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Corrado Fortuna: “La mia paura del giudizio altrui sull’essere umano che sono” – Intervista esclusiva

Corrado Fortuna
Nel ripercorrere la sua esperienza sul set del film Il ragazzo dai pantaloni rosa, Corrado Fortuna racconta le sue paure più intime, la sfida di interpretare un padre destinato a vivere il lutto e il difficile percorso, in continua evoluzione, per diventare l’uomo che sarà domani.

Il percorso artistico di Corrado Fortuna parte da molto lontano, da quando Paolo Virzì lo ha scelto come protagonista di My Name is Tanino, commedia destinata ad assurgere a cult generazionale. E ancora molto altro ha da dire: l’attore palermitano sarà nel cast della serie tv Netflix Maschi veri nei panni di un coach che insegna ai maschi alfa come spogliarsi della loro mascolinità tossica, nel film di Mario Martone Fuori in cui presta il volto ad Angelo Pellegrino, il marito di Goliarda Sapienza (impersonata da Valeria Golino) anch’egli scrittore e attore come Fortuna stesso, e nella seconda stagione della serie tv di Canale 5 Vanina – Un vicequestore a Catania, di cui a marzo partiranno le riprese.

Il suo presente però è rappresentato dal film Il ragazzo dai pantaloni rosa, in uscita al cinema il 6 novembre per Eagle Pictures. Nel lungometraggio che riscostruisce la storia del quindicenne Andrea Spezzacatena, vittima di bullismo e cyberbullismo, Corrado Fortuna interpreta il padre Tommaso, con cui ha subito ha stabilito una profonda connessione emotiva. Sebbene non lo abbia mai incontrato, Corrado Fortuna ha tratto ispirazione dall’ombra di un uomo che ha scelto di vivere il dolore in silenzio, distante dai riflettori.

Nel ripercorrere l’esperienza sul set, Corrado Fortuna descrive l’intensità emotiva che ha investito l’intero cast e la troupe durante le riprese, in particolare nelle scene in cui si toccavano corde profonde e dolorose. La relazione tra Tommaso e Andrea, segnata da promesse fatte con tutto il cuore e infrante dalla realtà, è un microcosmo delle vulnerabilità umane, un’esperienza sconvolgente che, come una sorta di catarsi, ha richiesto all’attore il coraggio di confrontarsi con le proprie paure.

Il ragazzo dai pantaloni rosa diviene, così, non solo un racconto di sofferenza e bullismo, ma anche lo spunto per una riflessione sull’adolescenza e sulle complessità del mondo in cui essa si scontra, un mondo fatto di convenzioni, ruoli di genere e pressioni sociali. Corrado Fortuna, riflettendo su quanto poco sia cambiato nel corso degli anni, riconosce una problematica irrisolta nell’educazione dei ragazzi, specie nel contesto di una mascolinità rigida e aggressiva. Per lui, il bullismo è un fenomeno che trae forza dalla solitudine e dall’inadeguatezza, sentimenti che i giovani perpetratori faticano a esprimere in maniera costruttiva.

Parlando, poi, del proprio percorso, Corrado Fortuna si racconta come uomo e padre, consapevole delle fragilità e delle battaglie quotidiane che ognuno porta con sé. Attraverso Tommaso, Corrado Fortuna ha avuto l’occasione di esplorare nuovi lati di sé, accettando di fronteggiare quel giudizio tanto temuto ma inesorabile.

Quella che segue è un’intervista che, proprio come Il ragazzo dai pantaloni rosa, invita a riflettere su temi profondi, sull’importanza di educare i figli alla sensibilità e alla comprensione, e su come il cinema possa divenire uno strumento di cambiamento, specchio della società e faro di speranza per chi vive in ombra. Ma anche sul sentirsi inadeguati, sulla depressione e sull’arte.

Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).

Intervista esclusiva a Corrado Fortuna

“Tommaso è malinconico”, racconta Corrado Fortuna quando gli si chiede di descrivere come si è immaginato il padre di Andrea Spezzacatena per il film Il ragazzo dai pantaloni rosa. “Non ho incontrato il vero padre di Andrea, che rispetto alla madre Teresa ha sempre preferito rimanere più nell’ombra, pur dandoci il suo bene placito. Per delicatezza, si è preferito dunque non chiamarlo con il suo nome e, di conseguenza, non ho neanche voluto disturbarlo”.

