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Daria D’Antonio: “Avanti per la mia strada, non ho badato alla discriminazione di genere”

daria d'antonio direttrice della fotografia
TheWom.it incontra in esclusiva Daria D’Antonio, una delle più apprezzate direttrici della fotografia a livello internazionale. David di Donatello 2022, è tra i giurati delle Giornate della Luce di Spilimbergo, in cui si celebrano gli autori della fotografia e il valore, appunto, della luce.
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Daria D’Antonio è una delle più apprezzate direttrici della fotografia a livello internazionale. Nel 2022 ha un David di Donatello grazie al lavoro svolto in È stata la mano di Dio e ha visto il suo talento riconosciuto anche dal Quarzo di Spilimbergo, il riconoscimento assegnato dalle Giornate della Luce di Spilimbergo. E alla nona edizione del festival che celebra da anni gli autori della fotografia torna anche quest’anno (dal 3 all’11 giugno) ma in veste di giurata. Nella giuria capitanata dal regista Marco Risi insieme a lei ci saranno anche la regista Michela Occhipinti, i giornalisti e critici Giorgio Gosetti e Oreste De Fornari, e Marco Fortunato, presidente di Cinemazero di Pordenone.

E per Daria D’Antonio passare da premiata a giurata rappresenta un salto molto importante, come ci dirà nel corso di quest’intervista esclusiva. Napoletana doc, la raggiungiamo mentre si sposta per un sopralluogo cinematografico, sottolineando come anche questo faccia parte delle mansioni a cui è chiamato un direttore della fotografia, un lavoro per tanti anni appannaggio degli uomini. Il gender gap torna inevitabilmente nella nostra conversazione, anche se Daria D’Antonio preferisce parlare di cultural gap, invitando alla collaborazione e non alla battaglia tra sessi.

Elencare il numero di film e serie tv di cui Daria D’Antonio ha curato la fotografia è pressoché impossibile. Da Marcel! di Jasmine Trinca a Tornare di Cristina Comencini, innumerevoli sono i progetti a cui ha portato la sua luce. Grande passione è tutto ciò che le è servito sin da quando giovanissima ha cominciato a muoversi come operatrice sui set, collezionando man mano collaborazioni prestigiose e affermandosi in un settore che meriterebbe maggiore attenzione.

Il direttore della fotografia, del resto, è colui che collabora con il regista per creare l’aspetto del prodotto finale: ne comprende visione e obiettivi artistici, si prende la responsabilità della scelta delle luci e della fotocamera, gestisce l’illuminazione ed è coinvolto nella composizione dell’inquadratura, oltre che supervisionare la post-produzione. Grandi responsabilità, si direbbero, che non potrebbero mai essere affrontate qualora calasse l’energia sul set.

Daria D'Antonio.
Daria D'Antonio.

Intervista esclusiva a Daria D’Antonio

“Non so cosa potrò dirti sui miei nuovi progetti dal momento che sono avvolti dal riserbo più assoluto”, mi sottolinea subito Daria D’Antonio a inizio intervista quando parte un accenno ai progetti a cui sta lavorando o ha appena finito di lavorare, Parthenope, il nuovo film di Paolo Sorrentino, e l’attesissima serie tv Netflix SuperSex con Alessandro Borghi nei panni di Rocco Siffredi. “Sarà molto interessante visto che non posso parlare né del recente passato né del futuro”, scherza mentre si trova diretta su un treno che la porta a Messina per un sopralluogo.

Ma intanto possiamo parlare del presente. Cosa rappresenta per te tornare alle Giornate della Luce come giurata dopo aver vinto il Quarzo di Spilimbergo lo scorso anno?

È una grande emozione ma anche una grande responsabilità. Reputo le Giornate della Luce una manifestazione interessante perché comunque dà rilievo a una professione come la mia, la direzione della fotografia, molto importante nell’ottica della collaborazione creativa con i registi. Trovo che sia una bella occasione per parlare di luce tutti insieme. Quando ci sono stata lo scorso anno è stato molto gradevole perché mi sono ritrovata con alcuni dei registi con cui ho collaborato e con cui ho potuto dialogare rispetto al lavoro fatto. E poi mi ha veramente impressionato la visita alla Scuola di Mosaico: volevo trasferirmi lì e iscrivermici!

Le Giornate della Luce, come hai appena sottolineato, permettono di concentrare l’attenzione su una professione che spesso in Italia è sottovalutata.

