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Daphne Di Cinto: “Ho normalizzato pregiudizi che non avrei dovuto normalizzare” – Intervista esclusiva

Daphne Di Cinto
Regista dell’acclamato film Il Moro, un cortometraggio che rende giustizia alle origini nere di Alessandro de’ Medici, l’attrice e regista Daphne Di Cinto racconta a The Wom cosa ha rappresentato per lei scoprire la storia di un afrodiscendente nell’Italia del Rinascimento e l’impatto che ha avuto sulla sua cultura da “bianca”.
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Il Moro non è solo il cortometraggio pluripremiato nel mondo con cui Daphne Di Cinto potrebbe entrare nella shortlist dei prossimi Oscar. È anche la storia di una vicenda che, nascosta tra le pieghe della Storia, ha permesso alla giovane attrice e regista di interrogarsi sulle sue origini e di affrontare un lungo lavoro di decostruzione della sua stessa identità e cultura.

Cresciuta nel ravennate interiorizzando pregiudizi e commenti a cui solo nel tempo ha saputo rispondere, Daphne Di Cinto ha chiaro sin da giovanissima quale sarebbe stata la sua strada. La futura Duchessa di Hastings della serie tv Netflix Bridgerton non ha avuto dubbi sulla recitazione, sostenuta anche da uno zio (a cui deve il suo cognome d’arte, Cinto) andato via fin troppo presto e non dal padre, che avrebbe voluto per lei un percorso diverso. Ma sul rapporto col genitore lasciamo che a parlare siano le stesse parole di Daphne Di Cinto, che meglio spiegano quali siano le dinamiche in atto.

Tuttavia, nella sua vita è arrivato Alessandro de’ Medici a sparigliare le carte. La storia raccontata dal cortometraggio che Daphne Di Cinto ha diretto, Il Moro, ci porta direttamente nel Cinquecento e ridà giustizia a ciò che per molto tempo si è cercato di insabbiare: il primo Duca di Firenze non era semplicemente scuro di carnagione come erroneamente qualcuno sostiene ma effettivamente nero, figlio della relazione intercorsa tra papa Clemente VII e una serva africana. Sul perché la sua epopea si sia raccontata diversamente potremmo ragionare a lungo: le ragioni sono molteplice e sempre diverse.

Per il suo lavoro di regia, improntato all’inclusività, Daphne Di Cinto ha scelto un cast di prim’ordine: Alessandro ha il volto di Alberto Boubakar Malanchino, papa Clemente di Paolo Sassanelli, Ippolito (colui che per certi versi rappresenta il bianco che teme l’altro) di Andrea Melis e la madre di Alessandro di Balkissa Maiga. In più, la sua celebrazione della diversità è affidata anche alla voce di Loretta Grace, interprete della canzone portante della colonna sonora.

Daphne Di Cinto.
Daphne Di Cinto.

Intervista esclusiva a Daphne Di Cinto

“La ragione per cui ne vorrei realizzare una serie tv è perché la storia è troppo ricca e troppo profonda per essere esaustiva in due ore: vorrei esplorare a fondo non solo Alessandro de’ Medici ma anche tutti i personaggi che gli stanno intorno, dal Papa a Ippolito alla sorellina, destinata a diventare la regina di Francia, Caterina de’ Medici”, mi risponde Daphne Di Cinto da Londra, città nella quale vive, quando le chiedo le ragioni per cui vorrebbe trasformare Il Moro, suo cortometraggio in lizza per gli Oscar 2024 in una serie tv.

“Alessandro e Caterina sono cresciuti insieme e la dinamica del loro rapporto è molto interessante. Sono allibita dal fatto che questa storia non sia mai stata raccontata. Eppure, è già lì, non la si deve quasi nemmeno scrivere, con elementi di profonda risonanza con l’oggi: il gender gap (Caterina è stata quasi messa da parte perché è una donna), dinamiche di potere (Alessandro è figlio del Papa e di una donna nera sua sottoposta), religione e via di seguito. Trovo molto interessante anche tutto ciò che concerne la madre di Alessandro”, continua entusiasta Daphne Di Cinto.

