Pane, olio e sale (Mescal) è il nuovo singolo del cantautore Cordio. Noto per aver aperto i concerti di artisti come Ermal Meta, Simone Cristicchi e Francesco Renga, Cordio presenta quella che è la quarta tappa di avvicinamento al suo nuovo album di inediti.
Rispetto ai due EP rilasciati in precedenza, Ritratti Post Diploma 1 & 2, Cordio sembra avere raggiunto una nuova maturità artistica, frutto dell’impegno e della dedizione a un mestiere che ha inseguito sin da quando era ragazzino. Lasciata la sua Catania dopo il diploma, Cordio non si è mai fermato un attimo, complice l’amicizia con Ermal Meta, conosciuto per caso come ci racconta in questa intervista esclusiva, e la collaborazione con il produttore Lorenzo Vizzini.
Pierfrancesco, questo il nome di battesimo di Cordio, ha cominciato a lavorare con sonorità più gioiose, trasferendo in musica il percorso di auto scoperta che ha portato avanti nell’ultimo anno. Desideroso di scoprirsi e di farsi contaminare, nei suoi testi, frutto di una scrittura fresca che conserva l’impronta cantautoriale d’eccellenza, Cordio affronta tematiche sentimentali ma anche sociali. Il tempo sembra essere uno dei suoi topoi preferiti, come dimostra La nostra vita, uno dei suoi più grandi successi, e come certifica in qualche modo Pane, olio e sale.
Nell’ultimo singolo, Cordio si riveste infatti di leggera nostalgia o di saudade, come la definisce lui, per far rivivere cartoline della sua infanzia alle pendici dell’Etna quando tutto era più semplice ma anche più nutriente. Per il corpo e per l’anima. Entrate con noi nel mondo di Cordio.
Intervista esclusiva a Cordio
Come nasce Pane, olio e sale, il tuo nuovo singolo?
Pane, olio e sale, è una canzone che, come tante mie, ho scritto per il desiderio di non perdere certe cartoline della memoria. Ed è una canzone nata, soprattutto le prime strofe, molto fretta, in un momento in cui mi erano tornate alle mente certe sensazioni. Sicuramente, c’è tanto del mio rapporto con la Sicilia: il pezzo comincia con delle note di marranzano, strumento che poi scompare. È stata una scelta del mio produttore Lorenzo Vizzini, anche lui siciliano: volevamo rievocare senza essere troppo didascalici.
Pane, olio e sale è un simbolo per me. È la merenda che mi preparava mia nonna ma può essere anche una maniera di guardare alla vita: godere di cose semplici! E anche abbastanza genuine: nella merenda c’erano solo tre ingredienti molto basici eppure super nutrienti. Quella del pane, olio e sale, è un’abitudine quasi tutta siciliana: la si preferisce al pane e cioccolata spalmabile!
Pane, olio e sale esce in pieno periodo estivo: una ballad nostalgica in mezzo a tanti tormentoni tutti uguali. Non hai paura che si riveli una scelta controcorrente?
Lo è, sicuramente. E forse anche volutamente. Volevo collegare l’idea di una canzone intima ai concerti con una dimensione intima che terrò quest’estate: l’idea di fare i concerti pane, olio e sale, mi piaceva! Così come mi piaceva l’idea di dare una canzone diversa sull’estate, un altro sapore. In fondo, l’estate raccoglie tante sensazioni.
L’estate in Sicilia, per chi è siciliano e non per chi vi arriva per trascorrerci le vacanze, è un’estate pigra, in cui il sole è una “condanna”, come disse una volta Ferdinando Scianna, perché non lo scegli. Il sole è un elemento che invade la tua vita per tre mesi e mezzo in un modo veramente compromettente. Ti costringe a chiuderti in casa, ad abbassare le serrande, ad andare a dormire dopo pranzo. Sono tutte sensazioni che sono anche nella canzone.
La canzone non racconta necessariamente i pomeriggi dell’estate. Racconta i pomeriggi della mia infanzia, tra i quali c’erano anche quelli dell’estate. Quindi, sì, dà delle sensazioni che sono legate anche all’estate ma non sono solo quelle del ritmo, della notte e della musica sul mare: tutte bellissime ma sicuramente le raccontano già altri.
