Arriva in sala l’8 giugno, distribuito da Lucky Red, il film Denti da squalo, primo lungometraggio con la regia di Davide Gentile. Prodotto da Goon Films, Lucky Red, IdeaCinema con Rai Cinema in collaborazione con Prime Video, racconta l’estate del tredicenne Walter (Tiziano Menichelli) che, nell’elaborare la tragica morte del padre (Claudio Santamaria) e superare gli screzi con la madre (Virginia Raffaele), vive la più incredibile e formativa avventura della sua vita grazie a una serie di incontri inaspettati nella periferia romana: un ragazzino come lui (Stefano Rosci), un teppistello locale (Matteo Scattaretico), un criminale dal passato misterioso (Edoardo Pesce) e… uno squalo, che vive recluso in una piscina.
Cercare di etichettare un film come Denti da squalo non è facile e lo sa bene anche il regista, Davide Gentile, con cui abbiamo cercato di analizzare temi raccontati, scelte stilistiche e composizione del cast. Di fronte a un’inaspettata ma sincera vulnerabilità, Davide Gentile non nega come Denti da squalo sia un film che lo abbia riportato agli anni della sua preadolescenza, quando da mutante anche lui si è sentito non capito isolandosi dal resto del mondo e da quei coetanei che lo volevano a ogni costo maschio alfa.
Figlio di una coppia di scrittori e giornalisti affermati (Enzo Gentile e Paola Calvetti), Davide Gentile ancor prima di esordire alla regia aveva chiara un’idea: non avrebbe mai seguito le orme dei genitori per non sentirsi etichettare come “figlio di” o rinfacciare agevolazioni nel suo percorso. Non ha come altri scoperto il cinema da bambino giocando con le videocamere di famiglia: no, è una passione che in lui è nata da grande e che è ancora in fase di scoperta.
Una scoperta che, aggiungiamo noi, è un piacere per gli occhi e per l’anima. Perché prima di tutto Denti da squalo con la regia di Davide Gentile (determinato a ricordare che un film non è solo del regista ma di tutti coloro che vi lavorano) è un racconto intimo, gentile e pulito, che cerca di indagare, con l’aiuto degli effetti speciali, il superamento di un dolore immenso come quello legato alla morte di un genitore e il riavvicinamento all’altro rimasto in vita, a cui presta volto una sorprendente Virginia Raffaele.
E trovare il proprio posto nel mondo come il piccolo Walter è ciò che oggi Davide Gentile cerca di fare: con un film come Denti da squalo o con un’intervista in cui lascia scoprire lati che solitamente si tendono a nascondere.
DENTI DA SQUALO: GUARDA LA CLIP IN ESCLUSIVA DEL FILM DI DAVIDE GENTILE
Intervista esclusiva a Davide Gentile
Un cortometraggio alle spalle su un tema complesso Food for Fight (un thriller sul consumo del cibo spazzatura nella società moderna), in cui ha fatto di tutto, dal producer al runner. Si presenta così Davide Gentile: “È stata l’esperienza che mi ha cambiato la carriera e che mi ha permesso di tirar fuori qualcosa di mio, un cortometraggio che è invecchiato anche bene, direi. In quella storia, ci sono io: il tema nasce da me e dal mio pensiero fisso al cibo, un’ossessione quasi a cui penso 24 ore al giorno”
Denti da squalo è il tuo primo film. Come ci si sente alla vigilia di un debutto così importante?
Il debutto vero e proprio è stato un anno fa. Quando mi chiedono se sono emozionato, agitato o felice, chiaramente rispondo che lo sono molto rispetto alla prima in sala perché saranno presenti i miei genitori e tutti i miei amici: sarà come se fosse una sorta di matrimonio, dove tutte le persone della tua vita si presentano e guardano il lavoro che hai portato a termine. Quindi, anche se sarà un bel check con chi guarderà il film, non sento alcuna tensione.
Ho voglia che le persone vedano Denti da squalo perché mi interessa molto il loro punto di vista ma non ho nessuna ondata di chissà quali emozioni o sensazioni, positive o negative: sono abbastanza tranquillo. Chiaramente lo dico oggi ma non so se poi in realtà mi assalirà l’ansia. Mi piace comunque l’idea che il film possa generare un confronto o dar vita a una conversazione: mi tornerebbe utili per il mio futuro. Non mi sento certamente arrivato da nessuna parte: nonostante i dieci anni di carriera da regista alle spalle, è come se per me fosse il giorno zero. Che ben vengano scambi, conversazioni e analisi utili alla mia crescita.
