I dada sutra hanno pubblicato lo scorso giugno il loro disco di debutto, EP1 (Artist First). E cercare di etichettare la loro musica o la loro personalità è pressoché impossibile: sono uno dei progetti più unici e meno collocabili della scena indipendente italiana. Quello dei dada sutra è un mix unico di generi ed influenze che svelano l’universo alieno e distopico di Caterina Dolci, cantautrice milanese con alle spalle già un solido percorso.
I dada sutra propongono un universo musicale a prima vista insondabile e indecifrabile in cui la creatività di Caterina si incontra con quella del pianista Vincenzo Parisi, del batterista e produttore Giacomo Carlone e della chitarrista e artista multimediale Cristiana Palandrai. Tutti hanno un passato che non è passato inosservato alla critica italiana e ancora meno agli ascoltatori più attenti. In EP1 hanno unito le loro forze per dare ai dada sutra sonorità post-punk che sposano atmosfere oniriche, arricchite dal contributo del percussionista Lorenzo D’Erasmo.
Caterina Dolci si è fatta per noi portavoce dei dada sutra per un’inedita intervista esclusiva nel segno della sincerità. Ha svelato gran parte del mondo della band ma ha soprattutto svelato se stessa. Ci ha parlato di come nascono le canzoni ma ha affrontato anche il ricordo di un’esperienza tuttora irrisolta. Ci ha raccontato le influenze letterarie di EP1 ma ha anche ricordato gli scontri con la famiglia che voleva per lei un percorso più “canonico”. E ci ha mostrato come anche in Italia si possa essere giovani donne libere, indipendenti e fortemente determinate.
Intervista esclusiva a Caterina Dolci (Dada Sutra)
Cos’è EP1?
Sono quattro canzoni che sono nate insieme dalla collaborazione tra me e il resto dei dada sutra. I pezzi li ho scritti io con la collaborazione di Vincenzo Parisi, il mio pianista, mentre gli arrangiamenti sono stati curati da noi due con Giacomo Carlone, il nostro batterista. Si tratta di quattro brani che, messi insieme, raccontano una storia e restituiscono l’immagine di un mondo molto distopico e malato. Ciò che ne viene fuori è molto cupo e apparentemente negativo. Però, per me è stato importante scrivere quelle canzoni in quel periodo: hanno un valore molto positivo.
Strano e distopico sono i due aggettivi che saltano alla mente sin dal primo ascolto. Sono stato colpito in particolar modo da leatherman, la traccia che chiude l’EP. Mi ha inquietato perché potrebbe essere una metafora per tutte quelle voci che si presentano alla nostra testa inducendoci ad assumere comportamenti che possono portare a conseguenze anche pericolose. Ho pensato, e forse non è un caso, alla voce che sentono in testa tutte le persone che soffrono di anoressia. La chiamano la “bestia” e non l’alieno.
Per me non è la canzone più negativa. Il testo è basato su un romanzo della scrittrice Chris Klaus, Aliens & Anorexia, in cui racconta un film che ha girato, Gravity & Grace. Protagonista è una donna che comincia a sentire delle voci di quello che capisce essere un alieno. L’alieno le dice che verrà a prendere lei e un gruppo di eletti per portarli su un altro pianeta perché la Terra sta per essere distrutta. La donna allora si organizza per la partenza e comincia ad aspettare l’avvento dell’alieno, che però non si concretizza.
In un’intervista di qualche tempo fa, hai dichiarato che la musica per te è una zona autonoma temporanea. Ce ne spieghi meglio il significato?
È un concetto di cui ha parlato nel libro omonimo Hakim Bey. Parla di tutte quelle situazioni che si possono creare nel nostro mondo di anarchia e di luoghi, per l’appunto, autonomi: delle specie di fortezze in cui vigono delle leggi interne che non corrispondono a quelle dello Stato. Queste zone temporaneamente autonome possono essere molto piccole come una camera da letto o molto più grandi come una comune.
Per me e Vincenzo la musica ha rappresentato una zona autonoma temporanea, un modo per trovarci insieme e uscire da un percorso familiare che, scelto dai genitori per noi, non volevamo fare. Ci siamo trovati e abbiamo deciso che non avremmo seguito le regole che volevano darci, anzi… abbiamo stabilito noi delle nuove regole ed è stato molto bello. Penso che si senta nelle canzoni: abbiamo voluto trovare la nostra direzione e uscire da schemi che non ci appartenevano.
Come ti avrebbero voluta i tuoi genitori?
Loro sono due fisici. Avrebbero voluto che facessi qualcosa di più "serio" nella vita. Tipo ingegneria, medicina o cose del genere. Ed è quello che ho fatto per un lungo periodo: ho studiato architettura, trovando una via di mezzo per accontentare sia loro sia me. Ma poi ho smesso: non era qualcosa che volevo realmente io. Non ho scelto sempre liberamente cosa fare: ho avuto una famiglia molto presente che ha cercato continuamente di indirizzarmi verso scelte non mie. E lo stesso è capitato a Vincenzo, che ha studiato economia: abbiamo avuto un percorso molto simile e distante dalla musica che invece ci aspettava.