“Di lei si sa pochissimo: fondamentalmente era una serva mora al servizio dei Medici, passata alla storia con il nome di Simonetta da Collevecchio. Ma con il tempo è venuta fuori una teoria interessante, secondo cui il suo nome sarebbe Sonera: nel lascito testamentario di Alfonsina Orsini c’è una somma abbastanza ingente verso una certa Sonera, un nome non prettamente italiano per quel tempo. C’è chi teorizza che fosse lei la madre di Alessandro e direi che c’è proprio tanto da raccontare e da approfondire. Comprese le figure dei due fratellastri di Alessandro: la madre è stata costretta a sposare uno stalliere e dal matrimonio sono nati due figli, due afroitaliani che vivevano nel 1500 all’interno di comunità afrodiscendente che già esisteva”.

Ci sentiamo in un momento per te di grande concitazione: a breve, saprai se Il Moro, il tuo film, rientrerà nella shortlist dei cortometraggi candidati all’Oscar, nello stesso anno in cui l’Italia si augura di concorrere all’ambita statuetta con Io Capitano. Sarebbe un messaggio forte se entrambi i titoli, impregnati di inclusività, riuscissero a rappresentare l’Italia in un momento storico come quello che stiamo vivendo.

Sarebbe bellissimo: Io Capitano è un film che ho adorato. Matteo Garrone ha fatto un lavoro fantastico intorno al film e alla maniera con cui lo sta presentando: è davvero il modo in cui un artista deve approcciare le tematiche che vuole raccontare e che è giusto che racconti perché ha una voce per farlo anche se non è una storia sua. È bellissimo vedere lo spazio che sta lasciando ai protagonista della storia, non solamente gli attori ma anche le persone a cui è ispirata.

In un certo modo, il tuo Alessandro de’ Medici e Seydou, il protagonista di Io Capitano, si somigliano: sono due semplici ragazzi che hanno una missione, che sia un compito o un sogno, da portare a termine.

È interessante questa comparazione perché è una storia universale l’avere un sogno e partire per realizzarlo. È una storia che per noi italiani e italiane è davvero insita nella nostra cultura: se andiamo indietro solamente di centoventi anni, assistiamo all’apice dell’exploit della nostra immigrazione, considerando i numeri di coloro che partivano dall’Italia per raggiungere gli Stati Uniti. La volontà di andare via per trovare una vita migliore non si è mai estinta: ancora oggi, l’emigrazione italiana va ancora avanti, tanto che è incredibile come si incontrino italiani anche nei posti più sperduti e impossibili del mondo.

Oggi sembra quasi che ci si sia dimenticati di come gli italiani a inizio Novecento fossero incredibilmente discriminati in America e di quanto odio si riversasse nei loro confronti: in pratica, stiamo facendo nei confronti degli immigrati africani esattamente lo stesso quello che è stato perpetrato a noi. Con una dovuta differenza: gli italiani immigrati in America sono molto, molto di più delle persone africane che stanno arrivando in Italia, e lo hanno fatto attraverso vie legali approcciabili, senza rischiare la loro vita durante il viaggio. Che la storia si ripeta non è un cliché: il problema è che ce la dimentichiamo. Se da genere umano riuscissimo ad avere una memoria che vada oltre i 50 anni, forse potremmo fare qualche passo in avanti.

Quando e come comincia la tua fascinazione per Alessandro de’ Medici?

La storia di Alessandro de’ Medici si è presa la mia vita ma ne sono contenta: mi ha aiutata a crescere sia personalmente sia professionalmente. Mi sono imbattuta nella sua vicenda leggendo per caso un articolo su internet che si intitolava “Dieci persone che non sapevi fossero nere”. Vedendo il nome di Alessandro, il primo istinto è stato quello di dire che fosse una bugia: “se fosse stato così, lo avrei saputo”. Ma, per capire meglio, ho fatto quello che avremmo fatto tutti: ho cercato su Google e ho aperto la scheda di Wikipedia, dove però le informazioni non sono totalmente accurate.

