Cristina D'Avena è la voce che ha accompagnato la nostra infanzia, dando vita alle sigle (oltre 700) dei cartoni animati che ci hanno fatto sognare, crescere e imparare con le loro storie. Intervistarla dopo tanti anni significa anche dar corpo al sogno di quel bambino che, nel vedersi un giorno giornalista, avrebbe voluto lei come primo personaggio con cui confrontarsi. E forse la ragione di molte domande sta propria in quella curiosità che non si è mai sopito.
Inevitabilmente, il nostro incontro si apre con un toccante sguardo sul legame artistico e personale di Cristina D’Avena con Alessandra Valeri Manera, recentemente scomparsa. Cristina ci racconta il loro primo incontro, avvenuto quando lei aveva solo 16 anni e Alessandra 24, un incontro che segnò l'inizio di un'avventura straordinaria nel mondo delle sigle televisive che non ha eguali nel mondo.
"Era un incontro tra ragazze," ricorda Cristina D’Avena. Entrambe giovani, Alessandra stava entrando nella famiglia della televisione commerciale voluta da Silvio Berlusconi, progettando la televisione per ragazzi. Fu proprio Alessandra a individuare in Cristina la voce perfetta per le sigle dei cartoni animati giapponesi, acquistati prima per Canale 5 e poi anche per Italia 1 e Rete 4. Da quel momento, con la sua voce inconfondibile, Cristina iniziò a incidere sigle che sarebbero diventate immortali.
Le sigle dei cartoni animati cantate da Cristina D'Avena non solo dominavano le classifiche dei 45 giri rappresentavano anche un fenomeno culturale. Cristina racconta, però, di non essersi resa conto immediatamente dell'enorme successo delle sue canzoni, continuando a cantare con la stessa passione e leggerezza di quando era nel Piccolo Coro dell'Antoniano.
Il passaggio dai cartoni animati ai telefilm della serie Licia è stato di certo un'altra pietra miliare della carriera di Cristina D’Avena. Licia, la protagonista, divenne un'icona di una generazione, una ragazza bella e dolce che lotta per il suo amore contro ogni ostacolo, simboleggiando una lotta al patriarcato ante litteram. Le mitiche fettine panate di Licia sono ancora oggi un trend sui social, a dimostrazione dell'affetto e della nostalgia del pubblico che guarda al proprio passato con affetto e forse rimpianto.
In questa generosa intervista, Cristina D’Avena ci parla anche del suo essere donna, del legame con la sorella Clarissa (che ha reso possibile l’incontro) e delle sue paure, come quella di volare, che le ha impedito di recarsi in Giappone, la terra d'origine simbolica delle sue sigle. Confessa di essere una persona molto insicura, sempre attenta a non deludere le aspettative del pubblico e quelle della stessa Alessandra. Eppure, forse per placare anche le sue insicurezze, occorre mai dimenticare che Cristina continua a essere un'icona, amata da generazioni di fan senza distinzione alcuna.
Infine, Cristina D’Avena riflette sulla televisione di un tempo, quella in cui poteva sbizzarrirsi tra sigle, telefilm, circhi o buone domeniche pensando ai più piccoli. Esprime il condivisibile desiderio che la TV generalista possa recuperare una programmazione pensata appositamente per bambini e ragazzi, che oggi manca e che con la sua assenza genera smarrimento.
Intervista esclusiva a Cristina D’Avena
La scorsa settimana è scomparsa Alessandra Valeri Maneri, la persona a cui artisticamente eri più legata. Com’è stato il vostro primo incontro?
È stato innanzitutto un incontro tra ragazze. Avevo 16 anni mentre lei 24, ci separavano otto anni ed eravamo entrambe molto giovani. Lei si apprestava a entrare nella famiglia della televisione voluta da Silvio Berlusconi: Mediaset, anche se non si chiamava ancora così, stava progettando la televisione per ragazzi e Alessandra era stata scelta per occuparsi della programmazione che sarebbe stata poi destinata a Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Erano stati acquistati i diritti dei cartoni animati soprattutto giapponesi e si stava cercando una voce femminile che potesse incidere qualche sigla.
Molto legata alla signorina Mariele Ventre, direttrice del Piccolo Coro dell’Antoniano di cui facevo parte da quando avevo tre anni, Alessandra venne a Bologna per cercare una ragazzina che con la sua voce ben si prestasse a quello scopo. Su consiglio del maestro Giordano Bruno Martelli, venni individuata io. Mi convocarono così per due chiacchiere con i vari dirigenti ma da sedicenne di allora, molto diversa dai sedicenni di oggi, non capivo nemmeno cosa stesse succedendo.