La sottovalutazione non riguarda solo i direttori della fotografia ma anche tutti gli altri compartimenti tecnici che lavorano alla buona riuscita dei film, dai costumi alla scenografia. Spesso c’è l’idea che un film sia frutto del lavoro del regista: lo è ma il regista arriva a quel risultato collaborando con gli altri che cercano di seguire quelle che sono le sue intuizioni e le sue esigenze.

Daria D'Antonio.
Daria D'Antonio.

Il tuo è anche un settore in cui per molto tempo la discriminazione di genere ha giocato un ruolo fondamentale. Tuttora nell’ottica comune suona strano parlare di direttrice della fotografia, dal momento che per stereotipo è un lavoro maschile.

Fortunatamente la situazione sta migliorando e nel settore c’è oggi una presenza femminile molto più forte. Per quanto riguarda la discriminazione di genere, devo essere sincera, non l’ho mai vissuta personalmente. Come dico sempre quando mi si invita a parlare della questione, non l’ho mai avvertita o, comunque, se c’è stata, non me ne sono mai accorta.

Non l’ho percepita perché non c’era o semplicemente perché non mi interessava sentirla: è possibile che intorno a me ci fossero delle persone che nutrissero dei dubbi su quale fosse la mia riuscita ma non me ne sono mai preoccupata. Chiaramente qualche dubbio m’è venuto, soprattutto nei momenti in cui mi ponevo delle domande quando stavo da sola nella mia cameretta…

La discriminazione di genere è frutto di un gap culturale: molto spesso gli uomini trovano bene a parlare con i loro “simili”, intavolando una relazione creativa e collaborativa che con le donne possono instaurare fino a un certo punto. Come sottolineavo anche prima, per fortuna le cose stanno cambiando. È fondamentale per le donne non porsi alcun limite e non pensare che non si possano fare determinati lavori: basta anche quel minimo di incoscienza che ho avuto io quand’ero più giovane per cominciare a lavorare.

Come consiglio sempre a tutte le ragazze, occorre sempre cominciare a fare quello che si vuole fare, impararlo bene e non dare troppo peso ai giudizi degli altri o a come gli altri ti percepiscono. Anche perché sono convinta che si viene percepiti per come ci si manifesta. Da questo punto di vista, sono cambiati sia le donne sia gli uomini: le donne non si pongono limiti nella fattibilità o nella possibilità di fare e gli uomini sono più in ascolto. Non è una lotta di genere per cui le donne sono contro gli uomini ma una collaborazione reciproca in cui le scelte si supportano a vicenda.

Uscendo dal mio settore di lavoro, è una questione che riguarda tutti, eliminare la discriminazione è una battaglia che si porta avanti insieme: si tende a volte a inasprire i toni ma questo non porta da nessuna parte, si deve facilitare la collaborazione anche culturalmente e non esasperarla. Personalmente, ad esempio, sono assolutamente contraria alle quote rosa: chi ha le capacità, a prescindere dal genere, va avanti.

Per me, è importante l’individuo, ogni persona è un universo complesso e trovo riduttivo parlare di uomini e donne. L’unica discriminante dovrebbe essere il talento: ci sono persone più adatte a fare un lavoro e altre meno. Date però pari accessibilità a tutti e parità di salario.

Però, è innegabile come un assist importante per le donne che lavorano alla direzione della fotografia potrebbe arrivare da un riconoscimento mondiale come un Oscar: in tutta la storia degli Academy Award mai una direttrice della fotografia ha battuto la concorrenza maschile.

Arriverà anche quello. Quest’anno ci siamo andati molto vicini con Mandy Walker, candidata per la fotografia del film Elvis: pensavo e speravo che la statuetta andasse a lei. Non tanto per il lavoro fatto sul singolo film ma perché è comunque una donna che lavora nel settore da tantissimi anni. Ha fatto molto anche prima di Elvis: certi film ti danno anche una certa notorietà ma ha fatto in precedenza dei lavori altrettanti belli.

È chiaro che Elvis è per lei il film della vita, quello che le ha regalato la popolarità: come sempre tutto è dipeso da altri fattori che esulano dalle capacità, come ad esempio la fortuna. Tuttavia, stiamo parlando di una donna che si è costruita nel tempo una certa credibilità e professionalità, come hanno fatto le altre donne a cui quest’anno in altri settori sono arrivati dei riconoscimenti per la prima volta: è un bel passo in avanti.

Daria D'Antonio con Paolo Sorrentino.
Daria D'Antonio con Paolo Sorrentino.

Tu hai lavorato in film che potremmo definire della vita, come È stata la mano di Dio, ma anche in altri molto più piccoli ma molto belli come ad esempio Il passaggio della linea, Il corpo della sposa e Ricordi?.

