I giorni migliori è l’album che segna il ritorno sulle scene musicali dei Cordepazze a distanza di sette anni dal loro ultimo album. Sette anni rappresentano un lungo periodo di tempo, soprattutto per un ambiente musicale italiano divenuto oramai troppo veloce, in cui i nomi si susseguono a una velocità disarmante e, lasciatecelo dire, preoccupante. Eppure, lasciando partire I giorni migliori sembra di ritrovare dei vecchi amici, partiti per un lungo viaggio e ritornati.
In I giorni migliori, i Cordepazze propongono nove nuovi brani che, come diapositive dell’anima, raccontano la felicità, la gioia, le crisi, gli errori, le cadute, le risalite, l’amore infinito e la paura di non farcela. Nove fotografie che raccontano, dunque, la vita, quella da cui non ci si può mai staccare e che, indubbiamente, ci condiziona. Per capire quanto l’esistenza abbia pesato sul lavoro dei Cordepazze bisogna mettersi nei panni della voce del gruppo, nonché autore dei testi, Alfonso Moscato, e seguire l’evoluzione che lo ha portato ad affrontare questi sette anni di relativa assenza.
Ed è forse questo il motivo per cui nel corso di quest’intervista esclusiva la musica arriva solo in un secondo momento. La prima parte del racconto di Alfonso e, in parte, dei Cordepazze è profondamente personale. I sette anni di buco tra il secondo e il terzo album della band siciliana, prodotto da Roberto Cammarata, hanno coinciso con quelli di una profonda crisi personale. Una crisi che, dettata da fattori privati, ha portato Alfonso a riscoprire se stesso e fare un bilancio.
Vincitori del Premio della Critica a Musicultura Festival nel 2009 e nel 2014, i Cordepazze sono composti oggi da una formazione ridotta al minimo: accanto ad Alfonso Moscato, troviamo Francesco Incandela e Vincenzo Lo Franco. Ma ciò che non hanno perso è la loro leva cantautorale: l’arte della fuga, per citare il titolo del loro secondo album, è tale solo se accompagnati da un ritorno che valga la pena. E quello dei Cordepazze lo è.
Intervista esclusiva ad Alfonso Moscato, voce e autore dei Cordepazze
Iniziamo quest’intervista, a un orario insolito: sono le 9.30 del mattino. Non proprio un orario da “stampa”.
“Mi alzo parecchio presto, sono abituato ormai. Non riesco più ad alzarmi tardi, nemmeno se volessi. La vita ti cambia e può cambiare alla mia età”.
Alla tua età? Parli come se avessi novant’anni.
“Beh, sono figlio di Saturno, sono nato a gennaio. Da capricorno, la vecchiaia ce l’ho dentro. Non è necessariamente una brutta cosa. Non dico che mi ha sia sinonimo di maturità ma di certo ha portato un nuovo tipo di meditazione sul reale”.
Dipenderà anche dal fatto che sei cresciuto abbastanza in fretta.
“Anche. Mi ha condizionato parecchio l’essere stato figlio unico. Mio padre è morto a 46 anni quando io ne avevo solo 13. Io non ho mai capito se ho elaborato o no la perdita di mio padre, so solo che non ci ho più pensato: è come se mi fosse scivolata dalla mente. Ogni tanto ci penso però è tutto così lontano che non me lo ricordo più. Non ricordo nemmeno della voce di mio padre, forse qualcosa dell’odore ma poi più niente. Di sicuro, so che se ci fosse stato, sarei un uomo diverso oggi. Non so però se in meglio o in peggio.
Ho vissuto quella che il mio professore di greco e latino era solito chiamare solitudine totale. Ci diceva sempre: “Ricordatevi che siete soli”. Era un grande amico di Leonardo Sciascia ed era una persona di una cultura mostruosa. In casa aveva una libreria incredibile: una stanza di oltre 40 metri quadri con tutti i libri, una specie di tempio. Ma quello che mi colpiva era la sua umanità. Aveva vissuto la povertà del dopoguerra e ci spingeva a contare solo sulle nostre forze: “siete soli, non pensate mai che avrete qualcuno a fianco”. E, per certi versi, aveva ragione. Nel mio caso, c’eravamo solo io e mia madre. E basta: una famiglia minima, non tradizionale, ma sempre unita.
