I 400 giorni – Funamboli e Maestri è il film che, prodotto da Daniele Orazi e dalla sua Do Cinema, sarà presentato al Torino Film Festival fuori concorso. Si tratta nella fattispecie di un documentario, un road trip accompagnato da numerose voci del panorama cinematografico italiano, che diventa mappa universale per l’attore emergente e per il suo lavoro.
Agente cinematografico tra i più influenti in Italia, Daniele Orazi è specializzato nel management artistico rivolto ad attori, registi e sceneggiatori. Da ben 33 anni, è l’artefice e il consolidatore di numerose carriere di artisti del panorama cinematografico non solo italiano ma anche internazionale. La lista di nomi che segue con la sua DO Cinema è praticamente infinita, andando da Monica Bellucci a Stefania Sandrelli, da Valeria Bruni Tedeschi a Luca Marinelli. Elencarli è praticamente impossibile perché si rischia di far torto a qualcuno.
Tuttavia, di Daniele Orazi colpisce la sua determinazione nell’attività di scouting: è sempre alla ricerca della prossima star da lanciare nel gotha dello show business. E questa sua sete di ricerca si concentra soprattutto sui giovani, a cui è dedicato proprio il film I 400 giorni – Funamboli e Maestri, diretto da Emanuele Napolitano (meglio conosciuto come Druid, artefice anche del poster del film) ed Emanuele Sana e scritto da Vittoria Spaccapietra e Daniele Orazi stesso.
Il documentario racconta un vero e proprio casting on the road, durato un anno, che ha toccato le maggiori città italiane alla ricerca del talento e che ha individuato in 24 aspiranti attori un vivaio di talenti emergenti under 30 molto interessante. Un esperimento che include filmati e testimonianze dell’Archivio storico Istituto Luce e della Cineteca di Bologna, e che punta a misurare la crescita del talent non solo dal punto di vista professionale, ma anche, e soprattutto, personale. Una carrellata di molteplici voci del panorama cinematografico italiano e internazionale accompagna questo bellissimo viaggio: Anna Foglietta, Giacomo Gianniotti, Silvia D’Amico, Damiano Michieletto, Massimiliano Caiazzo, Claudio Amendola, Stefania Sandrelli, Alessandro Piavani, Luca Marinelli, Paolo Genovese, Lorenzo Richelmy e Francesco Scianna.
Partendo dal documentario, abbiamo voluto approfondire con Daniele Orazi in cosa consista prima di tutto il talento ma poi anche la sua professione, sdoganata tra l’altro negli ultimi tempi da una serie tv molto apprezzata, Call My Agent. Scopriamo ad esempio così che quello di Daniele Orazi, anche formatore e docente di un corso per la UniMarconi, è un lavoro molto complicato, psicologico e diplomatico, fatto di costante ascolto e confronto, segnato di successi ma anche di fallimenti, propenso al continuo studio e formazione, e incredibilmente affascinante.
Intervista esclusiva a Daniele Orazi
“Ogni sei mesi scrivo una lettera ai 24 giovani che ho scelto. Spiego l’oro che essere ambiziosi non vuol dire perdere l’umiltà: si può essere umili e ambiziosi al tempo stesso”, ci racconta subito Daniele Orazi nel mettere in evidenza cosa intende quando parla di rapporti personali con i propri clienti o assistiti, come piace a noi definirli. Ci incontriamo su Zoom e subito entriamo nel vivo della discussione, partendo dal film che ha fortemente voluto per documentare il talento, esplorare cosa sia e capire come nasca.
Come nasce I 400 giorni – Funamboli e maestri, film di cui sei artefice e produttore?
Lavoro come agente e sono a contatto con gli artisti dell’audiovisivo da oltre trent’anni. Tuttavia, nel corso della mia carriera, ho sempre puntato tantissimo sullo scouting dei talenti. Tra i miei assistiti ci sono grandissimi nomi, molto popolari, ma non mi sono mai cullato: ho sempre cercato un progetto che potesse unire le star che seguo con il mio focus sullo scouting.
Due anni fa, in piena pandemia, ho cominciato a lavorare sul progetto di un tour casting da portare avanti in tutta Italia. Ancor prima, avevo fatto stampare una pubblicazione in 1200 copie (Generazione Do) con l’obiettivo di far conoscere i giovani della mia agenzia: l’ho regalata per Natale a tutti gli addetti ai lavori. Tra loro, c’erano anche nomi che all’epoca sconosciuti sono diventati super famosi, come ad esempio Massimiliano Caiazzo. La prefazione, invece, era curata da professionisti affermati ma anche da nomi importanti dell’industria cinematografica, da quello del presidente dei David di Donatello a quello del direttore della Mostra del Cinema di Venezia.