Interessata ormai alla vicenda, ho approfondito le ricerche scoprendo che effettivamente era vero che questo personaggio così importante per la storia italiana ed europea era afrodiscendente. Ma ho anche scoperto che si è provveduto a oscurare la sua storia per secoli per varie ragioni: ovviamente quelle cinquecentesche sono diverse da quelle novecentesche ma, a quanto pare, c’era sempre una ragione per non parlarne.

Alberto Malanchino e Daphne Di Cinto sul set del film Il Moro.
Alberto Malanchino e Daphne Di Cinto sul set del film Il Moro.

Cosa hanno generato in te le scoperte?

Una domanda molto spontanea: se avessi saputo da bambina che il primo Duca di Firenze nel Rinascimento italiano (la cosa di cui andiamo più orgogliosi al mondo), come sarebbe cambiato il mio percorso di crescita? A tale domanda, ho aggiunto un’ulteriore riflessione: come cambierebbe oggi il percorso di tutti quei bambini e di tutte quelle bambine che ancora oggi tornando a casa da scuola raccontano di insegnanti che nel 2023 discriminano, nonostante il ruolo di responsabilità che hanno, e ignorano la storia del nostro Paese?

Spesso, sono loro i primi che riversano sui bambini tra i sei e i dieci anni un odio che i piccoli non dovrebbe mai subire. All’interno delle istituzioni scolastiche si pronunciano spesso parole che sono totalmente fuori luogo. E anche per questa ragione è diventato per me ancora più importante raccontare la storia di Alessandro de’ Medici: se diventasse sapere comune, molte cose oggi non accadrebbero.

Io e la mia generazione saremmo anche potuta crescere sapendo di appartenere alla storia delle proprie nazioni invece di essere cresciuti sentendoci dire che l’unico capitolo che ci rappresentava era la tratta degli schiavi. Il mio desiderio è evitare che ciò si ripeta: vorrei che le giovani generazioni avessero la coscienza e la consapevolezza di esserci nella storia delle loro nazioni. Non vale solo per le persone afrodiscendenti in Italia e in Europa ma vale per tutte e tutti, indipendentemente dal background.

Forse, sarebbe più importante per le persone che non sono di background afrodiscendente: accogliendo un aspetto della storia normalmente mai raccontato, potremmo tutti insieme andare avanti e celebrare la diversità che è presente all’interno della nostra storia. Dovremmo essere tutti uguali dal punto di vista sociale, civile e legale, e tutti diversi da quello identitario: c’è così tanta bellezza nella diversità che dovremmo imparare ad apprezzarla e a esserne curiosi. Come direbbero gli inglesi: è il sale del mondo.

Se riuscissimo tutte e tutti ad accettare e a imparare quanta diversità esiste nella storia europea e smettessimo di avere tanta paura nell’ammetterlo (lo dico soprattutto agli uomini bianchi di una certa età che ogni volta che si parla di diversità la vivono come un attacco personale verso di loro), forse staremmo tutti meglio.

Sei stata anche tu una bambina che ha frequentato le scuole. Com’è stata la tua esperienza personale?

Ero una bambina un po’ strana. Ho passato i primi anni della mia vita in campagna a giocare con i miei animali. Non frequentando l’asilo, i contatti con gli altri bambini erano ridotti al minimo e, quindi, quando mi sono ritrovata in prima elementare, a contatto con il gruppo di compagni non è stato facile. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua, anche perché i bambin sono soliti portare a scuola ciò che assorbono a casa: mi sono sentita sempre puntare il dito contro e le maestre dell’epoca non avevano nemmeno gli elementi per contrastare il pregiudizio e la discriminazione. Anzi, tendevano a colpevolizzare me, la persona “diversa”.

Ci sono stati tanti episodi che potrei raccontare, riassumibili in una sola frase: non ero la persona più popolare della scuola… mi ritrovavo spesso da sola, in un angolo, a leggere un libro. Con il tempo, la situazione si è evoluta: alle superiori, erano una social butterfly, come direbbero a Londra. Per molti anni, ho imparato a normalizzare cose che non avrei mai dovuto normalizzare, episodi o micro aggressioni che ancora oggi sono all’ordine del giorno perché frutto degli stereotipi che sono stati tramandati.