Un tratto che è spesso tornato nella storia della tua famiglia. La tua bisnonna materna era una vedova bianca, così venivano chiamate le donne che rimanevano da sole a gestire il tutto quando il marito emigrava all’estero in cerca di un futuro migliore.
Il marito era partito per il New Jersey e in paese si diceva che si fosse ricostruito una vita da quelle parti. È un aspetto che non abbiamo mai appurato. Sappiamo solo che partì per l’America e che non fece mai più ritorno. Si, una tradizione di donne che da sole crescono figli.
Senza particolari traumi, verrebbe da dire a coloro che, pur non avendola, fanno appello alle famiglie tradizionali.
Quello della famiglia tradizionale è un discorso portato avanti da tanti ma che poco si ritrova nelle loro vicende personali. Un figlio è un figlio: è qualcosa che ha a che fare con il concetto stesso di bios, di vita. Se vedo un bambino solo in strada, per istinto di protezione decido che quello è mio figlio. E contemporaneamente, in quel momento, per lui divento suo padre.
È un po’ come l’innesto nella pianta: si prende la radice dell’olivastro e la si mette sopra la gemma del biancolilla. Da quell’innesto nasce l’ulivo. È la vita che li unisce ed è la vita che unirebbe un padre a un figlio, anche senza legami biologici. È la potenza oscura e luminosa dell’esistenza umana. Se ci pensate, sono nostri figli anche i gatti o i cani che teniamo in casa. Si diventa genitori o figli per istinto: è la vita che protegge la vita, come emerge anche dallo studio dei classici.
Ti appassionano i classici?
Io ho una biblioteca personale abbastanza ricca di testi. Spesso torno a rileggerli: ho letto l’Odissea, ad esempio, tre volte e l’Iliade due, con il testo greco a fronte. E ho studiato il testo originale della Torah in ebraico. Perché come suggerisce Moscato, il mio cognome, ho origini ebraiche.
Con Evelyne Aouate la presidente dell’Istituto siciliano di studi ebraici, scomparsa da poco, anche lei una donna sola, abbiamo fatto sì che dopo 500 anni (dall’editto spagnolo del 1492) abbiamo organizzato i primi studi pubblici e non “clandestini” della Torah per riscoprire l’importante identità ebraica della Sicilia. Ci ha dato grande aiuto Luciana Pepi, la professoressa di filosofia medievale dell’Università di Palermo.
Quell’esperienza, dopo un paio di anni è finita. Finita perché ho avuto una crisi di fede.
La crisi di fede ha coinciso con i sette anni che separano I giorni migliori, il terzo album dei Cordepazze, dal secondo, L’arte della fuga?
Si. Quando un uomo si ritrova ad affrontare una crisi così potente, rimette in discussione tutti i suoi punti cardine. Tutto è nato dopo che mia moglie, la giornalista Alessandra Costanza, aveva perso in grembo il nostro primo figlio. Da lì è cominciata la mia ricerca esistenziale, una ricerca che ha dato vita anche a un disco da solita, La malacarne, uscito nel 2015. I giorni migliori arriva a sette anni da quella personale caduta.
Se ci riflettiamo, sette è un numero magico.
Il sette è un numero che si ripete tantissime volte nella mia esistenza. Ho perso mio padre quasi alla fine del secondo settennato della mia vita. A 21 anni, ho conosciuto il mio primo amore, quello vero e per cui piangevo. A 28 anni, invece, è arrivato l’amore definitivo, Alessandra, e a 35 anni sono diventato padre per la prima volta. E il terzo disco è arrivato a 42 anni. A questo punto, scherzando, mi chiedo cosa succederà quando compirò 49 anni.
Il fatto che l’album sia frutto di un periodo di crisi si evince dai temi che le canzoni affrontano. I brani non possono essere scissi dal tuo lato biografico. Nonostante la crisi, tu e il tuo gruppo avete mantenuto il vostro nome originario, Cordepazze.
È un nome che abbiamo ereditato dal passato. Siamo nati quasi due decenni fa, abbiamo affrontato varie rivoluzioni all’interno della formazione e oggi siamo in tre. Personalmente, non ero affezionato al nome ma i ragazzi ci tenevano: rappresenta anche la loro storia, sono al mio fianco oramai da sempre. Abbiamo anche uno storico alle spalle, due album, tanti concerti e diversi riconoscimenti. Perché cambiarlo?