È stata la mano di Dio è stata comunque una grande sfida: è il film non solo di un grande regista ma è anche quello che ho sentito per lui necessario. Girarlo è stata un’esperienza umana molto profonda. Ma tutti i film a cui ho lavorato, anche i più piccoli, hanno rappresentato delle grandi sfide per me di cui sono - non dico soddisfatta perché non lo sono mai veramente – contenta, a prescindere dal mio lavoro. Sono tutti film che hanno un certo valore anche se penalizzati da altri fattori: esistono sempre annate più fortunate e altre meno per quanto riguarda i premi, la visibilità o la riuscita al botteghino. Per me, sono tutti film della vita per cui nutro grande affetto: non è una frase di circostanza, sono legata realmente a ognuno di essi per un motivo differente.

Cosa ti porta a scegliere un progetto anziché un altro?

A fare la differenza è la storia e la sua capacità di emozionarmi mentre la leggo. Ma anche il pensiero di riuscire a portare qualcosa di mio o di riuscire a farlo: bisogna essere realistici e non pensare che non sempre si può far tutto non solo tecnicamente ma anche empaticamente e creativamente. Occorre sentire un’affinità con quello che si legge e oggi ho la fortuna di poter scegliere a cosa lavorare e a cosa no: è un grande privilegio poter decidere di lavorare sulle storie che mi parlano e mi emozionano, che mi danno la possibilità di esprimermi ma anche di riflettere e trovare delle cose che ancora non so.

Cambia il tuo lavoro se alla sedia di regia c’è qualcuno di affermato, come Cristina Comencini, o un esordiente come Jasmine Trinca, giusto per citare alcune delle registe con cui hai lavorato di recente?

L’unica cosa che per me cambia è la storia. Al di là del fatto che ho un rapporto diverso con ognuno di loro perché le persone sono tra loro diverse: Cristina è diversa da Jasmine così come diverse erano le storie che raccontavano. Hai citato tra l’altro due persone con le quali mi sono trovata molto bene e a cui sono molto legata: tendo ad affezionarmi alle persone con cui lavoro, per me è fondamentale farlo ed è fruttuoso ai fini del lavoro. Ragione per cui, a prescindere dai set, Cristina e Jasmine sono persone con cui ho dei rapporti molto belli.

Quindi, per tornare alla tua domanda, in sostanza per me non cambia molto, l’attitudine è quella a mettersi in ascolto e a cercare di capire cosa sto facendo. Non cambia se il regista ha già girato dieci film o è al suo primo lungometraggio.

Però, ci sarà differenza tra curare la fotografia per un film o farlo per una serie tv. Oltre a SuperSex, hai lavorato anche a Bang Bang Baby o a Il miracolo.

Velocità e resistenza sono i due fattori che differenziano film e serie tv. Per un film, hai a disposizione un numero limitato di settimane e un equilibrio, una tenuta sia psicologica sia creativa, che rimane costante. Per una serie tv, invece, devi capire come dispensare bene le energie. Paradossalmente, citando la lavorazione di Bang Bang Baby (di cui ho curato la fotografia solo di tre episodi su sette, mi pare), si riesce a lavorare meglio quando dividi con altri l’esperienza: la collaborazione con Vittorio Omodei è stata ottima, è un buon compagno di lavoro. In rispetto e piena autonomia, abbiamo lavorato insieme ma separati.

Il miracolo, invece, è stata la prima serie tv a cui ho lavorato ed è stata per me un’esperienza particolarmente impegnativa: mi cimentavo con un linguaggio nuovo per tre settimane e con una mente creativa come quella di Niccolò Ammaniti, che comunque viene dalla letteratura. È stata però un’esperienza molto formativa, oltre che bellissima.

Il mio approccio, tuttavia, ai progetti non cambia: una serie tv è come se fosse un film e la cura per il dettaglio o il particolare rimane la stessa. Ritornando all’inizio della risposta, ribadisco che l’unica cosa che cambia è l’energia da mantenere costante per tutta la lavorazione di una serie tv, solitamente molto più lunga rispetto a un film: si deve evitare che si esauriscano pazienza, creatività e curiosità.

Daria D'Antonio sul set.
Daria D'Antonio sul set.

Il tuo percorso è a oggi fatto di tanti titoli. C’è mai stato un episodio in cui avresti avuto voglia di mollare la presa?