Già quella pubblicazione aveva in nuce tutte le premesse del lavoro che sarebbe venuto dopo. Uno dei miei grossi crucci, oltre allo scouting, è da sempre la mancanza di uno star system in Italia: mi sono sempre chiesto come si faccia a far emergere dei talenti, mantenerli e, soprattutto, esportarli all’estero.
Cosa è avvenuto dopo la pubblicazione?
Nel pensare a come continuare ad ampliare le basi di quella pubblicazione, mi sono concentrato sulle difficoltà anche pratiche di far conoscere i giovani talenti, costretti spesso ad arrivare a Roma per incontrare agenti o professionisti del settore. Mi è venuto allora in mente di far tutto il contrario, ovvero andare in giro io per l’Italia con il mio gruppo di lavoro a reclutarli dando vita a una sorta di talent tutto nostro, il Do Tour Casting. Abbiamo quindi aperto una call a cui si sono iscritte più di mille persone e abbiamo cominciato ogni fine settimana a recarci in una città differente: Milano, Firenze, Torino, Napoli…
I requisiti richiesti ai candidati era che fossero under 30, perfettamente bilingue e totalmente sconosciuti. Alla fine del tour, abbiamo scelto una rosa di 24 talenti su cui puntare nell’arco di due anni. Ne sono seguiti un evento in cui li abbiamo presentati all’industria nel febbraio di due anni fa e la nascita vera e propria all’interno di Do Cinema di un settore ad hoc creato per loro, WeDo. Abbiamo cominciato a lavorare con loro, offrendo tutto ciò che era nelle nostre possibilità: casting, provini, audizioni e una sorta di masterclass perenne, fatta di incontri con artisti affermati, nell’ottica di creare un ipotetico passaggio di testimonial da una generazione all’altra centrato sul come affrontare il lavoro e la carriera di attore.
Con l’aiuto di alcuni sponsor che ci hanno dato una mano, abbiamo poi portato i 24 giovani a Venezia durante la Mostra del Cinema per tre giorni. L’intento era quello di far capire loro cosa voglia dire promuovere un film, quale sia lo schedule di un artista e a quali doveri si va incontro partecipando a un Festival. Dopo Venezia, siamo stati anche al Marateale, dove nel contesto del festival che si svolge a Maratea abbiamo dato vita a un contest sui monologhi che ha riscosso particolare successo, con in palio un premio in denaro di tremila euro, una sorta di borsa di studio per un giovane alle prime armi.
Tutte le varie fasi e le esperienze affrontate, sono confluite nel documentario che sarà mostrato al Torino Film Festival. Abbiamo infatti registrato i primi 400 giorni di lavoro dei 24 giovani per documentare come si è avviata la loro carriera, trovando l’appoggio di grandi artisti, dieci mentori, come Anna Foglietta, Claudio Amendola, Claudio Santamaria, Luca Marinelli o Silvia D’Amico. Abbiamo raccolto oltre 40 ore di riprese che abbiamo ridotto a 70 minuti per un racconto che dà spazio alla loro voce, coadiuvati anche da alcuni filmati dell’Istituto Luce che raccontano cos’è il talento per un attore e qual è l’esigenza che spinge a farlo come lavoro.
Quattro, se non più, generazioni di attori a confronto, quindi…
Il nostro obiettivo era quello di fornire un ritratto molto preciso dei giovani artisti e di promuoverli in maniera diversa. Li abbiamo messi metaforicamente a nudo, facendoli raccontare e mostrando storie di successo ma anche di insuccesso. Non sempre il percorso che si prefigge va come ci si prospetta: non è un racconto sulla ricerca della perfezione a tutti i costi che tanto viene decantata oggi o a cui tutti ambiscono. Definisco spesso i 24 talent scelti come dei giovani vecchi, con valori molto diversi dai loro coetanei.
Raccontiamo ad esempio la storia di Cesare Hary, che nel frattempo è stato selezionato tra gli allievi del Centro Sperimentale di Cinematografia, mettendo in stand-by la sua carriera per due anni, ma anche di chi, nel frattempo, ha cominciato a lavorare ottenendo degli ottimi risultati, come Yile Vianello, protagonista del film La bella estate, o Nutsa Khubulava, che affiancherà Alessandro Borghi nella serie tv Netflix SuperSex.