Da dove nasceva?
Siamo della provincia agrigentina. Era il nostro modo per rendere omaggio a grandi maestri come Leonardo Sciascia e Luigi Pirandello. È Pirandello che in Berretto a Sonagli fa parlare Ciampa della “corda pazza”, di un cero modo di sopravvivere al destino. E la musica è anche un modo di sopravvivere.
I giorni migliori è composto da nove brani. Quale tra questi è quello a cui sei più legato?
Secondo me, il più bello in assoluto che ho scritto è Ciao, l’ultimo della tracklist. Ci sono affezionato perché racchiude e sintetizza tutto l’album. Racchiude quel senso di pacificazione con il disordine delle cose, per tornare al discorso che si faceva prima in merito ai miei sette anni di crisi. Il far pace con la sensazione di stare fuori, di essere in un posto sbagliato, e con la tentazione di chiedersi “perché sono arrivato qui?”. Racchiude anche il desiderio di far pace con il senso di spaesamento oppure col nichilismo, con tutto ciò che sta intorno, comprese le difficoltà della vita. Sintetizza anche altri brani come Le guerre degli altri, Operativo o Vita da star.
In Vita da star, si affronta il tema della famiglia vista come guerra civile. Perché, fondamentalmente, la famiglia è guerra. Lo fa con un tono ironico ma la famiglia è davvero un grandissimo “bordello” che ti mette in grandissima difficoltà sia dal punto di vista del partner sia dal punto di vista dei tuoi tempi. Devi mettere da parte il tuo ego e affrontare le inadeguatezze che senti nell’educare delle persone, i figli, che non ti stanno nemmeno a sentire.
In Ciao rivedi anche tutti gli errori fatti nel passato, tutte le rate morali che devi ancora pagare. Ecco perché la reputo una canzone sintesi, ne ha tante dentro. È tra l’altro una delle canzoni che ho più sentito. L’ho scritta quasi tutta di getto e racchiude un mio certo modo di essere. Mi sono sempre sentito isolato, decontestualizzato. Ed è una sensazione che ho trasmesso anche a Marzio, il più piccolo dei miei figli. Me ne sono reso conto quest’estate mentre lo guardavo in mezzo ad altri bambini. Ho passato il mio demone a mio figlio: come insegna anche la Torah, la storia non è mai la storia di una persona ma è la storia di una famiglia. Un tuo problema nasce da qualcun altro che in famiglia lo ha generato.
In Vita da star, da te citata, l’immagine della famiglia non è proprio quella instagrammabile.
La nascita di un figlio e tutto ciò che comporta ti da un mostruoso colpo all’io. Nel frangente storico che viviamo è tutto un io, io, io, mentre la famiglia comporta un noi, noi, noi. Cambia del tutto la prospettiva, non puoi più concentrarti su te stesso ma devi concentrarti sugli altri che ora fanno parte della tua famiglia. Ma è un cambio che comincia già nel momento in cui hai un partner ma, mentre dal partner puoi sempre “uscirtene”, dal ruolo di padre no.
Quello di cui canto io è un quadro di assoluta e normale quotidianità. Oggi si parla di “star” solo se si fanno un tot di ascolti o visualizzazioni. E chi si alza alle sei per andare a lavorare in ferrovia non è forse una star? Siamo tutti stelle, anche chi risplende nell’anonimato di casa sua.
Gli anni di cui cantano i Cordepazze non sono quelli degli 883.
Sono gli anni passati. A un certo punto, ti guardi indietro e cominci a vedere cosa ti sei lasciato alle spalle e cosa questi anni ti hanno lasciato. Ma sono anche anni di polvere, di sedentarietà, di cose stantie, di cose a riposo. E anni svaniti in progetti che poi sono andati totalmente in fumo. È forse una delle ballad più riuscite dell’album, insieme a Mercedes Benz.
Mercedes Benz ricorda nel titolo il pezzo immortale di Janis Joplin ma canta invece di un rapporto complicato tra due persone.