“Ho apprezzato il suo essere recalcitrante all’apparire, aspetto che ho provato a portare in Tommaso, un personaggio che ho dovuto costruire sulla base di qualche racconto e di nulla più”, prosegue Corrado Fortuna. “L’ho immaginato quindi malinconico, sensibile e in ombra, nelle dinamiche familiari segnate da una mamma molto presente. Forse uno degli errori della coppia che portiamo in scena è pensare che il loro equilibrio potesse durare per sempre quando era evidente come il piatto della bilancia pendesse più da una parte che dall’altra, soprattutto nelle relazioni con i figli”.

“Tommaso crea in qualche modo anche un suo forte legame con Andrea. C’è una bellissima scena, dopo un forte litigio, in cui promette al figlio che non soffrirà per la separazione dei genitori, facendo una promessa che non è sicuro di poter mantenere. Tant’è che sarà Tommaso stesso, nella sequenza successiva, a prendersi la responsabilità di comunicargli la promessa non mantenuta. Girarla è stata molto intensa e drammatica: si è pianto molto per la commozione: seppur durante le riprese cercassimo di trovare necessariamente momenti di gioia e di rilassatezza, inevitabilmente ci si ricordava di come sarebbe finita la storia che stavamo raccontando”.

“Un’intensità simile ci sorpresi anche quando giravamo la scena iniziale, quella del parto”, aggiunge Corrado Fortuna. “Sia io sia Claudia, che aveva anche il compito di dover recitare lo sforzo bestiale che la nascita richiedeva, avevamo già la consapevolezza che quello che stava venendo al mondo era lo stesso bambino che sul finale si sarebbe ammazzato”.

Eppure, nel guardare il film, nonostante si è certi di come andrà a finire, nello spettatore c’è come il desiderio che qualcosa cambi, che arrivi il colpo di scena finale che porti la storia su un’altra dimensione.

Perché è un film, paradossalmente, pieno di vita, con tanta adolescenza dentro e colorato. Ma, purtroppo, quella degli adolescenti è una vita complicata: devi imparare ad avere a che fare da solo con il mondo che c’è fuori dalla porta di casa, un mondo feroce e diverso da quello a cui, fino a quel momento, ci hanno iniziato mamma e papà. È difficile ed è faticoso per tutti ma per Andrea è stato un compromesso insopportabile.

Corrado Fortuna e Claudia Pandolfi nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa.
Corrado Fortuna e Claudia Pandolfi nel film Il ragazzo dai pantaloni rosa.

Per triste ironia del destino, il film arriva in sala nel momento in cui un altro adolescente, il quindicenne Leonardo Calcina, si è tolto la vita per i continui atti di bullismo subito. Ciò ci fa capire quanto, nonostante siano passati più di dieci anni dalla storia di Andrea, non molto sia cambiato.

Il bullismo in età adolescenziale è sempre stato un piaga. Sono originario di Palermo, una città in cui negli anni Novanta, quand’ero adolescente io, il tasso di suicidio adolescenziale era alle stelle, soprattutto tra i ragazzi della cosiddetta “Palermo bene”. Al di là dei tempi che cambiano, l’adolescenza rimane un’età particolarmente vulnerabile e non è cambiato il modo in cui educhiamo i nostri figli, soprattutto i maschi: non vengono educati alla gentilezza, alla delicatezza, al chiedere, al rispetto del no, alla non prevaricazione sull’altro, all’accoglienza, al mostrarsi fragili o in sofferenza…

È qualcosa che poi si porteranno da adulti contribuendo ad alimentare quell’immagine del maschio alfa ineducato all’amore che si muove in mondo ancora dominato da un fortissimo dispotismo patriarcale e maschilista.

Il ragazzo dai pantaloni rosa è anche un film queer nella misura in cui mostra come, a essere preso di mira per le unghia dipinte, non sia un maschio alga dominante (nessuno penserebbe mai di farlo con Manuel Agnelli, ad esempio) ma un quindicenne con i pantaloni rosa che un’ammirazione pura nei confronti del suo idolo non definibile con un’etichetta. Mi auguro che, nel guardarlo, possano sentirsi rappresentati non solo tutti i bullizzati ma anche i bulli. Anche loro vivono una sofferenza, se ci pensiamo: da dove viene la loro voglia di prevaricare sugli altri se non da una solitudine che vivono nel non riconoscersi più in un modello e nel non sapere che cosa provare? Il problema rimane dunque nel come educhiamo i nostri figli. Sono genitore, tra l’altro, di un figlio maschio e la questione per me è centrale.

