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Claudio Castrogiovanni: “Il peso di sentirsi dire no” – Intervista esclusiva

Claudio Castrogiovanni
Nella serie tv Circeo in onda su Rai 1, Claudio Castrogiovanni interpreta Rocco Mangia, l’avvocato che difende Angelo Izzo nel processo contro Donatella Colasanti. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per un racconto che parla molto del suo lavoro di attore.
Nell'articolo:

Interpretare l’avvocato Rocco Mangia in Circeo, la serie tv di Rai 1 che ripercorre il processo contro Angelo Izzo, è qualcosa che riporta Claudio Castrogiovanni agli anni in cui da giovane, nella sua Sicilia, esercitava quella professione. Prima di diventare attore, la sua è stata una vita dedita alla Giurisprudenza, affascinato dall’oratoria, dalla retorica e dalla prosopopea che la professione richiedeva.

Curiosamente, sono stati quegli anni a portarlo anche sulla via dello spettacolo. Ancor prima di indossare i panni di Luciano Liggio per la serie tv Il capo dei capi (ritornata da poco su Mediaset Infinity dopo anni di oscuramento dovuti a questioni legali) o di dar vita al diabolico Giacomo Trapani in Squadra antimafia – Palermo oggi, Claudio Castrogiovanni si dilettava come cantante e musicista con un gruppo di amici per i locali di Catania.

E, come in una favola, è stato tra un’esibizione e l’altra che è stato notato e scritturato per il musical Jesus Christ Superstar, che ha rimesso in discussione ogni sua certezza e aspirazione. Lasciando la Sicilia e quella che era una brillante carriera già avviata per una strada all’epoca incerta, Claudio Castrogiovanni si è trasferito a Milano e ha cominciato a dedicarsi anima e corpo allo sviluppo del proprio talento.

Un talento che oggi è indiscutibile, nonostante i “no” che si è ritrovato a dover gestire nel suo percorso. In maniera sincera, Claudio Castrogiovanni non nasconde ad esempio quanta pressione eserciti nella psiche di un attore il sentirsi dire “no” a un provino, soprattutto quando alla fine si rimane in due a contendersi lo stesso ruolo. E sono stati i tanti “no” che a un certo punto lo hanno portato a lasciare la recitazione per lavorare come cuoco dall’altro lato del mondo.

Ma di questo e di tanto altro, compresi gli impegni lo attendono, ci racconta lo stesso Claudio Castrogiovanni in un’intervista che, lontana dalle frasi fatte, rivela molto di un uomo costantemente in ascolto di se stesso.

Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).
Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).

Intervista esclusiva a Claudio Castrogiovanni

“In italiano”, mi risponde Claudio Castrogiovanni quando scherzando gli chiedo in che lingua tenere quest’intervista, dal momento che entrambi siamo siciliani. “Dopo anni in cui interpreto ruoli connotati da forte sicilianità sto lavorando affinché non si pensi che non sappia parlare italiano o che non sappia esistere al di fuori dalla mia terra. Non rinnego assolutamente le mie origini e sono orgoglioso di avere anche fissato dei ruoli così iconici nella storia della televisione, come quello di Luciano Liggio nella serie tv Il capo dei capi”.

Rocco Mangia, l’avvocato che interpreti nella serie tv Circeo, non è siciliano. È, tuttavia, un personaggio realmente esistito e discutibile, se visto con l’ottica di oggi.

Come spesso accade quando devo interpretare un personaggio realmente esistito, mi documentano e studio all’inverosimile. Non è legato soltanto al caso del Circeo ma anche a quello di Pino Pelosi, l’assassino di Pier Paolo Pasolini. Quando approfondisco così tanto un personaggio, lo faccio attraverso letture che circumnavigano non solo il caso in questione ma cerco, tuttavia, di non essere mai giudicante: provo a trovare sempre le ragioni he lo spingono ad agire o a scegliere ciò che sceglie.

Per un avvocato, la domanda può essere ricondotta alle motivazioni che lo spingono ad accettare un caso anziché un altro: mi sono quindi chiesto cosa lo avesse spinto ad assumere la difesa di un criminale come Angelo Izzo e ho trovato e risposte sia nell’epoca che viveva sia nella sfera politica, molto definita, a cui apparteneva. Ho respirato ipoteticamente l’aria che si respirava in un tribunale di allora approfondendo la visione del docufilm Rai del 1979 Processo per stupro, che lascia ben emergere quale fosse il maschilismo imperante e l’idea che si aveva del corpo di una donna, alla stregua di un bene materiale.