Un ragionamento che ti fa onore…
La verità è che sono io il mio primo critico. Quindi, non sono qua a fare salti gioia. Non significa che non sia contento, eh. È chiaro che sono orgoglioso perché, comunque, è un’operazione che è già andata bene per quello che doveva: io e il mio team abbiamo rispettato il budget e i tempi di produzione e siamo molto contenti di come siano venuti fuori bene gli attori. Ma sono il primo a riconoscere dentro me stesso dove dovrei migliorare: non mi sento, ripeto, arrivato e sono consapevole, se vogliamo, di come sogni di fare anche un cinema diverso.
Direi che Denti da squalo rappresenta un buonissimo esordio per me: l’obiettivo era quello di mostrare un po’ le mie capacità e di mettermi sulla mappa cinema. E per riuscirci ho accettato di dirigere una storia non mia: io né so scrivere né ho l’ambizione a farlo. Mi faccio un sacco di paranoie e mi metto molto in discussione!
Tuttavia, sono contento che il film esca prima al cinema e non in piattaforma: mi sarebbe dispiaciuto se le persone lo avessero visto con superficialità o distrazione come spesso accade sul “piccolo” schermo. Nel bene e nel male, Denti da squalo è un film che è ricco di dettagli e sfumature, sui quali io e il mio team abbiamo lavorato sodo.
E uscire al cinema è un bel vantaggio: “obbliga” le persone sedute a concederti del tempo per raccontare loro tutto senza che abbiano voglia di lasciare la storia a metà. come purtroppo capita con i contenuti che si fruiscono in una dimensione casalinga. In quell’ora e mezza in sala lo spettatore si deve concentrare, portando il film ad avere il respiro giusto: quel tempo serve a ricollegare tutti gli indizi che vengono dati, per far crescere i personaggi e avere una visuale più generale e completa. E poi, diciamocelo, è un film pensato per il grande schermo: ci sono pochi dettagli e tantissimi campi larghi.
Usi spesso l’espressione “io e il mio team”, quasi a qualificare e a rendere omaggio a tutto il lavoro di squadra.
L’ostentazione, l’esagerazione e il vigore non fanno per me. Non subisco quel tipo di pressione o di fascinazione. C’è chi crede che nel cinema serva conflitto nelle relazioni oltre che nelle storie. Io sono del parere che serva conflitto nella drammaticità ma che per il resto occorre armonia: è quella che fa di un film un bel film e di una squadra una squadra vincente. Per Denti da squalo abbiamo lavorato tutti in un’unica direzione condivisa e armonica e credo che vedendo il film emerga: non c’è un reparto, dalla fotografia ai costumi agli attori, che non segua quella strada.
L’esaltazione del regista non mi rappresenta come tipo di filosofia: anzi, credo che i registi generalmente siano messi fin troppo sul piedistallo o troppo considerati rispetto a quello che altre figure danno a un film. Penso ad esempio a chi si occupa del montaggio: i montatori sono visti come dei tecnici quando invece sono una vera e propria seconda penna e regia. Dal mio punto di vista, imporre le mie idee o avere un atteggiamento da despota non porta da nessuna parte: sono una persona abbastanza delicata e poco egoriferita per cui non trovo giusto nessun atteggiamento narcisistico sul set.
Ho anche voluto che dai poster si togliesse la scritta “un film di Davide Gentile: il film è di tutti, per cui “regia di Davide Gentile”.
Anche perché è un tipo di atteggiamento che poi andrebbe a scontrarsi anche con le forti personalità che ci si ritrova a dirigere. E che nel tuo caso rispondono ai nomi di Virginia Raffaele, Edoardo Pesce e Claudio Santamaria.
Sono stato fortunato a lavorare con dei professionisti come loro, lungi dall’avere atteggiamenti divistici: mi sarei trovato altrimenti in una posizione difficoltosa. Sento certi colleghi o voci di corridoio su alcuni attori che fanno i capricci, che arrivano in ritardo sul set o che hanno atteggiamenti da primedonne: tutto quello che io invece non ho avuto sul mio set. Edoardo, Claudio e Virginia sono le ultime persone che potrebbero avere quel tipo di egocentrismo ingombrante. Abbiamo potuto impostare insieme i dialoghi e confrontarci sui personaggi partendo da un rapporto di reciproca fiducia.