Fatto sta che in quell’occasione conobbi Alessandra: si presentò dicendomi che aveva scelto me perché le sembravo una ragazza carina e molto capace stando alle informazioni che aveva avuto dall’Antoniano e da Mariele, che spesso mi voleva come voce solista. E fu così che mi ritrovai ad andare a Milano dal maestro Augusto Martelli, figlio di Giordano Bruno che già aveva composto alcune sigle dei programmi di Canale 5, per incidere la mia prima sigla, Bambino Pinocchio. Doveva rimanere semplicemente un caso isolato, non era scritto da nessuna parte che poi ne avrei interpretate oltre 700.
Come si suol dire, una sigla tira l’altra… Al pubblico era piaciuta moltissimo la mia timbrica, oltre che il mio modo di cantare e di essere. Ragione per cui me ne fecero subito incidere altre. E da lì è iniziato quel percorso che cartone dopo cartone mi ha portata fino a oggi.
Percorso che, spesso si dimentica, faceva sì che le sigle dei cartoni animati finissero in vetta alle classifiche dei 45 giri, come dimostrano anche le vecchie pagine di Tv Sorrisi e Canzoni che girano molto sui social. Cosa provava una bambina, perché tale eri, di fronte a quei numeri?
Non è che me ne rendessi conto più di tanto, in tutta sincerità. Mi ricordo che mi comunicavano i risultati ma, non essendoci i social o tutto ciò che c’è adesso, per me non cambiava molto. Continuavo a cantare come se fossi ancora nel Piccolo Coro, senza aspettative particolari: incidevo le sigle e tornavo a casa, è stata quella la mia vita dei primissimi anni. La consapevolezza è arrivata dopo, non tanto con il disco d’oro rimediato con La canzone dei Puffi (nonostante servissero 500 mila copie vendute per ottenerlo e la felicità di Alessandra), il nostro primo riconoscimento, ma con i dischi di platino per Kiss me Licia. Forse è in quel momento che ho realizzato l’importanza di ciò che stavo facendo e l’impatto che aveva.
Avevi cominciato a cantare da piccolissima: tutti ricordiamo Il valzer del moscerino. Cosa ti portava verso il canto?
La leggerezza e la passione. Canto da quando avevo tre anni, mi piaceva farlo e mi piace tuttora. Mi divertivo, anche se i primi anni cantavo, andavo in sala per incidere e tutto finiva lì. Il divertimento è aumentato quando ho cominciato a girare i telefilm legati a Licia. Kiss Me Licia aveva avuto indici di ascolto molto alti e la gente chiedeva a gran voce di vedere la continuazione della storia di Licia e Mirko. E in questo Alessandra è stata geniale, dando vita a quattro stagioni di una serie tv in live action per cui mi fu chiesto di interpretare la protagonista.
Un ricordo vivo in tutti noi: i telefilm di Licia prima e quelli di Cristina dopo andavano in onda alle 20 su Italia 1 dando filo da torcere a tutte le altre emittenti, ragione per cui l’ultima stagione di Cristina venne spostata alle 19. Eppure, dopo la conclusione di Cristina, l’Europa siamo noi, hai smesso di recitare.
Eh, sì. Ma in quel caso ho sbagliato io, mi sono un po’ impigrita. Mi sono dedicata ovviamente al canto e alle sigle e ho sfruttato poco la recitazione che, in verità, mi sarebbe molto piaciuto approfondire e continuare. Ho qualche piccolo rimpianto a tal proposito: se avessi continuato, probabilmente mi sarebbero arrivate anche proposte che mi avrebbero portato ad altro. È stata colpa mia.
Le due serie tv ti davano la possibilità di incidere quelli che oggi si chiamerebbero concept album grazie alle canzoni che Licia, i Beehive e Cristina con la sua band cantavano. Quei brani avevano testi che si rivolgevano a un pubblico variegato e affrontavano anche temi come il bullismo, il razzismo, il dialogo tra generazioni. Ti dava fastidio continuare a essere definita la cantante delle sigle dei cartoni animati?