Come in altre canzoni, emerge un’attenzione particolare nella tua discografia al tempo. È come se fossi sempre inseguito dal tempo. Viene fuori il carpe diem o il rimpianto per ciò che è stato. Perché?
Sai che non lo so? Sono una persona in realtà molto felice, però c’è sicuramente un fondo di nostalgia. È una sensazione che ho addosso sin da quando ero ragazzino ma non so spiegarmene le ragioni. È come la saudade: una malinconia felice, uno sguardo al passato visto come un tempo incantato. Chiaro che è anche una suggestione: a volte non eri nemmeno così felice in passato, anche se la mia è stata un’infanzia normalissima. È stata un’infanzia felice ma fatta di cose molto semplici, un po’ come racconto in Pane, olio e sale.
Pane, olio e sale, come gli ultimi altri tre singoli che hai rilasciato (Mezza mela, Cose che si dicono ed Hey Vittoria), ha una copertina molto particolare. C’è dietro un progetto dietro? Non mi sembrano lasciate al caso.
A differenza delle mie precedenti pubblicazioni, l’album a cui sto lavorando nasce con maggiore omogeneità. Ha un suono preciso, i fiati vengono usati in quasi tutti i pezzi e non ci sono sintetizzatori, per esempio. In tutte le canzoni presenta gli stessi musicisti. E ho cercato di rendere anche la sua stessa composizione equilibrata. Così come c’è sulla musica una certa attenzione alla progettualità, c’è anche nelle copertine dei vari singoli che stanno man mano uscendo.
Delle copertine si sta occupando un’artista argentina, Julieta Vivas, a cui ho dato completa carta bianca. Ha fatto riferimento agli studi sulle associazioni tra le frequenze del suono e quelle del colore. E ha quindi riportato in maniera cromatica le frequenze delle mie canzoni su ogni copertina.
L’obiettivo non era tanto realizzare qualcosa di originale per sentirsi dire “oh, che cosa colta” ma quanto restituire la sensazione di unicità del progetto.
Così, come dalle tue canzoni, c’è spesso il riferimento a Catania, la città di cui sei originario ma che hai lasciato. Cosa ha rappresentato per te Catania e che cosa ha significato per te, giovane musicista, crescerci? La scena musicale catanese, del resto, è piuttosto viva con nomi come Carmen Consoli e Mario Venuti, senza dover necessariamente tirare in ballo Franco Battiato, il maestro di tutti.
Sono un grandissimo fan di Battiato: ho un amore profondo per un artista che reputo veramente imparagonabile agli altri. Tuttavia, Carmen Consoli e Mario Venuti sono due degli artisti di cui ho consumato tutti i dischi. Già da adolescente, c’era qualcosa nel loro modo di cantare, di scrivere melodie e comporre canzoni, che mi risuonava come fortemente evocativo. Non so come spiegarlo: L’ultimo bacio di Carmen o Un altro posto nel mondo di Mario hanno qualcosa della nostra terra, della sabbia, del mare… sono stati e sono dei miei punti di riferimento. Tra l’altro, sono onorato di aver conosciuto Mario e che abbia cantato insieme a Dario Greco una canzone scritta da me, Lavica.
Per me è spontaneo che nei miei testi, che non sono sempre letteralmente autobiografici ma che attingono sicuramente alla mia vita, sia presente Catania. Tra l’altro, è un nome che suona bene rispetto a quello di tante altre città: ha proprio un suono bello aperto. È la mia città e con lei ho un rapporto di amore e odio. Ma in questo momento non sarei felice di viverci.
Perché no?
Per il desiderio che ho di contaminazione. Catania è la città in cui sono cresciuto fino ai 19 anni, ci sono ancora tutti i miei più cari amici e la mia famiglia. È la mia radice ma adesso sento il bisogno di stare altrove, sui rami o sulle foglie.
Quindi, non sei come Gerardina Trovato, altra catanese d’eccezione, che cantava il rimpianto di non avere più la sua città?