Ricordiamoci sempre che il reato di stupro diventerà contro la persona e non contro la morale solo nel 1996, venticinque anni dopo la vicenda del Circeo. Almeno sulla carta, perché non sempre l’eredità di quei processi arriva oggi nelle aule in cui purtroppo si assiste a episodi più che discutibili o ad allocuzioni da parte degli avvocati che sono un’aberrazione a livello umano.

Il caso del Circeo è rimasto nella memoria collettiva, nel bene e nel male. Forse è il primo che ci viene in mente ogni volta che parliamo di violenza contro le donne. Cosa pensi che possa raccontare ai giovani di oggi una serie tv come quella proposta da Rai 1?

Tanto. Credo molto nel potere divulgativo funzionale di quello che è il mio mestiere. Pur avendo fatto delle scelte che all’apparenza che non avrei dovuto fare, come quella di esaltare alcuni personaggi, credo nel potere divulgativo della società e della famiglia, che purtroppo ha perso un po’ il polso della situazione: ho 54 anni e ricordo bene il filtro che i miei genitori ponevano su ciò che era giusto o sbagliato spiegandomene le ragioni. A volte, mi sono chiesto se interpretare certi ruoli o meno ma mi sono risposto che è compito del mio mestiere mettere in luce le controversie etiche che sollevavano, ragione per cui non ho mai cercato di addolcire l’immagine dei personaggi in scena.

Quando ho girato Il capo dei capi, avevo ad esempio preso appositamente 15 chili. Per una scena in cui stavo sdraiato sul letto, il direttore della fotografia mi chiedeva di sollevarmi perché altrimenti si sarebbe vista la pappagorgia. E no, era proprio quello che volevo che si vedesse: non volvo risultare affascinante.

Rocco Mangia è un avvocato, un mestiere che conosci molto bene, dal momento che prima di cominciare a fare l’attore ti sei laureato in Giurisprudenza e hai esercitato nelle aule di tribunale. Cosa hai ripescato di quel giovane avvocato che eri?

Molto. Mi sono laureato nel 1994 e abilitato alla professione nel 1996, circa trent’anni fa. Ero affascinato dalla teatralità che la professione richiedeva, soprattutto durante il processo penale, in cui si fa sfoggio di retorica e oratoria. Mi affascinava e mi divertiva quella prosopopea, che nel 1977/78, anni in cui si è svolto il processo per il massacro del Circeo, richiedeva ancora più pomposità e anche una forma estetica che trascendeva dal contenuto.

Per il ruolo, ho usato lo stesso approccio a cui ricorrevo quando studiavo i miei casi. È qualcosa che cerco di tramandare anche ai giovani allievi della scuola in cui insegno: quando arrivano le sceneggiature, occorre indagare tutto ciò che da esse non si può dedurre. Si deve mettere in atto quel processo logico strutturato che un avvocato è chiamato a compiere per essere tale. Rende per certi versi giustizia a un mestiere come quello di attore che non è solo scrittura o performatività.  Quando mi hanno comunicato che ero stato scelto per il ruolo di Luciano Liggio, d’istinto sono corso in una libreria e ho acquistato ben 13 libri!

Combatto molto con i miei allievi affinché capiscano quanto conti la nostra unicità quando si è in scena e quanto l’attenzione debba essere posta nel concentrarsi esclusivamente in quello che si sta facendo: con la propria coscienza d’attore, dobbiamo pensare che ciò che stiamo facendo è per chi ci guarda, dobbiamo perderci in quel momento.

Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).
Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).

Eri dunque un avvocato ma con la passione per il canto. Come tanti studenti, facevi parte di un gruppo fino a quando qualcuno non ti ha notato proponendoti di entrare a far parte del musical Jesus Christ Superstar. Il cinema nella tua vita arriva soltanto sul finire degli anni Novanta quando un certo Giuseppe Tornatore, un nome a caso, ti sceglie per Malena.

