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Daniele De Gregori: “Ho migliorato la mia vita quando l’ho messa nelle mani degli altri” – Intervista esclusiva

Daniele De Gregori
Cura è il nuovo album di Daniele De Gregori. Incentrato sul concetto di abbandono, l’album permette al cantautore romano di riflettere sulla sua vita e sul modo in cui è diventata migliore da quando ha imparato ad accettare l’aiuto e l’amore altrui. Lo abbiamo intervistato in esclusiva.
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Daniele De Gregori ha di recente pubblicato il suo nuovo album, Cura (Goodfellas). Composto da otto tracce, di cui sette inediti e una cover (Il re del mondo di Franco Battiato), Cura permette a Daniele De Gregori di confrontarsi con il tema dell’abbandono visto sotto una triplice prospettiva: l’abbandono (faticoso) di una parte di sé, quella che si considera peggiore; l’abbandono doloroso e necessario di un affetto; e l’abbandono dolce all’altro, quello che porta a consegnare la propria vita nelle mani di qualcuno che si ama per vedersela restituire migliore.

È un uomo migliore oggi Daniele De Gregori lo è. La sua trasformazione è avvenuta per passi graduali ma mai solitari. Nessuno si salva da solo, sottolinea anche nel corso di quest’intervista in esclusiva. E nel suo caso è più che vero: a tendergli il proprio sostegno sono stati gli amici, in un momento in cui avrebbe voluto mollare persino i suoi sogni per eccessiva autocritica, ma anche l’amore, quell’Eleonora a cui dedica anche una canzone del disco.

Ma sono diversi gli argomenti e gli spunti di riflessione, con semplicità e umiltà, Daniele De Gregori lancia nel corso della nostra conversazione, consapevole di quanto l’ascolto e lo scambio siano fondamentali per l’essere umano in generale. E di esseri umani ne ho incontrati tanti nel suo percorso: dopo una laurea in Dietistica, un lavoro per un paio d’anni come nutrizionista e un altro come segretario (il più sofferto della sua vita), Daniele De Gregori per dieci anni ha esercitato la professione di tassista a Roma. Scriveva le sue canzoni tra un cliente e l’altro imparando nel frattempo come relazionarsi all’altro in una manciata di secondi.

Daniele De Gregori.
Daniele De Gregori.

Intervista esclusiva a Daniele De Gregori

“Né l’uno né l’altro”, mi risponde Daniele De Gregori quando gli chiedo se il cognome che porta è stato un fardello o se l’ha in qualche modo avvantaggiato. “Ogni tanto qualcuno mi fa qualche battuta ma non ha spostato nulla nel mio percorso. Ma se mi paragonassero a qualcun altro non sarebbe un bene: l’ansia da prestazione salirebbe a mille”.

E per guarire dall’ansia da prestazione servirebbe un’ottima cura… E Cura è il titolo del tuo ultimo album: tutti ne cercano una ma la ricerca o salva o allontana in qualche modo da se stessi. Tu ti sei salvato o ti sei allontanato?

Il salvataggio è ancora in atto, non è un processo finito. Io mi sono allontanato da me stesso o, meglio, dalle parti di me stesso che non erano più adeguate e opportune. La vita, a volte, ti mette di fronte ad alcuni accadimenti che ti scuotono così tanto da farti riconoscere un po’ allo specchio quando invece prima allo specchio non ti vedevi. Prendersi cura si sé è anche allontanarsi un po’ da se stessi, dal sé che non stava bene o che faceva star mal qualcun altro. Ma vuol dire anche non volersi troppo giustificare: abbiamo tutti la tendenza a farlo ma non sempre è un bene.

L’album è composto da sette brani inediti e da una cover di Battiato (Il re del mondo) che parlano di varie sfumature di allontanamento e abbandono. Tra questi spicca in particolar modo Luglio e Milano. Cos’è successo a luglio a Milano?

Sono delle coordinate spazio-temporali ben precise. Nella canzone racconto di una mia esperienza accaduta il 18 luglio 2020 a Milano, quando ho avuto la gioia di vincere un festival molto importante, L’Artista che non c’era, di cui quest’anno cade il ventennale e che è molto apprezzato dagli addetti ai lavori. Non solo non avevo mai partecipato prima ma mi ero iscritto sulla spinta dei musicisti che lavorano con me in un momento in cui non stavo producendo più nulla e pensavo di non doverlo più fare: non avevo ancora abbandonato l’attività di cantautore ma ero in procinto di farlo.

I musicisti avevano prodotto con me un paio di brani diversi da quelli realizzati in passato e mi avevano spinto così tanto a crederci da iscrivermi al festival. Man mano che passavo le varie selezioni, dai quarti di finale in poi, mi sembrava incredibile che stesse accadendo tutto ciò. Alla fine, noi quattro, un’allegra combriccola di outsider, abbiamo vinto: quasi una favola da film americano. Ed è la sera della vittoria che ho scoperto la bellezza dell’essere aiutati.