Nutsa ha alle spalle una storia molto particolare. È georgiana, viveva a Lisbona quando ha preso un aereo per venire a fare il casting a Firenze. Non parlava nemmeno una parola d’italiano ma si capiva sin da subito che aveva l’x factor.
Di recente, un giovane attore ci ha detto che il suo mestiere termina di essere tale quando si comincia a considerare l’ufficio stampa più importante dell’agente.
Sono assolutamente d’accordo. In questo momento storico, c’è una grandissima confusione tra le due categorie. Per alcuni dei miei artisti, ad esempio, faccio anche da ufficio stampa ma non è quello il mio lavoro. Si fa fatica a far capire la differenza ai venti/venticinquenni che, dopo una o due esperienze lavorative, si credono già arrivati e sentono l’esigenza di avere qualcuno che li promuova sulla stampa senza avere però dei contenuti da raccontare. È qualcosa che dovrebbe invece avvenire per step: occorre prima raggiungere certi risultati, studiare e avere esperienza per interfacciarsi con i giornalisti stessi.
Spesso finisce anche che agenti e uffici stampa lavorino in direzioni differenti quando invece si dovrebbe puntare tutti sullo stesso obiettivo, che rimane quello del bene dell’artista. Si dovrebbe anche chiarire chi fa cosa e non confondere i ruoli. L’ufficio stampa non è quello che deve occuparsi del lato commerciale, trovare sponsor o reperire vestiti da sponsorizzare su Instagram: è semmai colui o colei che deve trovare i migliori spazi sulle testate o nei programmi televisivi per le interviste più belle. Dietro a ogni scelta, deve esserci uno studio strategico sull’immagine dell’artista, del lato commerciale si occupano bel altri professionisti.
Mi dispiace che i talent non capiscano la differenza e mi dispiace che gli uffici stampa vogliano competere in qualche modo con gli agenti pensando di essere sullo stesso livello. Non è una generalizzazione sulla professione: agenti e uffici stampa possono lavorare bene insieme e possono essere in partecipazione: ho rapporti stupendi con diversi uffici stampa, cito tra tutti Gianluca Pignatelli che si occupa della comunicazione di Monica Bellucci.
Anche perché, diciamocelo, i danni provocati da un’intervista sbagliata possono seriamente mettere a repentaglio la carriera di un artista. Come mostra anche la serie tv Call My Agent, tocca poi all’agente rimediare.
Quella serie tv è molto calzante e fedele alla realtà, anche se la racconta in maniera grottesca, comica o edulcorata. I danni non sono solo quelli generati dall’ufficio stampa: ci sono anche quelli generati dallo stylist o da altre figure professionali. All’estero, capita raramente che ci si ritrovi a dover lavorare di riparazione proprio perché si lavora tutti quanti in tandem studiando le strategie migliori per il talent tra professionisti e non improvvisati del mestiere. La violenza mediatica per cui si cerca di imporre un talent velocemente potrebbe anche bruciare un personaggio se lo si presenta in qualche modo senza contenuto e senza la giusta formazione.
Formazione è una delle parole chiavi per coltivare un talento. Ma come fa un agente a riconoscere il talento?
Non lo incontri di certo per strada: può capitare ma si tratta di eccezioni. Non so come facciano gli altri agenti ma posso rispondere per quanto riguarda la mia esperienza: non ho mai preso ad esempio qualcuno visto per strada solo perché ha una faccia che buca e di conseguenza lo faccio diventare qualcuno. Quando si lavora su grandi numeri e si vedono in un giorno anche sessanta persone nella stessa identica situazione, individui subito chi tra loro ti colpisce: dipende molto spesso dall’approccio che si ha con l’altro. Non c’è una regola precisa: a parità di competenze tecniche, ti accorgi di chi ha quel quid in più. Un quid, anche caratteriale, che non è mai lo stesso e su cui poi deve anche lavorare psicologicamente per ammorbidirlo o esacerbarlo.
Quello dell’agente è anche un continuo lavoro psicologico, aggiungerei.
Per forza di cose. Il loro dei talent è sempre pieno di alti e bassi, è una montagna russa continua. È tuo compito stare vicino al talent sia nei momenti up sia in quelli down. I down di un percorso non necessariamente sono quelli legati alla mancanza di lavoro o di opportunità: si possono vivere anche quando sei al top o all’apice della carriera. L’agente è colui con cui l’artista si confronta di più su qualcosa a cui puntava e si è rivelata un fallimento o su un no rimediato a un provino.
E spesso tocca anche all’agente fare ammenda su uno sbaglio: il ruolo rimediato poteva anche non essere adatto all’assistito. Il nostro è un lavoro di responsabilità enorme: scegliere tra le varie occasioni di lavoro non è sempre facile.
