È uscito lo scorso 18 novembre, Rifugio il nuovo album di Darman (distribuito da Audioglobe e prodotto dallo stesso Darwan per Ayawasca Sciamani Musicali). Quarto disco di inediti, Rifugio rappresenta per Darman, giovane cantautore calabrese trapiantato in Piemonte, un discostamento dai tre lavori precedenti: nei suoi nove nuovi brani siamo proiettati in una dimensione più minimale negli arrangiamenti, in cui è preservata l’anima intima e intimistica con cui sono nati.
Nelle nuove canzoni da lui scritte (a eccezione del testo di Come la mente sempre più assisa, di Umberto Alcaro), Darman intraprende un percorso di ricerca di interiorità che possa condurre agli altri, al mondo. La parola “rifugio” assume per Darman un significato completamente diverso da quello comunemente diviso: non è il posto in cui rinchiudersi ma quello a cui dischiudersi. Come il guscio d’uovo presente in copertina sottolinea. La vita per Darman è un’apertura totale verso la scoperta del mondo, della vita vissuta a 360°, della conoscenza di sé stessi e, di riflesso, degli altri.
Di Rifugio ma anche di tanto altro abbiamo parlato con Darman per un’inedita intervista in cui rivela anche molto di sé, come mai fatto in precedenza.
Intervista esclusiva a Darman
Darman, sei una bella incognita da scoprire. I tuoi profili social non dicono nulla di te che non sia la musica.
Da sempre tendo a tenere strettamente separate le due vite, quella privata e quella artistica. Anche se la vita artistica è strettamente permeata da ciò che sono nella vita reale. L’immagine che restituisco non è semplicemente artistica ma è quella reale di me. Uso i social per comunicare qualcosa che è legato alla musica, non mi piacere mettere in mostra qualsiasi parte di me giusto per riempire uno spazio. Qualunque esperto di marketing storcerebbe il naso di fronte a questa affermazione ma lo faccio in maniera cosciente: non voglio che ci sia promiscuità. A me interessa arrivare attraverso la mia musica, che la gente comprenda e capisca cosa voglio trasmettere con un disco.
Un disco che ha come titolo Rifugio, un concetto a cui tendi a dare un significato diverso da quello della parola che tutti usiamo. Per te, il rifugio non è il luogo in cui rinchiudersi ma è quello a cui dischiudersi, il mondo intero. Come nasce Rifugio?
Rifugio nasce dalla consapevolezza di aprirsi al mondo. E per farlo devi aver conosciuto te stesso. Solo conoscendoti, riesci a mostrare il tuo mondo interiore agli altri e a far sì che gli altri si “auto conoscano” e conoscano gli altri. La vita umana è fatta di cose belle ma anche di cose malinconiche e di mancanze che devi metabolizzare: Rifugio mi è servito per mostrare un lato più sensibile di me stesso, un’intimità che non ho mai messo in piazza. E l’ho fatto con un linguaggio anche più semplice rispetto al passato: è la semplicità che comporta la capacità di capire come siamo e chi siamo.
Quanto la pandemia ha pesato sulla sua genesi?
Prima che scoppiasse la pandemia, stavo lavorando a un disco molto elettrico, molto potente, Necessità interiore. Parallelamente, continuavo a fare quello che faccio sempre: comporre le canzoni più disparate, alcune delle quali con l stesso stile intimistico di Rifugio. Non a caso, nel disco sono finite anche canzoni che avevo scritto in precedenza nella mia vita e altre che sono nate appositamente.
Nel giugno del 2020, a seguito della prima apertura dopo il primo lockdown, con la mia ragazza sono scappato ad Agay, nella costa francese. Tutto l’azzurro che avevamo davanti ha portato a un risvegliarsi dei sensi: stare in contatto con la natura mi ha permesso di scoprire quelle piccole grandi cose che ci erano mancate nei mesi di chiusura. E ha dato il la per canzoni che parlassero proprio di quelle piccole sensazioni, quelle che la natura ispira nella mente di un artista. Quindi, la pandemia ha sicuramente giocato un ruolo attivo.