Non ho mai amato l’uomo che si fa da sé: farsi da soli è possibile ma è veramente utile? Io ho migliorato la mia vita quando l’ho messa nelle mani degli altri per vedere cosa ne usciva o ne tornava. Ed è questo il senso anche del mio album, un invito a essere presi un po’ meno da se stessi e a mettere la nostra vita nelle mani degli altri e viceversa far sì che gli altri mettano la propria nelle nostre.

Sostengo da sempre che il mito del self made man è pericoloso: potrebbe trasformarci tutti nel signor Burns dei Simpson, isolati dal mondo intero.

Esatto. Noi siamo esseri collettivi e sociali. Che ci stiamo a fare se non mettiamo a frutto questa nostra caratteristica intrinseca dell’essere umano? Non siamo fatti per starcene per conto proprio a vantarci dei nostri pregi. Chi lo fa magari riesce a realizzare ciò che vuole ma non quello il focus della nostra esistenza. Il vero obiettivo è lo scambio.

Cosa ti aveva portato a pensare di smettere con la musica?

Tanti elementi. Innanzitutto, facevo contemporaneamente un altro mestiere e quindi non riuscivo a dedicare abbastanza tempo (o, meglio, ci riuscivo ma non ero fresco a sufficienza) alla musica, ragione per cui mi sentivo fuori dal giro della musica indipendente. Non mi sentivo né all’altezza né apprezzato e non mi sembrava il caso di continuare a insistere oltremodo: non sono uno di quelli che si impunta fino alla fine per farsi piacere. Semplicemente, pensavo che non fosse andata e che non avessi trovato il linguaggio giusto: il successo è fatto di tante variabili e si deve avere la fortuna di corrispondere a quelle variabili nel momento in cui vengono richieste.

E, invece, qualcosa poi è migliorato perché io sono cambiato: sono io che ho cambiato le variabili e queste funzionavano di più. Ma non ho fatto tutto da solo: non c’è stato un giorno in cui guardandomi allo specchio ho avuto l’illuminazione su cosa fare. Sono stato aiutato: nessuno si salva da solo.

Per salvarti hai dovuto abbandonare una parte di te stesso. Non è stato come un trasloco dell’anima?

Eh, sì, assolutamente. Ed è avvenuto nello stesso periodo in cui ho anche attuato dei traslochi reali. La canzone Qualcosa di me, una delle tracce dell’album, è stata scritta in mezzo agli scatoloni di un trasloco da una casa all’altra. Ma ci sono state anche delle vicende della mia vita che mi hanno scosso e sono state molto forti nel biennio 2021-2023: non ho solo cambiato casa ma anche lavoro e un po’ di me, ho perso delle persone e ne ho guadagnate altre. È stato un periodo di enorme transizione che, rivedendolo a posteriori, sono riuscito a lasciarmi alle spalle. La realizzazione di Cura mi è servita anche a fissare quel momento di totale cambiamento di cui adesso comincio a tirare le somme: se sia andata bene devo ancora capirlo.

Qual è stato lo scatolone più difficile da lasciarsi dietro?

Sicuramente quello dentro cui mi rifugiavo facendo altri mestieri. Mi ci rifugiavo come scusa per non riuscire a fare le cose, che poi è quello che succede a tutti per molti altri aspetti dell’esistenza: sminuiamo un fallimento dicendoci che è colpa di qualcos’altro che abbiamo fatto nel frattempo e che non ci ha lasciato tempo. A un certo punto ho realizzato che dovevo uscire dallo scatolone ed espormi: se devo fallire, fallirò mettendocela tutta. Non è stato facile abbandonare lo scatolone delle scuse…

Lasciarlo andare significa anche crescere e accettare il peso del senso di responsabilità.

È un altro modo di affrontare le responsabilità, i propri fallimenti passati o quelli potenzialmente futuri senza addossarli a qualcun altro. Ed io ci sto provando.

Daniele De Gregori.
Daniele De Gregori.

La prima traccia di Cura, Le case mangiate dal sale, suona tristemente attuale in questi giorni davanti alle immagini che arrivano dall’alluvione in Emilia-Romagna. Cosa ti spinge ad avere nella vita in generale così tanta attenzione alla sfera ecologica sin dai tempi in cui Greta Thunberg forse non era ancora nata?