Un tempo era un’etichetta che mi pesava molto di più. Adesso, sinceramente, dopo aver cantato in Duets e Duets 2 con quaranta artisti della scena musicale italiana, la soffro di meno e non me lo sento dire più spesso. Ho un po’ sdoganato il pregiudizio, anche perché tutti cantavano le sigle dei cartoni animati, parte effettiva di chi è cresciuto negli anni Ottanta e Novanta.
Annalisa, che oggi è una delle regine delle hit e che ha cantato con me Mila e Shiro, 2 cuori nella pallavolo, ha ad esempio scelto quella canzone perché era la sigla del suo cartone animato che amava guardare da piccola. Stessa ragione per cui Emma Marrone ha scelto Jem o Noemi Una spada per Lady Oscar: ognuno ha voluto la propria sigla del cuore.
Loredana Bertè ha invece scelto Occhi di gatto, una canzone che risuona in tutti i Pride d’Italia. Secondo te, qual è la ragione per cui sei diventata un’icona queer?
Non lo so. O, meglio, so di esserlo ma le ragioni possono essere molteplici. Ci sono nelle sigle tanti elementi che secondo me hanno contribuito, dal testo alla melodia alla storia dei cartoni animati stessi. In Occhi di gatto, Sailor Moon o L’incantevole Creamy ci sono la trasformazione, la bellezza, la femminilità e la lotta per affermare la propria identità ed essere veramente chi si vuole. Con le trasformazioni, ad esempio, le protagoniste potevano sbizzarrirsi come volevano prima di capire chi fossero realmente e ritornare nei loro panni con nuova consapevolezza.
Seguivi quindi anche i cartoni di cui cantavi le sigle?
Non tutti, direi una bugia. Però, i principali lì ho visti tutti: Sailor Moon, Lady Oscar, Kiss me Licia, One Piece, Rossana, Piccoli problemi di cuore…
Quello che ti è rimasto nel cuore?
Kiss me Licia. Ma non solo per quello che ha poi generato ma proprio per la sua protagonista, una ragazza bella e dolce che vive una storia super attuale: si innamora di un cantante rock e fa di tutto per stare con lui, nonostante un padre che glielo impedisce e gliene combina di ogni… un bel simbolo della lotta al patriarcato ante litteram dove alla fine l’amore trionfa sempre: Licia si afferma e si autodetermina finendo con il prendersi anche chi vuole e sposarselo.
Uno dei segreti di Licia erano le mitiche fettine panate, che negli ultimi anni sono trend sui social…
Lo so perché mi arrivano tantissimi video e durante i concerti mi parlano anche delle fettine panate, un particolare che non ricordavo così presente. Sono andata a rivedere su YouTube i vari video postati e, in effetti, fan morire dal ridere anche me: c’hanno ragione (ride, ndr).
E Cristina D’Avena sa preparare le fettine panate?
Assolutamente sì. Ma le so preparare anche alla bolognese: sono ancora più sfiziose e appetitose!
A proposito di social, si tende oggi a vederti finalmente come donna, sessualizzando anche la tua immagine. Perché prima non accadeva?
Perché, appunto, non c’erano i social, che favoriscono l’interazione e i commenti che prima rimanevano limitati. Si appariva solo sui giornali o in televisione, per cui ci si doveva anche documentare. Oggi con i social si è tutti nella dimensione del qui e ora: basta dire una cosa che in un secondo tutti ne sono a conoscenza… è quasi pericoloso.
Ti fanno paura per le ondate di odio che possono scatenarsi dal nulla?
Un po’ spaventano: bisogna saperli usare con molta parsimonia. Se da un lato aiutano ad avvicinarsi al pubblico, dall’altro lato fanno venire meno la tua privacy. Per quanto mi riguarda, cerco di dosarli molto.
E parte dei contenuti video che posti sono girati da tua sorella Clarissa, costantemente con te. Che rapporto avete?
Un rapporto bellissimo, fatto di scontri perché comunque abbiamo due caratteri completamente diversi ma anche di compensazioni reciproche. Clarissa, ad esempio, sul lavoro è molto capace e intuitiva, ed è una persona molto concreta mentre io, da buona Cancro, sono una sognatrice.
L’essere così vicine per lavoro è positivo o fa sì che i dissapori arrivino anche nella sfera privata?
Finora non ci siamo mai pestate i piedi, ognuno fa il suo. E lo si fa con molta intelligenza: da sorelle, basterebbe poco per farci litigare ma cerchiamo di portare avanti il lavoro con molta responsabilità e maturità. Clarissa mi è molto d’aiuto così come io lo sono per lei, che comunque ha anche tutta una sua realtà da ufficio stampa in cui è molto brava.