È in quel set che ho imparato cosa significhi fare cinema. Il mio ruolo quasi non esiste ed eravamo in due a interpretarlo, io e Fabrizio Ferracane. Ma, nonostante quasi non ci si veda nel film, siamo stati sul set circa 13 giorni per tre o quattro scene. Tuttavia, lavorare con Giuseppe Tornatore e la macchina oceanica che riesce ogni volta a mettere in piedi è stata un’esperienza magica: ero arrivato sul set da fan di Nuovo cinema Paradiso e per me era come stare in cielo.

Anche perché chi doveva dirtelo…

Quando ho scelto di dedicarmi a questo lavoro, ero già diventato avvocato a Messina. Chiunque mi chiedeva dove stessi andando o cosa stessi facendo, non potevo secondo loro lasciare un mestiere certo per uno che di certezze non ne garantisce. Non avrebbe potuto dirmelo nessuno, eppure avevo già visualizzato quale sarebbe stata la mia strada l’ho capito quando salendo su un palco per uno spettacolo mi sono sentito al posto giusto.

Mi sono visto come attore e ho visto quello che avrei fatto, anche se poi il percorso è sempre impervio. C’è stato un periodo, all’incirca sette anni fa, in cui ho smesso di recitare per fare il cuoco per tre o quattro anni di fila. Non ne potevo più di un mestiere che minava costantemente le mie fondamenta emotive.

Perché proprio il cuoco?

Cucinare mi sembrava un gesto d’amore concreto. Ancora oggi, mia madre quando sa che sto per tornare a casa anziché chiedermi come sto mi domanda cosa voglio che mi prepari da mangiare. Passeggiando un giorno, ho visto che si tenevano dei corsi professionali e ho manifestato il mio proposito a mia moglie: “Sì, fallo”, è stata la sua risposta. E da quel momento è cominciata una parentesi incredibile della mia vita che mi ha portato dall’altro lato del mondo, a 100 miglia sotto San Francisco, a cucinare per multimilionari che vivevano in ville da 50 milioni di dollari, accanto a un campo da golf che è riservato esclusivamente ai presidenti degli Stati Uniti d’America.

È una parentesi che non ti ho mai sentito raccontare…

Stavo quasi per abbandonare definitivamente la recitazione perché ero emotivamente provato. Quello di attore è un mestiere che dice espressamente a te “no, al tuo posto scelgo qualcun altro”. Ogni volta è, quindi, un no personale quello che ricevi, soprattutto quando dopo infiniti callback ci si ritrova in due. Che venga scelto tu o un altro è un caso o un accidente ma, di fronte all’ennesimo no, arriva un momento in cui dici basta: non ne potevo più di settimane o mesi di lavoro e messa in discussione buttati alle ortiche. L’avere abbandonato il mestiere per un periodo mi ha avvicinato a un altro tipo di convinzione: quando sono ritornato a sostenere provini, si è mossa un’energia differente. Ho messo da parte il desiderio di essere preso e basta, ad esempio. Il pensare di piacere o meno non mi permetteva di godermi il momento.

Un mestiere, il tuo, che non è fatto solo di luci, riflettori o red carpet, ma anche di ombre.

Non andiamo a lavorare in miniera ma abbiamo costantemente a che fare con la precarietà e con la fortuna. Ho sofferto molto della continua setacciatura ma l’evoluzione naturale dell’uomo che sono diventato mi ha portato ad allentare la voglia di controllo su qualcosa che non dipendeva da me. Mi sono reso conto che più mi impegnassi per essere amato mettendo in atto anche sforzi micidiali più sembrava non funzionare.

Anche perché si crea in quei casi una strana dicotomia: non vieni amato da chi ti dovrebbe scegliere ma allo stesso tempo lo sei dal pubblico. Diventa allora complicato capire chi sei o come regolarti. Qual è la pressione che si avverte maggiormente?

Sicuramente quella psicologica. Ricordo che era appena nato il mio secondo figlio quando ho deciso di rimboccarmi le maniche e di far qualcosa di concreto. A livello economico, puoi trovare una soluzione ma niente o nessuno può sanare la vulnerabilità emotiva. Devi essere solido per resistere ed è quando lo sei che capisci che il problema non sei tu che non piaci: entrano semmai in gioco mille variabili, di cui 999 non riguardano te.

Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).
Claudio Castrogiovanni (foto: Roberta Krasnig; stylist: Allegra Palloni).