Nel film, ciò è abbastanza evidente da come la sceneggiatura ha caratterizzato il personaggio del bullo Christian, con un background che pian piano emerge…

…senza farne il santino del “povero” bullo, con due pennellate ci restituisce l’idea di un ragazzino che vive comunque una sua sofferenza, nonostante fisicamente sia già più “uomo” di Andrea, socialmente apprezzato e appartenente a un certo contesto sociale. E Andrea Arru nell’interpretarlo è riuscito a restituire tutto ciò, rivelandosi non solo un super attore ma anche una persona dal cuore gigantesco: ha una consapevolezza e sensibilità nell’essere attore che certi colleghi della mia età si sognano.

Colpisce come voi protagonisti del film parliate l’uno dell’altro con molta generosità.

È stato un set in cui si è tutti voluti molto bene, ci siamo molto amati e si sono creati dei rapporti stupendi tra adulti e ragazzi. Ma è stato anche un set in cui sono accadute cose molto strane: metà delle persone del cast artistico o tecnico si chiamavano Andrea, ad esempio… E ho visto macchinisti commuoversi fino alle lacrime mentre recitavamo e il che non accade spesso.

Non avevo dubbi sulla chimica tra me e Claudia Pandolfi: è una delle mie migliori amiche da una vita, siamo al secondo film insieme e la nostra intesa emerge anche dal film, soprattutto dai momenti di litigio. La vera piacevole sorpresa è stata dunque lavorare con gli altri, dalla regista Margherita Ferri alla direttrice della fotografia Martina Cocco, una troupe (anche molto femminile) piena di amore.

Il ragazzo dai pantaloni rosa: Le foto del film

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Da padre, è stato complicato interpretare il ruolo del genitore di un figlio destinato a morire?

A livello pratico, girare il film è stato facilissimo: grande sintonia e grande amore sul set facevano sì che si arrivasse contenti di andare a lavorare. Così come lo è stato da un punta di vista tecnico: per le scene più commoventi, si piangeva senza particolari problemi. Ma, dal punto di vista psicologico ed emotivo, per quanto mi riguarda è stato devastante… non sono riuscito a vedere il lungometraggio prima della sua proiezione alla Festa del Cinema di Roma e non so se lo rivedrò mai più: sono un padre e posso comprendere cosa c’è in ballo. Se non fossi stato padre, non avrei di sicuro potuto interpretare Tommaso…

Il pensare che possa morirti un figlio in quel modo è un doppio salto mortale carpiato. Sono tante le domande che la storia ha generato in me facendomi venire anche un po’ di paranoie. Spingo da sempre mio figlio all’indipendenza, da quando è nato è stato cresciuto con il metodo Montessori proprio per la consapevolezza che non potrò esserci sempre io al suo fianco e che prima o poi dovrà misurarsi con la ferocia che lo attende là fuori: commisuratamente all’età che ha, sa già che dovrà avere a che fare con il mondo da solo. La mia paura più grande è che mio figlio possa diventare un bullo, essendo stato io stesso un bambino bullizzato.

Uno dei problemi connessi all’essere stati bullizzati è il senso di colpa. Ti sei mai chiesto perché sia successo a te?

Certo, arriva presto il momento in cui ti dici “è colpa mia, hanno ragione loro”. Perché? Sono sempre stato un bambino dalla lacrima facile, sensibilissimo e fifone: era facile prendermi per il culo. Non giocavo a calcio come tutti ma a pallavolo (a scuola, mi chiamavano ‘Mimi Ayuhara’) e non pronunciavo la parola ‘minchia’ ogni tre per due.  Ma venivo bullizzato e litigavo spesso anche perché difendevo chi veniva preso di mira ed etichettato come ‘frocio’, ‘tascio’ (spazzatura in palermitano, ndr) o ‘sfigato’.

Ho subito fino a quando un giorno a sedici anni, alto 1 metro e 90, mi sono risvegliato, ho messo le lenti a contatto al posto degli occhiali e ho cominciato a restituire un po’ di quelle boffe (schiaffi, ndr) metaforiche e materiali che avevo ricevuto. Ho cominciato a ribellarmi ai soprusi, la ribellione è divenuta una costante della mia vita ma a diciott’anni sono letteralmente scappato, andando via. Da quel momento in poi non ho avuto più problemi a relazionarmi con gli altri, escludendo la mia apatia sociale congenita: non sono più stato vittima di soprusi, prevaricazioni e prepotenze., tutt’altro… a Firenze, all’Università, avevo trovato la mia dimensione ideale: avevo la mia famiglia nel collettivo politico ed ero a mio agio nel gruppo di pari che avevo sempre sognato.