Sono partito dall’idea di scrivere una canzone che cominciasse con il nome di una macchina all’inizio. Ne è venuto fuori un pezzo biografico: tutti noi abbiamo avuto delle storie complicate. La complicazione fa parte dell’amore. Una relazione è fatta anche di guerra, di armonia. Ma non intesa come la intendiamo comunemente: l’armonia è l’equilibrio delle cose. Se pensiamo ai classici, Armonia era la figlia di Marte e Venere, del dio della guerra e della dea dell’amore. È composta quindi da congiunzione e disgiunzione. Quindi, Mercedes Benz è un brano armonico nel senso più mitologico del termine.
La figura femminile e la fine evidente di una relazione sono al centro di Cardiopatia.
L’amore è malattia, non siamo i primi a dire una cosa del genere. Al centro della canzone c’è un cuore malato, la visione di una donna che esce con un’amica dopo essere stata abbandonata o dopo aver abbandonato. In ogni caso, una donna sola. È scritta dal punto di vista femminile, anche se il ritornello è al maschile: mi sarebbe piaciuto farla cantare da una donna ma non è stato possibile.
Racconta nello specifico di una donna che all’esterno esce per divertirsi ma che all’interno sente che le manca qualcosa. Ci sono dentro tutte quelle amiche che, quando ancora uscivo e avevo una vita sociale, manifestavano una sorta di allegria rabbiosa. Uscivano per riprendersi rabbiosamente la loro vita ma dietro all’apparente divertimento c’era qualcosa di più profondo.
“La mia gentilezza è solo un trucco da commesso viaggiatore”, cantano i Cordepazze in Operativo.
Operativo è dedicata a un mio collaboratore. Era una persona molto metodica ed era anche innamoratissimo di una ragazza, un connubio che però non dava frutti. Qualsiasi cosa facesse, non funzionava. Ma come canzone nasce anche da una mia riflessione sulla tecnica. Sono un appassionato di filosofia, il mio maestro è Emanuele Severino. Ha scritto due libri bellissimi: Il destino della tecnica e Téchne. Severino teorizza che la tecnica è sempre in fase di accrescimento: qualunque siano le forze mondiali in contrasto, l’apparato tecnico è la sola cosa che si accresce diventando preponderante.
Tutti noi viviamo all’interno di un apparato tecnico e, quindi, un apparato meccanico. Tutto è diventato meccanico ma l’uomo ha al suo interno ancora qualche pezzo di carne che pulsa. Operativo è il frutto delle mie impressioni e riflessioni sull’uomo “tecnico”, l’uomo che si organizza tutto ma che conserva la voglia di essere sensibile all’altro.
Su Instagram scrivi che “la musica è cecità”. Perché?
La musica, innanzitutto, utilizza il senso dell’udito, differente da tutti gli altri perché sente la globalità che ha intorno. E, poi, perché la musica è una sorta di mistero cieco, di scintilla scatenante. Lo vediamo anche nel mondo classico. Orfeo perde la sua Euridice nel momento in cui perde la sua fiducia nella cecità voltandosi al richiamo di lei prima di uscire dall’Ade. Demodoco, colui che fa partire il racconto di Odisseo, era cieco. Io stesso, quando rivedo le fotografie scattate on stage, mi accorgo di avere gli occhi chiusi: è come se, mentre canto, sento la necessità di astrarmi. Non riesco a tenere gli occhi aperti: devo sentire il brano perché il brano è una sensazione musicale, una sensazione cieca.
E di musica si parla anche nella canzone Vivere nell’aria.
Vivere nell’aria è un inno alla fuga dalla meccanica. Vivere nell’aria è come vivere sospesi in qualcosa di etero. Può essere un pensiero, un libro, una contemplazione, un mistero… qualsiasi cosa che non sia fisica. È una fortuna che abbiamo forse in pochi: quella di sentire delle cose metafisiche. io non riuscirei a vivere solamente nella meccanica.
L’ultimo pezzo che compone I giorni migliori, in ordine sparso, è Adriatica.
Adriatica è in qualche modo collegata a Ciao, a tutte quelle manchevolezze con cui devi fare pace con tutto. Anche se le cose vanno a puttane, l’importante è andare. L’Adriatica del titolo è la bicicletta, la mia bicicletta, quella su cui salgo, fatico, mi ricopro di fango, ma rimango in equilibrio e pedalo.