Cocciglia, giovane cantautore aquilano, è tornato in radio con il singolo La mia giostra. Vincitore del Premio Martini 2017 con il brano Cercavo un senso, Cocciglia in La mia giostra, brano elettro/pop dalle sfumature dance, con ironia e provocazione tratta temi strettamente attuali: dall’emergenza ai migranti alla mancata approvazione di un decreto a favore dei diritti civili.
Diretto e senza filtri, Cocciglia lancia messaggi importanti in un brano che si propone anche di far ballare con il suo ritmo trascinante. Diversamente da quanto proposto in passato (Simone) Cocciglia sembra aver trovato un centro diverso, come lo stesso ci racconta in quest’intervista esclusiva. Un centro che è figlio di un percorso di ricerca interiore a cui tutti i giorni continua a lavorare. L’obiettivo è chiaro: imparare ad apprezzare le mille sfumature che separano il bianco dal nero, i due estremi con cui facilmente si etichetta tutto ciò che ci circonda.
L’uscita di La mia giostra ci ha permesso di entrare in punta di piedi nel mondo di Cocciglia e di conoscere prima di tutto la persona Simone e subito dopo il cantautore Cocciglia.
Intervista esclusiva a Cocciglia
Cos’è La mia giostra e da quale esigenza nasce?
La mia giostra nasce intorno alla fine della pandemia, un periodo particolare e difficile per tutti noi: è inutile far finta di niente. Molto probabilmente, lo è ancora anche perché comunque ci portiamo ancora appresso un po’ di strascichi. In quel periodo, sono usciti diversi brani ed è cambiato anche il modo di produrre musica: il processo creativo si è trasformato. Prima passavo molto più tempo in studio, dove si vestiva una canzone con un team di persone. La pandemia, invece, ha fatto sì che, con i divieti di uscita, si rimanesse bloccati in casa, dove tutti abbiamo cominciato a produrre canzoni da soli.
Il processo creativo, dunque, avveniva in piena solitudine. E come tanti anch’io ho iniziato a creare tutto da me, decidendo l’arrangiamento, i suoni, gli strumenti da usare… Tale modalità mi ha permesso di essere ancora più autentico: puoi piacere o non piacere ma per me è già un grande successo. In un momento in cui tutti quanti ci richiedono di essere noi stessi e unici, è il risultato più grande che puoi raggiungere.
Sembra facile a dirsi ma non lo è: devi essere te stesso.
Ma chi sono? Probabilmente, nessuno di noi si conosce molto bene. Abbiamo un’idea di noi che spesso è superficiale: sotto si nasconde sempre dell’altro. Ecco perché mi piace sempre fare un processo di conoscenza personale che ti permette di stare al mondo in maniera più o meno centrata. Perdere il centro a volte è giusto e fruttuoso ma arriva sempre il momento in cui bisogna riprendere in mano la barca.
E tu hai trovato il centro?
Vivo un momento in cui lo sto ritrovando. Ho vissuto un ultimo periodo in cui non ho avuto un centro. Tutti i brani che usciranno in questo periodo, compreso La mia giostra, hanno di fondo la malinconia, la rabbia e il tormento vissuto. Insomma, la parte più buia di me. Caratterialmente sono solare ed energico e riporto la mia forza energica anche nelle mie canzoni. Questa volta è invece emersa l’altra mia parte. Del resto, ognuno di noi è tante cose: non siamo solo un colore.
E come si fa a bilanciare la parte colorata con quella in bianco e nero?
Siamo tanti colori. E fra i colori c’è anche il nero. Il nero non è che non è un colore: lo è tanto quanto il rosso, il giallo, il verde, l’azzurro… La totalità dei colori sta anche nelle tonalità che vengono sottovalutate o nascoste. L’unica via d’uscita per non soccombere è far convivere tutti i colori: semplice e naturale. Tendiamo a mettere schemi, paletti e ostacoli, ma se lasciassimo confluire tutti i colori sarebbe molto meglio.
Che un po’ la summa di quello che scrivi anche in un tuo post su instagram: “Sono uomo, sono donna, sfumatura, mai colore netto”…
Anche quella è stata una conquista importante. Non sono solo uomo o donna, siamo tante cose. Poterlo dire apertamente è stato molto liberatorio e anche utile per me. Spero lo sia anche per chi legge: è un invito alla libertà e per essere liberi occorre coraggio.
Il coming out è sempre un atto di coraggio da non sottovalutare. Non hai avuto della paura dell’etichetta che potevano cucirti addosso?
In realtà, no. Non ho mai fatto coming out in maniera plateale. È avvenuto tutto in un modo abbastanza naturale. A un certo punto, ho iniziato a tirar fuori le mie cose senza voler diramare la notizia del secolo. Anche perché quando stai per tanto tempo chiuso in te stesso devi capire in che direzione andare. Ti prendi del tempo, è necessario, ma arriva il momento in cui non ce la fai più e senti l’esigenza di mostrare chi sei.
Fortunatamente, sono stato circondato da persone intelligenti, dalla mia famiglia a chi mi sta vicino. Sono entrato a gamba tesa nella questione per dire: ci sono anch’io. Anziché scappare, mi sono manifestato e ho mostrato quello che ero in realtà. Rientra nel discorso sull’essere se stessi che facevamo prima: si ha il bisogno di manifestarsi e di crearsi una comunità di appartenenza. Credo rientri nella normalità del vivere bene di ognuno di noi.