Quando è stato il momento in cui hai detto: “no, non sarò architetto ma musicista”?
Non c’è stato un momento preciso. È stato semmai frutto di un lungo periodo in cui ho cominciato pian piano ad allontanarmi da come mi volevano e a concentrarmi maggiormente sulla musica. Non c’è mai stata una rottura forte ma un allontanamento progressivo che mi ha portata anche a un confronto molto forte con mia madre. L’ho mandata praticamente a quel paese, non sopportavo che continuasse a dirmi cosa dovevo fare nella mia vita. Fortunatamente, oggi è tutto molto più sereno.
Possono cambiare le generazioni ma i problemi che si vivono sono sempre gli stessi: la dicotomia genitori/figli è qualcosa di cui non si può fare a meno. L’importante è però far valere la propria autodeterminazione. E ancor prima dei dada sutra ti sei fatta conoscere come Sandra Vesely. Si tratta di due esperienze musicali differenti o di un’evoluzione? Cosa ti ha portato ad abbandonare quel progetto per abbracciarne uno nuovo?
Scherzando, dico sempre che ho abbandonato Sandra Vesely perché nessuno si ricordava come si scrivesse. L’esperienza dei dada sutra è partita dallo stesso percorso, anche se è frutto di un periodo della mia vita di ripensamenti su quello che facevo e sulla mia identità. I dada sutra sono stati però un modo per non essere legata alla figura di cantautrice al femminile: non perché non appartenga al genere ma per evitare di essere immediatamente classificata.
Immagino sia legato anche al fatto che le cantautrici vengono sempre considerate “inferiori” rispetto ai colleghi uomini. Paradossalmente, si fa fatica a dare credibilità alle cantautrici come se fosse un lavoro riservato solo ai maschi, dimenticando che si tratta sempre e solo di una questione di cultura, sensibilità e formazione.
In parte sì. Ma era anche per evitare quella discriminazione, molto presente in Italia, per cui la musica al femminile viene sminuita. Mi dà molto fastidio perché è come se fosse una categoria a parte, minore. Non esiste una musica al maschile: perché allora dovrebbe esistere una musica al femminile?
Spesso, quando si parla di musica al femminile, lo si fa come se fosse solo una questione di sole, cuore e amore. Come se esistesse solo la declinazione romantica, dimenticando che sono esistite, esistono ed esisteranno cantautrici che nelle loro canzoni affrontano tematiche sociali, civili e politiche. È frutto dell’ignoranza, no?
La discriminazione è sempre ignoranza. E viviamo in un tempo in cui l’ignoranza la fa da padroni, in ogni ambito.
EP1, come dicevamo prima, è formato da quattro brani. Il primo è bigboy. Il testo della canzone affronta un argomento molto delicato come la violenza sessuale. Quanto è importante affrontare la tematica in un Paese come il nostro in cui vige ancora la cultura dello stupro, come ci dimostra la cronaca? Non è così comune che in una canzone si parli di abuso o di violenza sessuale.
È qualcosa di non si parla mai abbastanza, come non si parla mai dell’importanza della denuncia, su cui andrebbe fatto un discorso a parte. Spesso le donne sono frenate e non denunciano perché hanno già che verranno colpevolizzate. Se hai subito uno stupro è perché hai fatto qualcosa di sbagliato, te lo sei meritato: è questo quello che si sentiranno dire.
L’abuso o la violenza sessuale non è presente solo nei casi di cronaca nera. Il corpo delle donne viene strumentalizzato in ogni ambito della società, dalle pubblicità ai film, ma anche dalla stessa dualità tra maschile e femminile: la donna è l’oggetto mentre l’uomo è colui che detiene il potere. Non ho mai vissuto un’esperienza traumatica come quella raccontata nella canzone ma vivo lo “stupro” tutti i giorni, così come lo vive ogni donna sulla sua pelle. È una delle malattie che annientano la nostra società.
E nella canzone se ne parla anche con un linguaggio abbastanza diretto, senza nascondersi dietro tante metafore. E si fa riferimento anche a un’altra piaga dei nostri tempi: la droga dello stupro.
In questo caso, si parla di uno spiacevole episodio legato a una mia esperienza personale. Qualche tempo fa, una sera, avevo già bevuto dell’alcol che aveva avuto un primo impatto su di me quando ho bevuto dal cocktail di uno sconosciuto. E non ricordo più nulla di quello che è accaduto dopo: ho ricordo niente di un tot di ore. So solo che mi sono risvegliata in ospedale, coperta di graffi e di lividi, senza avere alcuna idea di cosa sia successo.