Ma non solo. Necessità interiore, il mio terzo disco, è uscito nell’aprile del 2020 in piena pandemia. È saltato un tour europeo già programmato e per non lasciarmi abbattere ho dato vita a un tour virtuale sulle pagine social dei locali in cui avrei dovuto suonare. Il ritrovarsi come unico strumento la chitarra acustica mi ha poi fatto nascere l’idea di un disco intimo, quasi estemporaneo. Avrei voluto pubblicare subito Rifugio una volta terminato ma nell’autunno del 2020 la seconda ondata della pandemia lo ha mandato in cantina a riposare un po’, come un buon vino. È vero che è acustico ma era meritevole tanto quanto i precedenti delle giuste cure: non a caso, alla produzione ha lavorato Christian Lisi e alla masterizzazione Nicholas Todd Petersen.
Rifugio contiene due tracce che sono strumentali. La prima è Intro-Verso mentre la seconda è Ellittica. Mi colpisce il loro posizionamento nella track list: in apertura e poco prima della chiusura affidata a Come la mente assisa, l’unico brano non scritto da te.
Intro-Verso è un’ouverture che permette all’ascoltatore di entrare in casa mia, nella mia intimità. Ho voluto che ci fosse questa sensazione di “entrata”: si spiegano così il sentore di passi sul legno con i quali mi avvicino per prendere la chitarra.
Come la mente assisa, l’ultima traccia, è il primo brano che pubblico il cui testo non è stato scritto da me: richiama tutti i significati del disco, un disco che va bene in tutte le stagioni (ci sono canzoni estive, autunnali, primaverili o invernali), e che in pratica fa il giro di tutti i 365 giorni dell’anno. Ellittica, dunque, fa da spartiacque tra le canzoni che descrivono le stagioni come sensazioni e l’ultima che praticamente le abbraccia tutte quante.
Si chiama Ellittica perché richiama anche l’uovo della copertina ma non solo. Ellittico è anche il moto che la terra compie intorno al sole: l’ellisse è una forma ricorrente nell’universo, dicono una delle più importanti. Quindi, Ellittica restituisce anche nelle sonorità il senso di universalità dell’interiorità.
Liceo scientifico alle spalle?
No. Ho frequentato il tecnico industriale alle superiori, non chiedermi perché. Sono finito a fare il perito elettronico delle telecomunicazioni ma poi mi sono laureato in Farmacia: ecco perché nelle canzoni parlo spesso di chimica. Ho poi fatto un master in Farmaceutica Territoriale e lo scorso 7 novembre mi sono laureato in Scienze della Nutrizione Umana.
Ho anche studiato musica per un sacco di anni e sono un sommelier di terzo livello. Sono multitasking, non mi piace solo essere permeato nella musica. Molto spesso se pensi solo alla musica, ti fossilizzi e diventi un esteta estrema del virtuosismo e della tecnica. E finisci con il perdere la passione per la musica stessa. Chiaramente ho studiato la tecnica e mi piace essere preciso e meticoloso nelle registrazioni.
Che fossi meticoloso era chiaro dai tuoi testi. Non ci sono mai ripetizioni banali e, aspetto per me molto importante, non snaturi gli accenti delle parole per questioni di pura metrica.
I soloni di turno ti diranno che non va bene. Ma a me piace molto rispettare la lingua italiana e mi piace quando a farlo sono i giovani. Mi ha aiutato molto l’ascolto dei Marlene Kuntz: Cristiano Godano se n’è fregato abbastanza, ha badato a mantenere il più possibile intatto il testo mettendolo sulla musica che voleva.
E a proposito di testi non posso non soffermarmi su quella che reputo la canzone più intima dell’album, L’essenza. Mi mancate, semplice, conciso. Chi ti manca?