Nonostante Denti da squalo fosse il mio primo film, da loro ho avuto disponibilità totale, non ho mai percepito diffidenza o sofferenza. Le aspettative erano alte soprattutto per Virginia che, abituata a un certo tipo di standard, affrontava il suo primo ruolo drammatico ma tra l’essere esigenti e l’essere egocentrici c’è un bel divario, pieno di tante sfumature.
Mentre Claudio Santamaria ed Edoardo Pesce interpretavano personaggi che rientrano, se vogliamo, nella loro comfort zone, Virginia Raffaele è stata chiamata come hai appena sottolineato alla sua prima prova drammatica. È stato complesso levarle di dosso la maschera da attrice comica?
Così come lei, partivo da zero anch’io. Sinceramente, non la conoscevo come personaggio perché ho vissuto per tanti anni all’estero, a Londra, senza vedere la televisione italiana. Quando me l’hanno proposta, mi sono documentato e ho visto quello che faceva ma non partivo da uno sguardo già inquinato o condizionato da ciò che aveva fatto. L’ho dunque conosciuta prima come persona (super umile e autentica) e abbiamo trascorso insieme una bellissima giornata a Ostia per conoscere i ragazzi.
Con lei, non mi sono mai relazionato con sudditanza o referenzialità e non mi sono mai sentito meno esperto o in difetto. E non ho dovuto nemmeno toglierla la maschera da attrice comica: l’ho presa per quello che mi ha trasmesso sin da subito. Virginia, poi, teneva particolarmente al ruolo e si affidata molto: non ha mai messo se stessa al centro ma, al contrario, ha come fatto un passo indietro.
Ricordo ancora il provino a cui l’abbiamo sottoposta - era necessario proprio perché nessuno l’aveva mai vista recitare in un ruolo drammatico – e non dimenticherò mai l’umiltà con cui si è presentata al casting. Ed è stata questa a legarci: per molti versi, Denti da squalo era un primo film per entrambi. Ci siamo messi in posizione d’ascolto e di condivisione e mai di “prepotenza” o egocentrismo: ci siamo fatti molte chiacchierate giuste per conoscerci.
Stare molto tempo all’estero non ti ha un po’ allontanato dal tuo contesto di partenza?
Per qualche anno, ho avuto una sorta di rigetto verso l’Italia: guardavo più all’estero come modello lavorativo e con un occhio forse un po’ presuntuoso al mio Paese. Quello mi ha portato anche ad essere poco attento a quello che succedeva da noi, perdendomi sicuramente anche delle cose belle. Da un lato, ciò mi dispiace perché adesso, parlando con gente del settore o vivendo a Roma, mi trovo spesso in difficoltà nel parlare di certi artisti, di certi film o di certi passaggi storici o culturali. Dall’altro lato, però, mi ha permesso di essere libero da una sorta di infarinatura che poteva derivare da certe visioni, ascolti o incontri, che in maniera anche inconscia avrebbero avuto ripercussioni sul set.
Per farti un esempio pratico, in Denti da squalo, raccontiamo di criminalità della periferia romana ma lo facciamo in maniera sobria, allontanandoci da certi modelli visti in certi film. Questo perché sono arrivato completamente vergine alle riprese. È stato un bel rischio per i produttori avere un regista che non ha mai vissuto in Italia se non nei primi anni di vita. Poteva rappresentare una bell’insidia lavorare con un dialetto che non conoscevo, una realtà che non avevo mai visto e temi che non avevo mai trattato.
Se l’abbia superata o meno, spetterà valutarlo a voi che vedrete il film. Tuttavia, dal mio punto di vista, l’essere arrivato con lo spirito completamento fresco rispetto a certi luoghi, temi, linguaggi e personaggi, ha contribuito a un’originalità perlomeno di sguardo.
Secondo un famoso detto nel mondo del cinema, quando si inizia a fare cinema sarebbero da evitare bambini e animali…
In realtà, si dice che sono da evitare bambini, animali e acqua. Ecco, nel caso di Denti da squalo, abbiamo avuto tutti e tre gli elementi in un unico film!