Immagino la tua scrivania piena di proposte per Massimiliano Caiazzo, ad esempio.
Proposte su proposte. Nell’ultimo anno, avrebbe potuto interpretare una quantità abnorme di progetti, un po’ come tutti i suoi colleghi di Mare fuori. Ma abbiamo preferito aspettare e studiare la migliore strategia, facendo delle scelte, non facili, a monte. Non sempre è facile dire no a persone molto influenti: da agente, rischi di rovinare i rapporti anche per gli altri tanti che segui. Ragione per cui oltre che psicologico il nostro lavoro è anche diplomatico nel cercare di far capire a produttori, registi o direttori di casting di aver fatto il passo più lungo della gamba nel proporre un tale progetto a tale artista.
È capitato invece a te di fare il passo più lungo della gamba puntando su qualcuno che non si è rivelato poi professionalmente ciò che ti aspettavi?
Succede anche quello. Ma mi riconosco un merito: quando capita, sono onesto con il talent in questione. Nell’investire sullo scouting, so in partenza di non avere un ritorno economico che eguaglia lo sforzo fatto. Nonostante ciò, mi impegno tanto e, laddove noto che non si ottengono risultati, sono schietto nel non incaponirmi. Ragione per cui, con i giovani, ci si dà sempre due anni di tempo: se non accade nulla, nonostante le possibilità date, molto diplomaticamente ci si saluta: “non sono io l’agente per te” è la mia risposta, “esisteranno altri che troveranno per te la strada giusta”. Non mi piace creare false illusioni e aspettative.
Ma accade anche il contrario. Ci sono attori che di punto in bianco decidono di abbandonarti dopo che hai investito sulla loro formazione: quello di agente è, purtroppo, un lavoro non riconosciuto e regolato giuridicamente.
È per questa ragione che sei stato tra i fondatori dell’ASA, una delle associazioni che raggruppa gli agenti dello spettacolo?
Sono stato per anni in un’altra associazione che si chiama LARA. Ne sono uscito nel momento in cui ho cominciato a diversificare la mia attività e a fare il produttore, cosa che la LARA non permetteva. In piena pandemia, con altri cinque colleghi, abbiamo creato l’ASA, di cui fanno parte circa 40 professionisti. ASA e LARA messe insieme raggruppano quasi il 100% della categoria: sono pochi gli agenti che non fanno parte né dell’una né dell’altra associazione. Il nostro obiettivo è comune: il riconoscimento giuridico del nostro lavoro. Nel frattempo, porto avanti anche un progetto di formazione accademico per la categoria, tenendo un corso universitario alla UniMarconi. Non si diventa agenti con un semplice corso universitario on-line ma serve a restituire almeno un’infarinatura necessaria a chi vuole avvicinarsi alla professione, mostrandone le declinazioni e la fantasia che può sviluppare…
O la vita privata che si deve sacrificare.
È un tasto dolente. Dopo tantissimi anni, ho fatto sì che la vita privata e il lavoro andassero in qualche modo di pari passo. I migliori amici sono professionisti con cui mi ritrovo a lavorare: non colleghi ma ad esempio casting director. Viaggiando molto, cerco sempre di portare con me un pezzo di famiglia: mia madre, mio fratello o il mio cane… così facendo, gli affetti sono sempre con me e toccano con mano quanto sia complicato questo lavoro o incastrare gli impegni con le proprie aree riservate. Tutto è possibile: basta solo volerlo e ricordarsi di fare delle visite mediche ogni tanto (ride, ndr).
Dopo 33 anni di professione, ricordi chi è stato il primo cliente?
Ho cominciato in maniera anomala, facendo uno stage in un’altra agenzia. Provenivo dall’altra parte della barricata quando la mia agente dell’epoca mi chiese di fare lo stagista da lei: non c’erano tanti attori da seguire ma modelli e modelle, dal momento che lavorava soprattutto nella moda. Sono seguite poi varie agenzie di cui sono stato dipendente ma la prima attrice in assoluto che ha inaugurato la mia prima agenzia è stata una giovanissima Alba Rohrwacher, che seguo tuttora.
Perché per il racconto del documentario I 400 giorni – Funamboli e Maestri hai scelto location particolari come le gallerie d’arte?
Mi piaceva l’idea della contaminazione tra le arti: sono molto fissato sul concetto di arte circolare. Sono anche un collezionista: parte del ricavato dell’utile della mia società ogni anno viene reinvestito in una collezione dedicata agli artisti.