No, finora no. Ma potrebbe esserci in futuro, chi lo sa? (ride, ndr). Potrebbe anche essere accaduto ma l’ho dimenticato, si va avanti. Come nella vita di tutti quanti, ci sono dei giorni in cui ci si sente meno positivi ma ciò non vuol dire che ci si può fermare in base al proprio umore: si fermerebbe altrimenti tutta la macchina. Tra le risorse, devi comunque cercare anche quelle che ti aiutano a mantenere una certa calma anche di fronte agli imprevisti o agli ostacoli.

Quello del set è un microcosmo di tante persone che hanno anche una vita al di fuori dell’ambito lavorativo che si portano dietro: la tensione non va mai cavalcata, anche se ci sono quelli che ci lavorano sopra. L’ideale è sempre quello di non creare ulteriori nervosismi: in quell’universo così totalizzante avrebbero ricadute su tutti, dagli attori ai collaboratori.

Hai mai avuto la tentazione di passare dietro la macchina da presa? Ti sappiamo regista di un segmento (Poggioreale) del film collettivo Napoli 24.

Sinceramente, no. Quel segmento nasce dalla mia curiosità personale sulla morte: vivendo a Napoli, il rapporto con l’Aldilà così come il culto dei morti è molto forte. Avevo cominciato una mia ricerca personale sul mondo delle pompe funebri e dei cimiteri e avevo raccolto del materiale quando il produttore Nicola Giuliano mi ha chiesto se avessi qualcosa di mio da inserire su un film dedicato alla città. Un’esperienza, quindi, nata dal caso e non per volontà: magari ci ripenserò quando sarò più grande ma al momento non ho quest’ambizione.

Quanto ti dà fastidio quando nelle interviste come a Samantha Cristoforetti ti chiedono a chi lasci i tuoi due figli quando lavori?

C’è un grande problema culturale non tanto nella domanda ma sul perché la si fa. Implicitamente, si pensa che le responsabilità genitoriali siano da addurre solo alle donne, come se fosse solo il padre a lavorare e i figli fossero appannaggio delle sole mamme: è una questione di rispetto e reputo la domanda fastidiosissima. Ecco perché è importante circondarsi e avere a fianco delle persone che hanno un modo di pensare simile al tuo, come nel caso di mio marito, aiuto regista.

I miei due figli mi hanno seguita spesso sul set, quando si poteva, soprattutto quando andavo via per lunghi periodi. In certi casi, hanno anche frequentato le scuole nelle vicinanze ma, quando non si poteva, con mio marito facevamo delle scelte: se fossi partita io, sarebbe rimasto lui e viceversa. Il nostro è sempre stato un rapporto di grande apertura, collaborazione e… turni. In questo momento, stiamo ad esempio lavorando sullo stesso set ma possiamo contare sull’aiuto di persone che ci supportano: abbiamo dietro una grande rete e organizzazione.

Hai spiegato ai tuoi figli il lavoro che fai?

Mi hanno vista sul set ma a parole non ho mai chiesto che lavoro faccia la loro madre. Mi hai dato un’idea: glielo chiederò, sono curiosa della risposta e di capire cosa hanno elaborato. A casa ci sentono spesso parlare di lavoro, una loro idea se la sono fatta e, per quanto possiamo, cerchiamo di coinvolgerli: sul set sono sempre stati buoni buoni e curiosi, hanno imparato come comportarsi e qualche regista con più pazienza rispetto ad altri se li è anche messi vicini, dando loro le cuffie.

Per lavoro (le riprese di Parthenope), sei scesa in piazza durante i festeggiamenti per lo scudetto del Napoli. Quanto è complicato pensare alla direzione della fotografia in un momento di caos così incontrollato?

È sicuramente complicato ma ho fatto una scelta molto pratica: poche cose a cui pensare e una totale immersione in quel delirio. Tra l’altro, sono tifosa del Napoli ed è stato molto emozionante stare in mezzo alla gente. Così com’è stata un’esperienza molto bella ma che allo stesso tempo mi ha richiesto di rimanere lucida anche quando avrei voluto stare tra le persone a urlare e gioire… ma non potevo farlo o, meglio, potevo farlo dentro e non fuori: dovevo cercare di seguire il mio lavoro e, soprattutto, e di stare attenta a non farmi male. È stata una bella esperienza antropologica!

Non è poi così diversa dall’esperienza che si può provare mentre si gira una scena di sesso come in SuperSex, diciamocelo.

In quel caso occorre però maggior concentrazione e pudore. Bisogna essere quasi trasparenti anche nel rispetto degli attori in scena. Ho anche proposto di spogliarci tutti per cercare una dimensione paritaria!

Daria D'Antonio
Daria D'Antonio con Il David di Donatello 2022.
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