Lo scopo non era quello di fare attivismo perché non credo di poterlo fare. L’attivismo si fa in maniera, appunto, attiva: lo dice la parola stessa. Quindi, non sento una persona che fa qualcosa in merito e non mi sento tanto migliore di qualcun altro. La canzone è semplicemente figlia dell’esigenza di raccontare una sensazione di straniamento che ho sulla percezione delle nostre vite mentre è in atto una trasformazione climatica che non ha precedenti o, se ce li ha, di cui non abbiamo contezza.

Probabilmente, la trasformazione avrà un impatto devastante nei confronti dell’umanità intera, sarà una specie di Armageddon, dolce ma comunque Armageddon. Lo sappiamo, ne siamo consapevoli ma andiamo ugualmente avanti con le nostre vite quasi eliminando tale pensiero. Psicologicamente, è come se ci fosse la rimozione di un dolore o di un brutto ricordo: lo facciamo ma non perché siamo persone malvagie o poco sensibili al tema.

Di conseguenza, continuiamo a guardare le partite, a disperarci, a innamorarci o a passeggiare mentre il mondo lentamente sfiorisce, i ghiacciai si sciolgono e le acque degli oceani si innalzano. È qualcosa che da sempre mi affascina ma che al contempo mi angoscia: sta accadendo la cosa più importante che dovrebbe mettere da parte tutto il resto ma non la consideriamo come una nostra priorità. Ci spaventa e, dunque, è meglio rimuoverla, relegarla alla penultima notizia nei tg o parlarne con gli amici qualche volta a tavola, ma non è così che dovrebbe essere.

Al di là della fascinazione e dell’angoscia per l’imminenza della fine del mondo, cos’è che ti fa paura come uomo?

Mi fa paura non realizzare me stesso e, quindi, girare a vuoto e perdere tempo in cose che non mi rendono più felice. La mia paura è dover dire al me stesso anziano di non aver fatto quello che avrei dovuto, quel qualcosa che mi realizzasse. Il mio timore è quello di sbagliare strada e prenderne una che non porta da nessuna parte.

Potresti sempre dire che è stata un’esperienza di vita, per citare l’argomento della tua Sempre la stessa canzone.

Non lo direi mai. L’esperienza di vita è un po’ l’auto-scusa che tutti adduciamo per giustificare un errore. Non è del tutto falsa e non condanno questo modo di assolversi: è però pericoloso derubricare sotto la voce “esperienza di vita” ogni nefandezza che abbiamo scelto di mettere in atto nella vita. Ogni cosa è un’esperienza ma non è detto che vada sperimentata per forza. Gli errori rimangono tali: anche buttarsi dalla finestra è un’esperienza però eviterei di farla. Cerco per questo motivo di non dimenticarmi dei miei errori: la mia vita sarebbe stata migliore senza.

Daniele De Gregori.
Daniele De Gregori.

Qual è l’errore che hai fatto più fatica a perdonarti?

Quello di non essere stato abbastanza buono. Per bontà intendo un certo tipo di idea progressista della vita e anche altruista. Non so spiegarlo bene a parole ma in passato sono stato un po’ troppo arrabbiato e non così sensibile nei confronti degli altri. Sono stato troppo egoista e ho sentito poco il senso della società: di ciò mi dispiace e mi vergogno anche.

L’importante è capire dove si commette l’errore e correggere la rotta. E, alla luce del tuo impegno sociale di oggi e la tua sensibilità anche nei confronti della D&I, mi sembra che tu l’abbia corretta.

I miei vari impegni fanno parte tutti dello stesso cassetto: l’attenzione verso l’altro e verso un futuro aperto alle esigenze di tutti, compresi quelli che chiamano minoranze. Non che prima fossi una cattiva persona ma mi curavo meno di ciò, non pensavo a chi stesse peggio di me. Poi ho capito che non ci sarebbe stato nessuno a farlo al posto mio. Come tanti, avevo dimenticato di essere un maschio bianco etero in Occidente e in quanto tale di appartenere a una delle categorie più privilegiate che siamo mai comparse su questo pianeta.

Ha contribuito al cambiamento il tuo incontro con Eleonora (Maggioni), a cui dedichi una canzone del disco?

Senz’altro: credo che in qualche modo essere amati e imparare ad amare non possa far altro che aprire le antenne di una persona, trasformandola in un fiore che sboccia e che è più ricettivo ai raggi solari. Si è più sensibili quando si ama, l’amore è chiaramente curativo.

Eleonora è una canzone che hai scritto per il giorno del vostro matrimonio ma che non era mai stata incisa o pubblicata. Hai deciso di farlo però ora. Come mai?

Era una canzone che nasceva come privata e che tale è rimasta per molto tempo. Non era stata scritta con i crismi di una canzone vera e propria e l’avevo eseguita pubblicamente solo un paio di volte. In una di queste rare circostanze, a Genova per l’esattezza, ero riuscito a registrarla durante un concerto. A spingermi a pubblicarla sono state le parole di una persona a me molto cara che, nel sentire la registrazione, mi ha ringraziato e detto che era bellissima. E sono molto contento di averlo fatto, anche se sono state le ultime parole che quella persona mi detto.