Conosco la sua bravura: ci ritroviamo a collaborare spesso. Ma non diciamolo a lei, così come non le diciamo quali altre grandi doti ha: l’umiltà e la sincerità. Puoi anche discutere con lei ma l’istante dopo è come se non fosse accaduto nulla.
È una dote che io non ho: riesce a spiattellarti ciò che pensa, rischiando anche. Io, invece, sono molto più diplomatica finendo a volte con il farmi del male da sola. L’umiltà fa parte, secondo me, della nostra educazione familiare: sia io sia mia sorella siamo due persone molto umili perché i nostri genitori ci hanno insegnato ad apprezzare ciò che abbiamo e che la vita ci ha donato. E abbiamo la fortuna di fare un lavoro bellissimo per cui siamo sempre a contatto con il pubblico, siamo sempre in giro e facciamo una vita sociale importante.
È stato facile per i tuoi genitori accettare che il tuo percorso sarebbe stato quello di cantante?
Per mio padre un po’ meno. Avrebbe comunque voluto che mi laureassi, cosa che purtroppo non sono riuscita a fare: mancano gli ultimi esami. Ha poi però capito che il canto era il mio destino: ho iniziato a tre anni e non ho mai smesso.
Come hai ricordato prima, la tua è una vita sempre in viaggio. Ma hai paura dell’aereo…
E infatti sono sempre in macchina ma ho paura e non salgo sugli aerei. Ho provato a vincere la paura, ho anche preso l’aereo ma poi mi è ritornato il blocco, per cui oggi farei molta ma molta fatica a prenderne uno. E, dunque, finché riesco a raggiungere le mie mete in macchina, andrò. Poi, proverò a prendere una decisione.
È una paura che ti ha anche impedito di recarti in Giappone, che possiamo considerare un po’ come la terra delle tue origini simboliche.
Mi hanno anche invitata ma ho gentilmente declinato, vergognandomene anche. Di fronte al mio “no” qualcuno ha pensato che fossi pazza (lo hanno anche detto) ma è più forte di me.
Paura… hai mai avuto paura di tradire le aspettative del tuo pubblico?
Assolutamente sì ma anche le aspettative di Alessandra. Sono una persona molto paurosa, non sono mai molto sicura e, per tale ragione, chiedo sempre agli altri se va bene ciò che sto facendo, se piace o se sono contenti: fa parte del mio carattere.
Abbiamo cominciato l’intervista con un grazie ad Alessandra Valeri Manera. Chi dovrebbe invece dire grazie a Cristina D’Avena?
Per come son fatta io, nessuno. Il grazie più grande da parte mia va ad Alessandra perché è lei che ha creato un mondo così bello e importante che non ha eguali nella storia della musica italiana. Forse io e lei dovremmo ringraziarci a vicenda: piacendo al pubblico, le ho dato la possibilità di continuare a creare questa strada bellissima che abbiamo percorso insieme. Eravamo molto complici e amiche e ci siamo portate fortuna a vicenda: il pubblico è impazzito per me e al contempo per le sue canzoni… ci dobbiamo un grande grazie per tutto questo meraviglioso universo: fa ora parte di noi e noi facciamo parte di esso.
Ti manca la tv di un tempo, quella in cui potevi sbizzarrirti tra sigle, telefilm, circhi o buone domeniche?
Direi una bugia se dicessi di no o che sono fiera di come ormai tutto sia cambiato. Si poteva almeno provare a mantenere una televisione per ragazzi che non fosse solo quella del digitale terrestre o della pay tv: la generalista avrebbe potuto garantire una trasmissione leggera pensata appositamente per bambini o per ragazzi, qualcosa che in questo momento manca e che invece in passato era un punto di riferimento che evitava anche il senso di smarrimento.
Personalmente, ci sono rimasto malissimo quando di recente ho visto cancellato l’ultimo baluardo di resistenza su Italia 1: la fascia Latte e cartoni.
Mi auguro che venga ripristinata durante l’autunno e che sia solo una pausa estiva, dettata dal fatto che i bambini e i ragazzi d’estate non si alzano così presto per andare a scuola. Anche perché rappresenta un modo per recuperare cartoni meravigliosi che al pubblico di oggi potrebbero piacere molto, come Hilary, Evelyn e la magia di un sogno d’amore o Sandy dai mille colori.