Si scoprirà nel video che ho appena finito di girare. L’essenza sarà il nuovo singolo ed è una scelta abbastanza insolita. Solitamente, i singoli si scelgono tra la prima e la quarta traccia: me ne sono fregato e ho optato per la settima. L’essenza è stata scritta dopo che i miei genitori sono venuti a trovarmi per Natale il secondo anno che stavo in Piemonte. Per questioni lavorative, non riuscivo a scendere in Calabria e quindi son venuti loro da me. Tuttavia, quando se ne sono andati, il vuoto è stato ancora più forte rispetto a quando vado via io dalla Calabria. Solitamente sono io a lasciar loro, quella volta è accaduto il contrario.
Com’è stato per te spostarti al nord Italia e lasciare la tua terra?
Uno strazio. È stato veramente difficile, soprattutto i primi anni, far combaciare ogni cosa: la realizzazione personale porta a mettere da parte alcune cose che sono essenziali. Si combatte sempre che il voler tornare ma ho capito con il tempo che non esistono posti fisici ma solo posti immaginari a cui siamo legati. È un’idea che prendo in prestito da uno scrittore calabrese, Domenico Dara.
Durante un’intervista al Salone del Gusto, Dara ha detto che viviamo nel ricordo di una Calabria che non è un ricordo fisico ma temporale. Ovvero, per noi la Calabria è qualcosa di estremamente legato al tempo e non allo spazio. Ha aggiunto, facendomi riflettere molto, che paradossalmente era contento di essere andato via dalla sua terra subito dopo la fanciullezza. In questo modo, il ricordo di quella terra era rimasto in lui intatto, non sporcato dal pensare da adulto.
Io non ho avuto la sua stessa fortuna: sono andato via a 25 anni da un paese piccolissimo che è stato oggetto di un’immigrazione massiccia. Quasi tutti gli amici che avevo sono andati via: tutte le volte che torno giù, non ho nemmeno la possibilità di raccordarmi con tutti quelli che come me sono fuori. Non riusciamo mai a incastrarci.
Per esperienza, però, so che non bisogna vivere con un piede qua e un altro là. L’ho capito dopo dieci anni: siamo figli di un universo così grande che pensare che siamo solo quello che siamo stati da piccoli è anche sbagliato. Si possono trovare un miliardo di sensi anche nei posti in cui vivrai da adulto e dove vivrai altre esperienze. Alla fine, la vita è fatta di esperienze e non è giusto rimanere cristallizzati nel passato: occorre continuare a vivere tutti i rifugi possibili e immaginabili.
Zabaione è un’altra delle canzoni molto intime e rivelatrici dell’album.
Zabaione non è la descrizione di qualcosa di mio ma fa riferimento a una scena che mi racconta spesso la mia ragazza. È scritta al femminile: è come se in quel momento fossi la mia ragazza che vive quella situazione su quella sediolina a casa della nonna. La sediolina è ancora oggi lì a ricordare che alcuni oggetti hanno un valore affettivo che esula da quello materiale: per altri non vorrà dire nulla per lei è legata a una serie di momenti vissuti difficili da dimenticare.
Lo zabaione che le fa la nonna (in Calabria, non diremo mai “ti preparo lo zabaione ma ti faccio”) è quello semplice, tipico del sud: uova e zucchero. E torna ancora una volta il riferimento al guscio d’uovo della copertina di Rifugio.
Cosa porteresti nel tuo ipotetico rifugio, inteso nel senso più classico del termine?
Una chitarra, innanzitutto. La mia ragazza, gli affetti e un buon bicchiere di vino. Direi che è un buon kit di sopravvivenza ma nel rifugio deve esserci il caminetto. Vengo da un paese di montagna e il camino era il luogo davanti a cui ci si riuniva. Era l’unica zona parte che riscaldava la casa, il focolare. Il caminetto di ricorda il passato e fa, soprattutto, casa.
Ti rendi conto che è venuta fuori l’immagine del rocker che si rivela l’uomo dal cuore d’oro?
Il bello di fare un percorso è avere bene in testa quello che si vuole e quello si è. Oggi ho determinate consapevolezze ma ci sono arrivato con sofferenze anche psicologiche per eventi che sono successi negli anni. E non voglio nascondermi: ho imparato a metabolizzare i momenti tragici provando a trovare in essi dei risvolti positivi.