha insegnato a stare nei tempi, a rispettare il budget a disposizione e a ricoprire ogni mansione o qualsiasi ruolo: non c’erano solo i film tuoi da dirigere ma anche quelli degli altri studenti a cui dare una mano come montatrice, operatrice o altro ancora.
Già nei primi trenta minuti su un set è evidente chi conosce il mestiere e chi no: lo capiscono da come ti muovi, da cosa dici o da cosa fai… è in quel frangente di tempo che la crew capisce se prenderti o meno sul serio. Anche se, qualche volta, ho dovuto scontrarmi con atteggiamenti misogini e ribadire che ero io il regista, soprattutto quando ho lavorato per la televisione.
Il primo giorno di riprese di Sei nell’anima hai trovato un quadrifoglio: scaramantica?
Era forse un segno del destino, anche perché non è stato semplice partire con il film: per molto tempo, non si è saputo se si sarebbe fatto o meno, se sarebbe stata una serie tv o altro. Ma ce l’abbiamo fatta: credevo nel progetto e, soprattutto, ci speravo per Gianna. Forse sono scaramantica anche in un altro senso: non riesco a pensare a qualcosa di nuovo fino a quando il film o la serie a cui ho lavorato non esce. Non lavoro quindi ad altro, anche perché ho bisogno prima di rigenerarmi e capire dove mi porta il cuore o l’anima.
Dico sempre che un film è come un figlio per me, non lo potrò mai rinnegare, e ciò mi porta a essere anche molto perfezionista: mi dovrà piacere sempre e non dovrò mai pensare che avrei potuto fare di meglio. Mi dicono tutti che ‘lavoro sempre’ ma non ho mai capito quei colleghi che, mentre girano, lavorano già a quello che verrà dopo. Non fa per me: io voglio seguire tutto, dal montaggio al mix.
Il TH dietro al tuo nome continua a essere un mistero. Non rivelerai mai cosa significa ma cosa ti restituisce?
Il TH, che deve essere scritto maiuscolo altrimenti mi fa male vederlo storpiato con altre grafie, mi restituisce energia. Con tutti i sottintesi che vogliamo vederci.
Quanta energia serve per mettere in scena la ‘follia’ come in una lunga sequenza come quella presente in Sei nell’anima?
È stato complicato realizzare quelle scene perché, quando si gira, si va oltre i limiti, anche di lunghezza. Richiedeva un impatto emotivo molto forte che, d’accordo con Gianna Nannini, ho cercato di ridimensionare ma, nonostante ciò, abbiamo sul set vissuto giornate importanti e intense, come tante altre in cui abbiamo dovuto tenere saldi i nervi: le nuvole sono sempre in agguato dietro l’angolo e non ci si può far trascinare dalla corrente. Si deve tenere costantemente a mente il bene del film e non perdere tempo. Ecco, la corsa contro il tempo è forse il nemico maggiore: a rimetterci sarebbe il progetto stesso.
Contro il tempo hai imparato a combattere soprattutto per la serialità televisiva?
Il tempo è sempre un nemico: qualsiasi cosa tu faccia, non basta mai. Per Sei nell’anima, ad esempio, i cambi di aspetto di Letizia Toni hanno portato via molto tempo, durante il quale, non avendo altro da girare, ho dovuto attendere. La macchina da presa è costantemente su di lei e nella stessa giornata cambiava look diverse volte. Forse per la televisione, paradossalmente, è più facile: puoi organizzarti diversamente, hai più gioco.
A chi diresti “sei nell’anima e lì ti lascio per sempre”?
Per me, la frase ha un’accezione positiva e sono tante le persone che ho nell’anima: è bello avere avuto dei mentori e delle persone che mi hanno dato ad esempio fiducia. Ralph (l’attore Palka, ndr) è entrato nella mia vita in una fase in cui ero già adulta ed erano già stati in molti ad aver lasciato un segno. Li sto passando in questo momento tutti in rassegna e vedo cosa mi hanno consegnato, anche ora che sono andati su un altro pianeta. Credente o meno, non penso che siamo solo corpo ed è qualcosa a cui, diventando più grande, comincio a pensare spesso.
Amo da sempre la natura, il mio terrazzo è un orto, e sono sempre stata affascinata dalla semina e dalla ricrescita: dalla villa di Gianna, ad esempio, ho portato via dei rametti secchi tagliati via dalla potatura delle vigne, li ho piantati e ora sono pieni di grappoli… qualcosa vorrà dire.