Nel tuo percorso ci sono tanti musical portati con successo a teatro. Perché secondo te il genere fa invece fatica ad attecchire al cinema? È un problema di cultura o di capacità?

Non credo di capacità. In Italia il livello è altissimo: da un paio di anni abbiamo scuole che formano dei performer mostruosi ma, purtroppo, quando si va in scena ci si sofferma solo sulla superficie delle cose e non si mette in atto quel processo indagatorio di cui parlavo prima.

Sono stato, ad esempio, tra i protagonisti di Rent prodotto da Nicoletta Mantovani e dal maestro Luciano Pavarotti. Prima di metterlo in scena, siamo stati a New York a vedere la produzione statunitense a teatro (col il maestro ho avuto l’onore di condividere momenti unici nel loro attico a Central Park, in cui cantava Guantanamo mentre mangiava mortadella!) così come ho visto anche Il colore viola, piangendo per tutto il secondo atto: oltre al canto e al ballo, c’era dietro una profonda conoscenza del testo che si stava raccontando. Qualcosa che spesso in Italia manca proprio perché ci si sofferma solo sulla parola scritta su carta, rifiutandosi di indagare ciò che c’è sotto.

Negli ultimi anni, da un punto di vista produttivo, in Italia si fanno scelte che sembrano sempre più sicure, purtroppo, dal punto di vista dello sforzo anche economico che richiedono, senza pensare a quanto complicato sia traghettarle. Guardando a ciò che ho fatto, sono stato anche Capitan Uncino per Peter Pan – Il musical: duecento repliche all’anno, un dato che oggi farebbe impallidire qualsiasi tournée anche grossa, per un musical che, pensato come un film, si avvicinava alla sensibilità del pubblico italiano anche grazie alle straordinarie musiche di Edoardo Bennato.

Ti vedremo prossimamente in due progetti molto diversi tra loro: Il giudice e il boss, diretto da Pasquale Scimeca, e Vanina Guarrasi, diretto da Davide Marengo.

Girare con Davide è stata una vacanza: ha contezza di quello che vuole e non è un regista che rimanda addosso agli attori difficoltà, ansie e preoccupazioni che non lo riguardano. La sua protezione permette all’attore di stare nel luogo più solido e creativo possibile: ciò per un attore è di enorme aiuto. Davide sa quello che vuole ma allo stesso tempo ascolta tanto gli altri, decodificando quanto una proposta che lui non aveva contemplato possa ritornare utile o meno al racconto. È stata una gioia lavorare con lui su un set in cui si è creato un clima di unione che è andato oltre le scene, soprattutto tra Giusy Buscemi e gli attori che componiamo la squadra del suo vicequestore: io, Alessandro Lui, Guilio Della Monica e Paola Giannini.

Con Pasquale Scimeca, ti accorgi di stare facendo cinema come lo si faceva un tempo. È ammirevole l’impegno che Pasquale mette nel risolvere le difficoltà logistiche che possono presentarsi. Non molla mai di un millimetro e con la sua società di produzione, la Arbash, sta mostrando quanta determinazione serva per superare anche ostacoli mostruosi. Con lui, raccontiamo la storia del giudice Terranova per il quale ritorno su un personaggio che ho già interpretato, quel Luciano Liggio di cui prima.

Io e Pasquale ci siamo confrontati prima delle riprese su un tema per nulla scontato: cosa spinge una persona che cresce tra gli anni Trenta e Quaranta in un posto come Petralia Soprana con una forte contaminazione territoriale a diventare giudice e cosa spinge chi cresce nel frattempo a Corleone, un luogo similare, a decidere di diventare boss? Per certi versi, quella che ne viene fuori è un’osservazione antropologica di ciò che porta verso le scelte giuste o sbagliate per la vita.

Cosa ti ha portato a dare uno scarto diverso all’interpretazione di un personaggio che già conoscevi?

Una foto di Letizia Battaglia, che ho avuto l’onore e la fortuna di conoscere. Ero immerso nello studio del personaggio quando mi sono ritrovato davanti a un suo scatto che lo ritraeva imponente di fronte al maresciallo che lo teneva in manette. È stata scattata durante un processo ma dice tanto sia sul personaggio sia sulla situazione: ho capito più da quella singola immagine che leggendo, ascoltando o vedendo interviste.

Circeo: Le foto della serie tv

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