È un pericolo a cui voglio sottrarmi. Il mondo è bello e mi affascina l’idea di come la geografia possa condizionare la psicologia. Chi è nato e cresciuto a Bologna o a Milano, così come in ogni altra parte del mondo, ha visto il suo carattere psicologicamente e culturalmente forgiato dalla propria città: Ed io, a ventisei anni, sento una fortissima curiosità verso gli altri, ho voglia di conoscere altro che non sia Catania. Magari, come capita spesso, ci sarà un momento in cui come Ulisse risentirò il richiamo dell’isola.
Hai appena detto la tua età. E mi hai fatto pensare che Consoli e Venuti erano già in attività quando tu sei nato. Come li hai scoperti?
A dieci anni circa, erano ancora nel pieno della loro maturazione artistica. Io ricordo ancora quando uscì Mandami una cartolina, lo struggente pezzo di Carmen dedicato al padre, o quando Mario si presentò a Sanremo con A ferro e fuoco, pezzo di cui alle medie andavo pazzo. Ho scoperto la loro musica con le canzoni che rilasciavano quando ero già in età senziente! Grazie a mia mamma che comprava i dischi, ho riscoperto dopo canzoni come Amore di plastica o Fortuna.
Quindi, era mamma l’appassionata di musica in casa?
Si, anche se mio padre, nonostante non andasse a comprare i dischi, era quello che prendeva i biglietti per i concerti o ascoltava la radio tutte le mattine: ho preso da lui ad esempio quest’abitudine. Mia madre, invece, tutti i giorni metteva un disco dopo pranzo. Ogni settimana tornava con un disco nuovo, che tra l’altro a volte si faceva consigliare senza che conoscesse l’artista in questione. Ed io ho come assorbito il suo rapporto con l’ascolto quotidiano della musica.
Quindi, quando dopo il diploma alle superiori hai detto che volevi far musica non saranno stati così sconvolti dalla tua scelta.
No, l’avevano già intuita. Già a 13 anni ho avuto una sorta di ossessione profonda per la musica perché ho cominciato a scrivere. Ero schiavo delle canzoni, anche se poi dovrei dire canzoncine, perché erano qualcosa che non stavano in piedi. Vedevano che ero completamente assorto.
Dopo il diploma, ho provato a frequentare l’università ma non faceva per me. Per fortuna, i miei potevano permettersi di aiutarmi e mi sono trasferito a Milano, ho studiato in un’accademia e al conservatorio. Senza la famiglia che mi sostenesse, sarebbe stato altrimenti difficile per me. Rispetto a chi frequenta, non avrei ad esempio potuto trovare un lavoro: il percorso scelto da me non aveva regole e forse questo un po’ poteva spaventarli ma vedevano la mia determinazione… mai mi sarei lanciato in qualcosa di avventato.
Abbastanza presto, tuttavia, ho avuto la fortuna di incontrare Ermal Meta, che nel giro di un anno mi ha messo sotto contratto come autore. È bello avere dei sogni ma è ancora più importante avere dei riscontri: un po’ di realismo è necessario nella vita, nel bene o nel male. L’incontro con Ermal è stato il feedback che mi ha permesso di capire che non ero stato del tutto incosciente. L’ho preso come un segnale.
Racconti con nonchalance che hai incontrato Ermal Meta, come se poi uno passeggiando per la strada incontrasse Ermal così…
E invece è andata veramente così... Era il 2015 e lui non era ancora noto al grande pubblico come adesso. Lo conoscevo musicalmente da quando suonava con il suo ex gruppo: mi ero innamorato della sua scrittura. In quel periodo, faceva l’autore e mi piaceva moltissimo quello che scriveva per Marco Mengoni. L’ho incontrato a Taormina mentre faceva il bagno in mare: era lì in vacanza.
Ero lì anch’io e con la mia ex fidanzata ci siamo avvicinati per complimentarci con lui. Di natura, Ermal è una persona veramente molto carina: ci ha offerto un aperitivo, siamo stati un po’ insieme e abbiamo cominciato a parlare. Da cosa poi è nata cosa ma io mi ero avvicinato semplicemente da fan, non volevo nulla, manco la foto!