Alle medie ma anche alle superiori mi sono ad esempio sentita dire spesso che “le persone nere sono più stupide delle persone bianche: me l’ha detto mia mamma”. Sono commenti che inevitabilmente si assorbono e che inconsciamente ti portano al desiderio di contrastarli: nasceva da lì la mia costante voglia di dimostrare di essere intelligente, di valere qualcosa e di portare gli altri a non avere paura di me. Mi adattavo in continuazione all’ambiente e alle persone che mi circondavano, fingendo anche quando mi veniva rivolte espressioni che mai avrei dovuto sentire.

Non sto puntando il dito contro nessuno e non voglio colpevolizzare nessuno. Tuttavia, sarebbe bello se le persone si fermassero a pensare prima di dire determinate cose e alle conseguenze che comporta, vale sempre e non solo rispetto alla nerezza. Personalmente, ho dovuto affrontare molta decostruzione rispetto ai pregiudizi con cui sono cresciuta, quella bianca che pe tanto tempo ho condiviso. Mia madre, purtroppo, non mi ha passato tantissimo della sua cultura di origine: l’ho dovuta scoprire da adolescente da sola, approcciandomi come prima cosa alla musica.

Daphne Di Cinto.
Daphne Di Cinto.

Di dove era originaria mamma?

Delle isole Seychelles.

Quel posto a cui tutti quanti piace andare in vacanza ma che per uno strano scherzo del destino diventa “minaccioso” quando qualcuno proviene da lì.

A proposito dei bias che certa cultura si porta dietro, mi torna alla mente un episodio di quando avevo diciotto anni. Ero alle Seychelles con la mia famiglia, ero andata al mare e avevo perso le scarpette di plastica che usavano per entrare in acqua (mi erano state portate via da un’onda). Sono dunque dovuta tornare a casa scalza in autobus: nel guardarmi, una famiglia di turisti italiani ha commentato “Beh, qui vanno in giro scalzi: non hanno tante pretese”. Avrei voluto avere le parole per rispondere ma nel mio percorso le ho imparate solo dopo, molto più tardi, proprio per via di quel normalizzare di prima: nel cercare di mettere a proprio agio le persone che mi stavano intorno, stavo zitta anche quando non dovevo.

Provavo a stare entro i limiti che mi erano stati posti per non sembrare troppo minacciosa o arrabbiata, mandavo giù ogni cosa ma non si può sempre farlo, soprattutto quando il lavoro non va fatto su se stessi ma sugli altri. E ancora una volta estendo lo spettro delle mie parole: tutti quanti dobbiamo decostruire del razzismo interiorizzato e possiamo farlo solo ammettendo di essere razzismi. Solo facendolo, potremmo vivere tutti insieme in maniera rispettosa e arricchirci vicendevolmente.

Il lavoro di decostruzione comporta anche la rimessa in discussione della propria identità. Come l’hai affrontato?

Approfondendo la storia di Alessandro de’ Medici. È stato l’accorgermi che tutto quello che mi era stato insegnato non era al 100% vero e che esisteva un altro punto di vista il momento di svolta per me. All’inizio, ho provato anche un po’ di spavento: ero davanti a un burrone e avevo paura di cadere. Ma pian piano ho cominciato a fare dei piccoli passi, aprendo la mia mente, un processo che continua ancora oggi ad andare avanti costantemente: più si impara, più si capisce quanto ancora ci sia da imparare. Dovremmo tutti quanti smettere di avere paura di ciò che non sappiamo e di venire etichettati in un certo modo: le etichette non descrivono la totalità di una persona.

Chi ti ha aiutato in questa nuova presa di consapevolezza?