Ovviamente, la mia vita da adolescente non è stata solo quella da vittima di bullismo. Sono anche stato un adolescente per molti versi 'fighissimo': suonavo, facevo politica, ero alternativo, avevo i miei ‘fan’ e i miei amici. Ma, purtroppo, quando frequenti scuola spesso fai parte di un gruppo o dell’altro, a differenza di Andrea Spezzacatena non ero l’unico a essere preso di mira.

Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).

La linea di confine che separa i due gruppi è rappresentata dal giudizio: da un lato, c’è chi lo esprime mentre, dall’altro lato, c’è chi lo subisce. Come hai vissuto e vivi il giudizio?

Male, per non dire malissimo. Intanto, l’ho subito in un momento in cui, a quell’età, ero anche alla ricerca di una mia identità, provando a capire come tutti gli adolescenti chi fossi, in chi mi rispecchiassi e come fossi fatto, anche sperimentando. Ed è qualcosa che inevitabilmente ti segna: già è tremendo il rapporto con il mio giudizio nei confronti di me stesso, figuriamoci con quello degli altri.

Da trent’anni faccio psicoterapia ed è affascinante scoprire come funziona la mente umana: l’autogiudizio è, in fondo, un altro lato del narcisismo, un aspetto che in me non è collegato al lavoro che faccio ma che esisteva anche da prima. Anzi, per certi versi, del giudizio che si ha sul mio lavoro tendo anche a interessarmi meno: non sto di certo a leggere tutte le recensioni che mi riguardano, presto ad esempio più attenzione a quelle dei libri che scrivo che a quelle dei film che interpreto. Mi preoccupa maggiormente il giudizio sulla persona perché mi piacerebbe essere capito, cosa che non accade sempre.

Spesso risulto anche schivo, sgarbato o aggressivo, quando in realtà sono solo un tristone depresso. Forse è anche per compensare ciò che ci tengo a essere più gentile e generoso… la sera prima di addormentarmi la mia testa è sempre piena di domande: “Di cosa mi devo preoccupare oggi? Di cosa mi devo vergognare?”. Ma nasce comunque dal narcisismo, dal pensare che tutti guardino me quando invece, giustamente, non mi si fila nessuno.

Curioso come tu abbia poi scelto un lavoro che comunque ti sottopone a un costante giudizio, da quello dell’agente a quello dei direttori di casting, facendoti vivere con una specie di spada di Damocle sulla testa.

Sì, ma si tratta pur sempre di lavoro. Intanto, è molto più difficile che qualcuno venga da te a dirti che sei un cane maledetto: ti si rivolgono generalmente per farti dei complimenti e ciò fa sì che la tua autostima traballi di meno. Trattandosi poi di qualcosa che non è soltanto emozionale e psicologico ma anche tecnica, la recitazione è qualcosa che sento di saper fare: per citare Stephen King, ho la cassetta degli attrezzi sempre appresso, pronto a scegliere quale cacciavite usare. Non sto dicendo di essere bravo ma che, tra le cose che ho fatto nella mia vita, è sicuramente tra quelle che so fare bene e in cui riesco meglio, vivendola serenamente. Il set è il posto dove sono più a mio agio nel mondo, dove non mi sento giudicato come persona e non mi vergogno.

Se mi chiedessi ad esempio di ripetere come Corrado questa nostra conversazione in un teatro davanti a cinquecento persone, non lo farei mai perché mi vergognerei come un ladro. Ma se tu mi chiamassi in quanto Crispino, non avrei problemi a performare: sarebbe pur sempre un personaggio, una maschera da costruire e indossare. Potevo vergognarmi quando ho cominciato (tanto che nelle prime scene da girare per My Name is Tanino, il mio primo film, ero visibilmente imbarazzato dall’aver settanta persone intorno a guardarmi) ma non ora: dopo ventiquattro anni di mestiere, ho imparato che per quanto ridicola possa essere l’azione in scena nessuno mi prenderà in giro o bullizzerà.

La mia paura del giudizio altrui è quindi sempre legata all’essere umano che sono. E difficilmente uno spettatore o un lettore verrà da me per dirmi apertamente che ho fatto cagare con il mio ultimo lavoro.

Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).

In quest’intervista, però, ti stai raccontando come Corrado. E se qualcuno venisse a dirti che non gli piace la persona che traspare sarebbe un dramma?

Mi metterebbe ansia. E sicuramente quando leggerò quest’intervista, come ogni santa volta che ne rileggo una a me, mi vergognerò e mi pentirò per quanti capelli ho in testa di averla rilasciata.

Hai fatto i conti con i leoni da tastiera che potrebbero arrivare sul tuo profilo social?

Sui social non ho quella popolarità per cui arriva qualcuno che mi tratta male solo per il gusto di farlo. Mi succede pochissimo e quelle poche volte tendo o a non rispondere o a ricorrere all’ironia. Il giudizio mi tange perché ciò che ti viene fatto notare in fondo un po’ di verità potrebbe avercela: se mi dicessero che in quest’intervista sono stato ad esempio banale, con la memoria da maniaco del controllo che mi ritrovo la prossima volta me ne ricorderò e proverò a rimodulare il calibro.

Ma ciò non significa riscrivere continuamente anche la propria identità?

Ed è una fatica mostruosa. Ecco perché quando mi è capitato tra capo e collo questo lavoro, che comunque non ho in primis scelto, non mi è risultato complicato recitare: forse ero già abituato a mostrare parti di me a seconda dell’ambiente che mi circondava. Dopotutto, è qualcosa che a Palermo si fa spesso: senza voler disturbare Pirandello, indossiamo maschere a seconda dei casi.

Quando ti è stato chiaro chi era Corrado come uomo?

Beato chi sa rispondere a una domanda del genere. Non penso che ci sia un momento in cui ci si può dire di conoscersi perché già il giorno dopo si è diversi. Tutto ciò che si può fare è semmai portare avanti un lavoro continuo e quotidiano diretto all’evoluzione, migliorandosi e cercando di capire come trarre lezione dagli errori commessi. Più che la felicità in sé, è la ricerca della stessa a farci stare meglio…

L’idea della felicità non è quella che ci viene restituita capitalismo contemporaneo: per me, al pari dell’amore, è indefinibile e non è data dalla macchina nuova, dagli occhiali di marca o dal borsello da 700 euro. È data semmai dalla ricerca continua dell’evoluzione, termine che preferisco ad altri perché mi piace vedere la vita come un percorso in cui non si rimane fermi o non ci si fossilizza sull’io sono fatto così: trovo interessante vedere come uno fatto così possa musicarsi con cose che lo facciano cambiare.

Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).

In tutto ciò, per te, che ruolo gioca l’ambizione? Siamo abituati a considerarla negativamente ma è una parola dalla valenza positiva enorme: è la chiave per avvicinarsi alla possibile migliore versione di sé.

Mi interessa in questa accezione e quindi ambisco, anche a mille cose differenti… ambisco a smettere di fumare anche se da quando abbiamo cominciato a chiacchierare ne ho accese quattro, a essere più amorevole, gentile, generoso e volenteroso, o a farmi meno canne. Ma ho anche ambito nel mio percorso professionale a portare avanti una carriera in maniera antisistemica, pur consapevole di come ciò avrebbe anche finito con il privami anche di opportunità.

È stato bellissimo avere avuto trent’anni e aver messo il lavoro al centro di tutto (auguro che possa accadere a tutti i prossimi trentenni) ma è stato altrettanto centrale l’aver capito una decina d’anni dopo che non esisteva solo quello ma anche altro. Lavorare continua a essere stupendo e incredibile ma ho realizzato che dovevo riportare al centro di tutto la vita vera e i rapporti d’amore, non solo con gli altri ma anche per se stessi.

Ho scelto dunque di avere oggi tempi più dilati e di non abitare più a Roma: non vivo più in funzione del lavoro ma lavoro per vivere. Ed è così che dovrebbe essere per tutti quanti. Il senso della vita per me oggi è dato dal passare quanto più tempo possibile con mio figlio, visto che è condannato ad avere meno tempo a disposizione da passare con me rispetto a quello che io ho avuto con mio padre: sono diventato papà a 41 anni (mio padre ne aveva invece 28) e non posso stare lì a fare il pupiddu tra cene di rappresentanza, red carpet e fotografie.