Hai appena citato un’ex fidanzata. L’amore gioco ruolo abbastanza di peso nei tuoi testi. Chi si aspetta però rime con sole, cuore e amore, rimarrà deluso, sottolineiamolo. Nei tuoi ultimi tre singoli prima di Pane, olio e sale, si parla tutto sommato di amore: vissuto, finito o rimpianto per non essere nato. Come vivi tu l’amore? In maniera spensierata o molto sturm und drang?
In maniera molto serena. Ho avuto finora due relazioni importanti, di cui la prima anche abbastanza lunga. Me ne rendo conto anch’io spesso: le mie canzoni sono romantiche perché parlano e descrivono dinamiche legate alle relazioni sentimentali. E il perché è semplice.
Come tanti, ho iniziato usando la scrittura come catarsi, come forma di autoanalisi. Quando in me nasce un’emozione forte, subentra l’esigenza di raccontarla nella forma canzone. Sono state soprattutto canzoni nate da emozioni sentimentali, per cui il tema amoroso è piuttosto ricorrente. Ma ci sono anche altri testi che sono più legati a dinamiche sociali o esistenziali. La nostra vita, ad esempio, faceva considerazioni sul tempo che passa e su ciò che lasci agli altri. Il paradiso, invece, da un’ingiustizia e dalla rabbia sociale che ne scaturiva.
Tu hai alle spalle due EP che hanno avuto un ottimo riscontro: Ritratti Post Diploma 1 & 2. Come sono nati?
Sono frutto del rapporto di amicizia molto forte che ho stretto con Ermal Meta. Ogni tanto gli mandavo delle canzoni chiedendo a lui dei pareri. Tra le tante, era rimasto colpito da una che si chiamava Ti ho tradita mille volte e ha manifestato l’intenzione di produrla, chiedendomi se ne avessi altre. Ho continuato a inviargli canzoni fino quando non c’è stata l’idea di partecipare a Sanremo Giovani con La nostra vita, anche se l’anno prima avevo già tentato con Il paradiso ma non avevo superato tutte le selezioni.
L’anno dopo, Ermal è esploso come artista. Nonostante ciò, ogni tanto si ritagliava del tempo per me: andavamo in studio da lui a Milano e registravamo le canzoni che scrivevo. Il tutto però avveniva con disordine: la sua vita era stata stravolta ma continuava a occuparsi di me quando poteva. Le canzoni uscivano un po’ per volte ma poi si era deciso di racchiuderle in un album. Altre vicissitudini hanno poi portato a due EP anziché un album che racchiudevano le mie prime canzoni “decenti” scritte.
Ermal è stato giudice in un talent, Amici di Maria de Filippi. Tu non hai mai avuto la tentazione di partecipare a un talent?
Non mi sentirei molto confident, a mio agio,nel contesto di un talent. Prima di tutto perché credo di non essere particolarmente adatto. Non mi sono mai sentito un cantante, per esempio: ho sempre avuto più la passione per la scrittura, il canto è venuto dopo. Quindi, l’idea di presentarsi con una tua canzone ma poi di cimentarti con le cover e misurarti con le tue doti di cantante non mi ha mai allettato: non mi sentirei particolarmente forte. E poi perché non mi sono mai sentito particolarmente competitivo, forse soffrirei troppo il dovermi mettere in mostra.
Anche se… devo dirvi la verità. Ho fatto in passato un provino per Amici. Non ne ero convintissimo ma l’ho fatto. Avevano sentito alcuni dei miei primi brani pubblicati e avevano il piacere di sentirmi. Sono andato al provino con Maria ma non è andato. Credo per colpa del fatto che io stesso non ci credevo e si vedeva. Sono scelte che vanno fatte solo se di desiderano veramente.
Con Sanremo invece vorresti riprovarci?