È qualcosa che mi ha colpito molto: è stato il mio ultimo gesto fatto nei suoi confronti e ho capito che la canzone era ancora più importante di quanto già non sapessi tanto da renderla un singolo. Un singolo che ha anche avuto un successo inaspettato e che mi ha stupito: per come era scritta non pensavo potesse piacere così tanto alla gente. A oggi credo che sia la mia canzone più amata in assoluto, senza che la gente conosca l’aneddoto che ci sta dietro. Quindi, boh, chissà…

Il video è stato girato da Eleonora stessa.

Sì, è una videomaker. Per realizzarlo, siamo tornati nella casa dove è cresciuta… il videoclip è proprio un tributo alla sua storia.

Nel parlare della persona che oggi non c’è più (che nello specifico è la mamma di Eleonora) arriviamo anche a un’altra traccia di Cura: Nebraska. Parla dell’abbandono senza più ritorno, quello definitivo. Come si impara a ridere diversamente dopo?

Non si impara, si fa. Credo che non si possa imparare ma a un certo punto deve accadere per forza: l’ho visto accadere intorno a me e ho capito che prima o poi sarebbe successo anche a me, nonostante sembrasse impossibile in quel momento. In quegli attimi sembra assurdo che tu un giorno possa tornare a essere divertito di qualunque cosa e, invece, la vita ti porta lo stesso a quel punto: è una magia… ridi ma lo fai diversamente: non è peggiore ma è diverso perché hai un carico diverso addosso, sei un’altra persona e hai una cicatrice che prima non avevi.

È il senso della vita stessa, che deve proiettarsi al futuro.

Non riesco a immaginare un futuro che in questo momento non ho. Non vado mai così lontano con l’immaginazione. Il futuro è un mostro che a volte mi spaventa: non lo conosco ma ci andiamo incontro perché è l’unica strada possibile, l’unica direzione. Stiamo tutti su una freccia che va in una direzione e scopriamo, solo dopo averla raggiunta, quello che eravamo. È anche il motivo per cui si scrivono le canzoni: ricordarsi quello che siamo stati. A volte le sole foto non bastano per farlo: le foto non parlano e i video parlano troppo. Le canzoni, invece, mi sembra che siano un bel testamento che lascio di me stesso in alcuni momenti della mia vita.

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Le canzoni possono fare da sfondo anche a un viaggio in macchina. Ne canti in Cruise Control e so che sono una delle passioni che condividi con Eleonora.

Quando viaggio in macchina non da solo mi abbandono alla leggerezza: non sono mai ascolti profondissimi ma leggeri, che mi divertono.

Qual è uno dei viaggi che ricordi con maggior piacere?

Ne ho fatti talmente tanti che non saprei rispondere. Ne ho fatto però uno bello quest’anno andando a Faenza con Eleonora, il mio chitarrista e un’amica. È stato un viaggio particolarmente felice perché poi a Faenza ho anche vinto un premio, che ha contribuito ad aiutare la gioia del viaggio di ritorno. Ma cantavamo anche all’andata, forse un po’ scioccamente direi oggi… sono arrivato in teatro senza voce per aver cantato troppo durante il viaggio: non avevo pensato alle conseguenze!

Quanti anni avevi quando hai cominciato a vivere di musica?

Più o meno all’università, nel periodo post liceo. Al liceo facevo musica per gioco e probabilmente per avere una legittimazione sociale mentre all’università, grazie ai primi riscontri reali, ho capito che avrei dovuto scrivere canzoni a prescindere dalla loro esposizione. Da quel momento, ho cominciato a vivere di musica: la mia realizzazione è dentro una canzone.

Che intendi per legittimazione sociale al liceo?

Ero un ragazzo abbastanza invisibile. È una condizione che tendo ad adottare: se non sto a mio agio in un posto, mi fingo morto. L’ho fatto per anni ma la musica si è rivelata un potente antidoto: mi riportava a un posto adeguato mentre io non trovavo posto. La musica mi ha dato una mano in quel momento: è stata come un amico che si è presentato in un momento fatidico e a cui sei riconoscente per sempre. Con la musica ho un debito che continuo a onorare scrivendo canzoni.

Nel mondo dei fumetti, l’invisibilità potrebbe essere un superpotere…

Per me il superpotere è stato imparare a suonare la chitarra. La prima volta che ho sentito che la chitarra faceva le cose che io volevo che facesse mi sono sentito come Spiderman che lancia le sue ragnatele.

Daniele De Gregori.
Daniele De Gregori.
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