E, da quando ho raggiunto tale serenità con il lavoro, mi sento anche molto migliorato come attore e vengo anche chiamato più spesso. Forse perché adesso vado agli incontri o ai provini con un atteggiamento differente, pacifico e sereno, che fa nascere negli altri anche il desiderio di lavorare con te. Anche perché, se andassi in preda all’ansia, alla tristezza, alla disperazione o alla depressione che può raggiungere in certi periodi dell’anno anche livelli stellari, immagino che dall’altra parte il regista o chi per lui non avrebbe poi così tanta voglia di stare al mio fianco per otto settimane consecutive.

Depressione, una parola che in tanti hanno quasi paura di pronunciare…

Mi fa quasi ridere che abbiano paura a dirla perché di depressione soffriamo tutti o quasi tutti. Io ho messo di averne paura: sono depresso da sempre e lo dico. Prima la vivevo come una condizione che mi innalzava rispetto allo stadio medio della società ma che contemporaneamente mi inorridiva perché, appunto, non se ne poteva parlare apertamente.

Mi vergognavo, ad esempio, dopo aver finito un ciclo intensissimo di psicoanalisi, a dover ricominciare di nuovo perché la vivevo come un fallimento. Ma poi ho capito che la depressione ha a che fare con uno scambio neuronale tra emisfero destro ed emisfero sinistro del cervello, con un certo modo in cui è disegnato il tuo codice genetico e con un certo numero di ormoni presenti in quel momento nel tuo corpo in relazione alla stagione che stai vivendo, al tempo o alla luna.

Mi sono sentito allora deresponsabilizzato: non è solo colpa mia se sono fatto così. Dalla depressione non si guarisce: la terapia non serve a scrivere la parola ‘fine’ come accade con qualsiasi altra malattia ma a conviverci serenamente, a sapere come affrontarla e a come gestire quei momenti neri che, senza la stessa terapia, sarebbero pericolosissimi.

Credo che oggi la depressione sia così diffusa perché non sappiamo più come siamo fatti, cosa proviamo realmente, di cosa ci preoccupiamo, cosa ci interessi e cosa ci emozioni, al di là di ciò che vediamo riflesso sullo schermo degli smartphone e che scrolliamo.

Attore, scrittore, regista, musicista… l’arte ti ha dato più di ciò che ti ha tolto?

Dato. Per una strana coincidenza, ci riflettevo di recente nell’ascoltare Attica, una canzone di Noyz Narcos, uno dei miei rapper preferiti: “Ho dato molto a questa merda e per quanto m'ha tolto non saremo mai alla pari”… Già da ragazzino sognavo di fare lo scrittore e ciò che più per me contava erano i libri e i dischi, per cui avevo la stessa adorazione: uno scrittore per me era pari a una rockstar. Penso di saperne tanto quando mio padre, avvocato che con il suo lavoro ha mantenuto un’intera famiglia, ne sa di Codice civile o di Diritto del lavoro: potremmo parlarne per ore e ore senza mai smettere.

Per certi versi, ero come in attesa di qualcosa che doveva arrivare: anche se non sapevo ancora in che forma, sapevo che sarebbe successo ed ero preparato. E quella cosa lì, la recitazione, mi è arrivata proprio perché seguivo Carlo Virzì in giro con i suoi concerti: gli Snaporaz erano una delle mie band preferite, su 200 date che facevano all’anno io ero presente in 190 attaccando i cavi alle chitarre… fino al giorno in cui suo fratello Paolo è arrivato con una storia che sembrava scritta su di me.

È questa la roba che devo fare e che aspettavo? Probabilmente sì, mi son detto. Ma nel frattempo studiavo e continuavo a frequentare l’università: se non fosse arrivata, so che avrei finito per scrivere. Ma probabilmente avrei impiegato più tempo e fatica a farmi pubblicare ma so che sarebbe arrivato quel momento in cui avrei potuto far confluire quel bagaglio culturale, quella mia creatività e tutto ciò che avevo costruito sin da quando ero ragazzo.

Non sposo quella bugia per cui “se credi e lotti nei tuoi sogni, ce la farai”, messaggio che spesso viene propinato ai giovani di oggi. Ma, nonostante reputi che sia una cattiveria perché ci sono anche giovani che, seppur bravi, talentuosi e convinti dei propri sogni, non ce la fanno per mille motivi diversi, a me è successo. Sia chiaro però che non vendo modelli di vita: non ho niente da insegnare a nessuno.

Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
Corrado Fortuna (Foto: Valentina Glorioso; Press: Biancamano e Spinetti).
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