Ringrazio gli dei dell’Olimpo per avermi donato degli amici e delle amiche fantastiche che continuano a sfidare lo status quo del mio essere (è una cosa reciproca): a nostra amicizia si basa proprio sulla crescita comune. Non sono solamente persone afrodiscendenti ma mi hanno dato uno scossone incredibile quando la mia paura stava prendendo il sopravvento. Penso in particolare a due mie amiche, una di origine cinese e l’altra greca: vedere la loro stabilità nell’approcciare la decostruzione ha aiutato me a fare la stessa cosa. Ognuno di noi può nella vita girarsi e dare una mano a chi ha bisogno di fare il passo successivo: la bellezza dell’essere umano sta nell’elevarci a vicenda. In un momento storico come quello che stiamo attraversando, possiamo fare tanto l’uno per l’altro: anche il più piccolo dei gesti è alla base di qualcosa di molto più grande.

Daphne Di Cinto sul set di Il Moro.
Daphne Di Cinto sul set di Il Moro.

La decisione di diventare attrice prima di regista ti ha portata a sfidare anche i desiderata di tuo padre, che per te avrebbe voluto un altro percorso. La tua autodeterminazione ha fatto sì che tu divenissi una sorta di self made woman, senza che smettessi mai di credere nel tuo sogno.

Ho avuto la fortuna di sapere cosa volessi fare sin da giovane e la testardaggine per andare avanti. “Devo ringraziare mio padre per avermi insegnato a essere un uomo, nonostante io sia sua figlia”, l’ho detto qualche giorno fa in un post su Instagram riconoscendomi in quelle parole. Papà è una persona abbastanza dura: mi ha insegnato le cose con ciò che gli inglesi definiscono tough love, l’amore duro, inconsapevole di darmi nel frattempo gli strumenti per fare quello che lui non voleva che io facessi.

Quando racconto la mia storia personale, di solito concludo dicendo che “c’è ancora speranza”: mio padre è un suprematista bianco, non sto scherzando. Da quando sono piccola, sento affermargli che “il bianco è superiore al nero” ma, nonostante ciò, mi sostiene e ama quello che sto facendo. Scherzando, gli dico che è il perfetto esempio del colonialista: ha fatto una figlia con una donna nera ma nell’animo rimane un fascista. Quello che mi fa sorridere è come pensi che la sua ideologia non abbia niente a che fare con me, non riuscendo a capire quanto invece abbia a che fare con me. Nonostante questo, mi vuole molto bene… c’è speranza anche per la nostra nazione!

A dimostrazione che forse la maggior parte dei pregiudizi nasce dal non conoscere l’altro.

Non mi vede come una persona nera. Durante una conversazione in cui gli chiedevo del come potesse affermare i suoi pensieri pur avendo una figlia nera, mi ha risposto che non lo sono. Non si tratta di una dinamica unica: ho incontrato tantissime persone che hanno una storia simile alla mia, come ha dimostrato anche Marilena Delli Umuhoza scrivendo un libro sull’argomento.

Il fatto che esista in Italia tale dinamica ci spinge a riflettere come ci sia il pensiero quasi astratto di dover odiare solo perché dobbiamo farlo, in netto contrasto con quanto poi effettivamente avviene nell’esistenza quotidiana. Sarebbe anche ora di smetterla con la propaganda secondo cui l’africano o l’altro in genere sta arrivando in Europa per ucciderci o dominarci. Mi fa troppo ridere quando, sfogliando qualsiasi libro di storia, ci si rende conto che è avvenuto esattamente il contrario: sono stati i nostri bisnonni ad andare dall’altra parte e a uccidere gratuitamente, seguendo dei comandi e senza chiedersi il perché.

Per realizzare Il Moro, il tuo film, ti sei avvalsa di un gruppo di lavoro che poteva contare anche sul supporto di Alberto Malanchino e Loretta Grace.

Ora sono degli amici ma all’inizio del percorso non li conoscevano. Tra le tante cose belle portate dal Moro c’è stata anche la connessione che oggi ho con la comunità afrodiscendente in Italia. Sono andata via dall’Italia molto presto e, dunque, tornare e ritrovare questi talenti e condividere col loro il percorso artistico è stato una manna dal cielo. Ognuno di noi ci ha messo un pezzo di cuore e anima, tanto sudore e tanta passione: il film sta ottenendo il riscontro che ha perché davvero al suo interno c’è molto cuore.

Il Moro: Le foto del film

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