Potrei essere andata semplicemente in coma etilico o potrebbe essermi accaduto anche altro. Potrebbero avermi fatto assumere droga dello stupro e, a questo punto, non voglio sapere cosa è stato nei momenti successivi. Non ricordo un’esperienza traumatica solo perché non ricordo niente: il dubbio non mi fa proprio sentir bene e in pace con il mondo. Non perché mi colpevolizzi ma perché sento di avere qualcosa che per me è irrisolta e poco chiara. Lo trovo non pacifico.
Trovo veramente irritante che noi donne dobbiamo farci questi problemi: anche bevo troppo, non dovrei avere paura che dopo possa accadermi qualcosa. Nessun uomo si pone questi problemi. E ciò la dice lunga sulla disparità di genere che viviamo nelle piccole o grandi cose.
Da panopticon, altra canzone di EP1, emerge un ulteriore quadro distopico: non puoi nasconderti.
È forse la canzone che la connotazione più negativa di tutto l’EP. Ha dentro echi di Orwell e di Huxley, in un primo momento doveva anche intitolarsi la Ballata della Sorveglianza Continua. Nasce da tantissime esperienze personali. Parla di un mondo in cui si è costantemente sorvegliati e non si è liberi di scegliere cosa fare, chi vedere, chi frequentare, dove andare o con chi sc**are. Un mondo in cui non siamo liberi di fare le scelte che facciamo.
È sì distopico ma se ci pensiamo il luogo che racconta è molto simile a quello in cui viviamo, in cui siamo continuamente bombardati di pubblicità “controllate” e studiate quasi ad personam, soprattutto su internet. Rispetto alle altre canzoni, panopticon è quella che lascia meno vie di fuga: le altre hanno più apertura. Non ci vedo salvezza e, proprio per tale ragione, non ho voluto metterla come ultima traccia. Mi spaventa questo mondo così restrittivo.
L’ultima canzone che compone l’album, di cui non abbiamo ancora parlato, è do you still have those pills, che dura quasi sette minuti. A cosa servirebbero le pillole? A placare quella sensazione di ansia continua che abbiamo nei confronti del mondo?
La canzone nasce da un mio problema personale: soffro un po’ di insonnia. Racconta di quel momento in cui ti svegli alle quattro di notte e cominci a pensare a tutto quello che nella vita ti crea ansia. È un orario per me davvero terribile perché non riesco né a riprendere sonno né a far nient’altro. Comincio quindi ad avere pensieri che mi frullano per la testa e a provare un’ansia crescente.
È una di quelle canzoni per cui non ho scritto prima il testo ma la musica. Avevo in mente una melodia che mi ricordava un po’ un canto popolare: sembrava antica, vecchia. E ho scritto il testo a partire da quella. La canzone è anche stata registrata tutta in presa diretta in studio: tutto ciò che si sente è stato suonato una volta sola.
Perché senti l’esigenza di scrivere in inglese e non in italiano?
In questo periodo sto scrivendo in italiano. Quando ho cominciato a scrivere canzoni per me è stato più facile farlo in inglese per una questione di sonorità: ho sempre ascoltato musica in inglese. La sillabazione è differente e le parole hanno un suono diverso e si inseriscono bene in quel tipo di musica che volevo fare. La lingua italiana è invece più difficile da gestire, anche perché tutte le parole sono piane e sono lunghe. È più difficile esprimere i concetti con poche parole.
Sei milanese. Com’è cambiata la scena musicale della città dopo i due anni legati alla pandemia?
Anche se c’è una ripresa del settore musicale, non è facile. Alcuni posti hanno ad esempio chiuso mentre altri stanno facendo molta fatica a ripartire e non hanno cominciato a far concerti come prima. C’è però molta voglia di fare e, soprattutto, di sentire musica. Noi abbiamo in programma qualche live e la partecipazione al Moka Festival di Monfalcone.
Da chi è realizzata la copertina di EP1? La trovo una perfetta sintesi sia del vostro nome sia della vostra musica.
È un mio prodotto. Quello in copertina è il bigboy dell’omonima canzone. Ha la faccia coperta perché è qualcosa di mostruoso e grottesco.
Pensavo fosse una Venere nera.
No, se guardi bene, ha un pene disegnato. Diciamo che è una Venere al maschile, mi piace questa definizione!
Cosa ti aspetti da EP1?
Non ho delle chiare aspettative. Mi aspetto di fare semmai un percorso di ricerca molto personale. Voglio riuscire a guadagnare con la musica e mantenermi, è ovvio. Ma non ho al momento la pretesa di arrivare chissà dove o chissà con quale fretta. Per me, la musica è qualcosa di molto bello su cui lavorare, è la mia zona autonoma temporanea e voglio continuare a mantenerla, a nutrirla.
Spero che EP1 permetta a chi lo ascolta di vedere qualcosa che altre cose non permettono di fare. Come dice la mia psicoterapeuta, non posso piacere a tutti: sono troppo sincera e fuori dagli schemi per piacere alla massa. Ma mi auguro di dare all’ascoltatore un pezzo di verità che non trova altrove.