Ma stravolentieri! Non ora però: prima avrei voglia di costruire delle basi solide per la mia carriera. Il mio sogno sarebbe quello di andarci tra tre anni non da giovane ma da big outsider. Cioè tra quelli che il pubblico pensa “ma questo da dove è arrivato?”. Un po’ come fatto da Ditonellapiaga, Fulminacci o Willie Peyote, ad esempio, artisti che prima hanno avuto una crescita graduale, lenta nell’ “underground”. Mi piacerebbe prima di avere tanta visibilità far sì che le mie canzoni trovassero un loro spazio e che la mia scrittura, grazie al mio costante impegno, avesse maggiore solidità.
Citando una delle tue primissime cover, come vorresti che ti vedessero gli altri?
Vorrei che mi vedessero come mi vedo io, una cosa meno scontata di quanto non sembri. Molto spesso, per ragioni di comunicazione, diciamo, scriviamo o ci esponiamo in maniera falsata, preoccupandoci che quanto pensiamo realmente non sia di gradimento agli altri.
Da un anno sto facendo un grande lavoro su me stesso grazie alla terapia, una cosa che mi rende molto felice. Sto cercando di entrare in contatto con me stesso e di mostrare agli altri quello che io veramente sento. Mi serve a non cadere in quegli strani meccanismi psicologici per cui vuoi che gli altri ti vedano solo nel modo che a te piace: creerebbe delle alterazioni.
Io, ad esempio, mi accorgo subito se qualcuno cerca ostentatamente di mostrarsi per quello che non è. E ogni volta mi chiedo se anch’io ho fatto la stessa cosa e quante volte. Lo trovo imbarazzante.
Scherzando con un altro titolo di una tua canzone, come vorresti essere ricordato domani?
Con gioia. Ci sono stati dei momenti nell’adolescenza in cui mi sono molto incupito. Ero molto inquieto per ragioni personali ma niente di preoccupante: tutto assolutamente ordinario. Per qualche anno quell’inquietudine di fondo mi ha accompagnato. Poi, ho capito che la mia indole era quella che avevo da bambino, molto più gioiosa, positiva e fiduciosa. Per fortuna, non appartengo a quella categoria di artisti maledetti che vivono abissi interiori molto oscuri. Io ho il desiderio di liberare questa parte di me, la mia natura più leggera e gioiosa. Ed è questo che spero che resti.
Ti spaventa il successo?
Un po’ sì. Mi spaventa l’idea di ogni possibile cambiamento, soprattutto se improvviso e grosso. A me spaventerebbe molto il successo che hanno avuto Ultimo o Blanco, che nel giro di pochissimo tempo hanno avuto le loro vite stravolte. Noi esseri umani, a livello antropologico, non siamo fatti per queste scosse, preferisco che i cambiamenti avvengano in maniera graduale.
Un successo come il loro non lo trovo neanche desiderabile, nemmeno a livello pratico. Io amo andare in giro per Milano in biciletta, prendere la metro, fermarmi a chiacchierare con chi capita. L’idea che una popolarità così esplosiva possa alterare non solo le mie abitudini ma anche il modo in cui le persone si relazionano a me, mi spaventa molto.
Ma avrei anche paura, se capitasse, del peso delle aspettative altrui. Mi sentirei sovrastimato.
E a quel punto subentrerebbe la sindrome dell’impostore.
Su cui ho anche scritto una canzone, Altro che artista. Finirebbe per oscurare anche il talento perché la domanda sarebbe sempre cosa fare per dimostrare di essere all’altezza di ciò che si aspettano.
Ti sei di recente esibito a Palermo nel concerto per il trentennale dell’anniversario della strage di Capaci. Pane, olio e sale legata alla memoria. Quanto è importante la memoria oggi?
Noi umani abbiamo un problema: la nostra memoria, in termini scientifici, è troppo corta. I social, con tutti gli stimoli che continuano a mandare, hanno finito con il tarare il nostro cervello. Di conseguenza, la memoria soprattutto a breve termine è come se si stesse bruciando. È una cosa un po’ preoccupante che mi inquieta. Sembra quasi che tutti si abbia la memoria del pesce rosso. La memoria invece è coscienza, consapevolezza. In teoria, negli esseri umani, dovrebbe crescere con l’avanzare dell’età e portare a fare scelte ponderate. Mi preoccupa che invece non accada.