Ti poni delle domande su quanto l’etichetta possa compromettere il tuo percorso artistico. Ma poi quella fase si supera. Le etichette ti vengono messe addosso ugualmente per motivi più svariati. Se ti soffermassi solo su quello, non faresti nulla. Nemmeno una canzone sui migranti, ti direbbero subito che sei il cantautore dei migranti… c’è sempre un’etichetta per tutto e tutti: è il rischio di chi si espone e vuole mandare un messaggio.
Quando non si trova il centro, si ha paura. Paura di fare i conti con se stesso o con gli altri?
Dal giudizio che si dà su se stessi ma anche da quelli che gli altri danno su di te. Prima di essere un cantautore, sei un uomo che scrivendo canzoni tira fuori anche la parte più fragile di sé, espone la sua verità o qualcosa che tiene nascosta e si mette a nudo davanti agli altri. È una paura sana ma va superata: è quella la strada giusta da seguire, l’unica.
Mettersi a nudo: che rapporto hai con il tuo corpo? C’è un tuo post sui social che recita su per giù “sono un cumulo di carne, mi vedo”…
Era un post in cui parlavo del rapporto con il cibo, il mangiare inteso come una valvola di sfogo dei dolori. Le tonnellate di corpo sono tonnellate di dolore. Spesso anch’io mi ritrovo a pregare di fronte a quel tempio che è il frigorifero per lenire le sofferenze emotive. Sto lavorando sul rapporto con il mio corpo, pian piano sto accettando tutte le sue parti. C’è quindi un percorso di accettazione in divenire.
Sei ancora alla ricerca di senso, come cantavi in una tua canzone?
Beh, si. Credo che non finiremo mai di cercare un senso fino all’ultimo giorno di vita. Prima dell’ultimo respiro, avremo capito tante cose ma ci sarà ancora un margine da scoprire.
Tra i tanti temi di La mia giostra c’è anche quello inerente ai diritti civili e alla mancata approvazione del ddl Zan. Sui tuoi social ti sei anche esposto sulla triste vicenda di Chloe Bianco.
La storia di Chloe Bianco mi ha sconvolto, al punto che ci ho scritto una canzone che molto probabilmente finirà nell’album a cui sto lavorando. È una mini canzone, dura un minuto ma racchiude tutta l’emozione provata nel leggere quella notizia. Ho anche discusso pubblicamente con l’esponente politica che aveva contribuito al suo allontanamento: in tutta risposta, mi ha bloccato sui social.
Mi dici, citandoti, tre motivi per cui scappare ancora su Marte?
Uno che vale per tutti. Stiamo vivendo una fase d passaggio e di trasformazione. Le cose stanno pian piano migliorando rispetto ad altri paesi ma in ambito di diritti civili siamo ancora indietro anni luce. Stiamo ancora qui a pregare per una legge sui diritti civili dimenticandoci che parliamo di gente e di umanità. Questa lentezza è figlia dell’ignoranza e di una cultura al rallentatore. Bisogna continuare a insistere, far battaglie e manifestare.
Tra le righe, hai citato il nuovo album. Cosa dobbiamo aspettarci?
Sarà un disco pazzo perché i brani che lo compongono sono molto diversi, un po’ come La mia giostra, da quello che ho fatto fino ad adesso. Hanno tutt’altro sapere, un po’ più arrabbiato e incazzato. Ci saranno pezzi sofferti ma anche altri ballabili, dance, ma sempre con testi meno filtrati e più autentici, con colori accesi e non smorti. Oggi come oggi, non c’è più tempo di fare le cose a metà: bisogna andare dritti per la propria strada.
Tu sei originario dell’Aquila. Com’è stato trasferirsi da solo a Roma?
Mi sono trasferito nel 2009, lo stesso anno del terremoto. Avevo studiato tre anni di Conservatorio nella mia città ma mi ero reso conto che non mi bastava più, non era in linea con quello che volevo fare. Ho sostenuto allora un provino a Roma all’Accademia Corrado Pani e mi hanno preso immediatamente. È stata un’esperienza bellissima. Dopo sei anni, sono rientrato nella mia città ma da tre anni sono nuovamente a Roma. Sono ritornato nella capitale un attimo prima che scoppiasse la pandemia…
Il trasferimento è stato traumatico, soprattutto la prima volta. È avvenuto in concomitanza con la morte di mio padre. Mi sono trovato ad affrontare da solo uno dei periodi più bui della mia vita. Ma se oggi sono quello che sono è grazie a quel momento bello tosto. Sono partiti da lì la ricostruzione delle mie fondamenta personali e il percorso di scoperta e conoscenza.
Come lo hai superato?
Inizialmente, andavo a ruota libera, cercando da solo una via d’uscita. Poi, ho dovuto fare appello a una figura professionale, una psicologa che mi ha salvato la vita aiutandomi a ritrovare la via per quel centro che non sapevo nemmeno dove fosse collocato.
E se dovessi definirti oggi?
Sono malinconicamente energico. Ho questi due lati che convivono e che ho accettato. Sono frutto di una storia, di un passato, di una famiglia e di origini che hanno innescato dinamiche involontarie.