Qual è stata la difficoltà maggiore nel far recitare il piccolo Tiziano Menichelli? E quale quella di farlo interagire con uno squalo che poi diventava tale grazie agli effetti speciali?
Grazie alla mia formazione pubblicitaria, non era per me nuovo lavorare con dei minorenni: l’ho sempre fatto più con i bambini che con i ragazzini. Tuttavia, i 13 anni erano un’età che non conoscevo bene, tanto che mi sono documentato molto a livello psicologico. Mi è tornato utile ad esempio I mutanti, il libro di Sofia Bignamini che racconta nel dettaglio quella fase della crescita, la pre-adolescenziale, che volevo approfondire per capire cosa si vive in quell’età.
Facendo i casting, mi sono reso conto che quello dei tredicenni è un mondo molto variegato, fatto di esplosione ormonali, un certo tipo di pensieri e di momenti di crisi. Da questo punto di vista, Walter è ancora un bambino dal punto di vista fisico: non ha ancora ancora quel tipo di aggressività che comporta anche il testosterone. È semmai un ragazzino molto delicato e introspettivo, una caratteristica che mi ha attirato molto: anch’io alla sua età avevo quel tipo di carattere.
Con Tiziano ma anche con Stefano Rosci, i due ragazzini non attori, non potevo relazionarmi come con i professionisti: dovevo in qualche modo responsabilizzarli sul fatto che quello che stavano facendo sul set era un lavoro e che doveva farlo seriamente. Non era un gioco, anche se dall’altro lato doveva anche essere un gioco per tirar fuori quella spontaneità e quella naturalezza che cercavo. Ho dovuto dunque instaurare con loro un certo tipo di rapporto, fraterno ma anche professionale. E ci sono riuscito grazie all’appoggio delle famiglie, che mi ha dato la massima disponibilità, ma anche di loro due, che si sono impegnati nel cercare di seguire le mie indicazioni.
In particolar modo con Tiziano, ho dovuto semplificare molto: non leggeva gli stralci (le parti giornaliere da recitare, ndr) e veniva sul set impreparato. Inizialmente, il suo comportamento mi faceva molto arrabbiare perché mi aspettavo maggiore attenzione da parte sua. Dopo ho capito invece che era la sua modalità per staccare la sera e ripresentarsi la mattina presto sul set: aveva bisogno di distrarsi. Per cui, magari non conosceva a memoria le battute ma capiva quello che mi serviva una volta davanti alla camera (non facevamo prove sul set). Non sempre capiva le mie indicazioni ma è stato bravo a capire cosa volessi, oltre che intelligente nel restituire le sfumature che cercavo.
Forse sono stato meno professionale di quello che avrei dovuto essere perché l’ho messo in una campana di vetro più di quanto dovesse starci. Ma sentivo che più si fosse sentito sereno, tranquillo e protetto, più avrebbe reso.
Lo squalo… un bel rompicapo per tutti. Avevamo due diverse strade da percorrere e le abbiamo prese entrambe. Per le riprese, ci siamo serviti di un esemplare in animatronic mentre in post produzione abbiamo lavorato di effetti speciali. Anche se non aveva una resa visiva pazzesca, lo squalo in animatronic dava contezza della sua fisicità e favoriva l’interazione con gli attori. Sia Tiziano sia Stefano sono stati facilitati dalle mie indicazioni sull’immaginarsi uno squalo vero e proprio. Ma su una cosa occorre essere sinceri: la paura non è mai stata una delle nostre preoccupazioni: Denti da squalo non è un film horror ma è un film dolce, emotivo e delicato su un bambino che perde un padre.
Come sottolinei, Denti da squalo parla dell’elaborazione di un dolore. Per raccontare di un dolore, spesso, occorre viverlo per percepirne tutte le sfumature. A cosa hai fatto appello per raccontarlo?
Né io né Tiziano abbiamo mai perso un genitore e, quindi, abbiamo dovuto fare riferimento alle indicazioni che ci venivano date dalla sceneggiatura. Quando ho ricevuto la storia, mi sono chiesto anch’io a cosa agganciarmi: i miei genitori stanno benissimo, vado d’accordo con entrambi, non ho mai avuto un padre criminale o una madre che vive in periferie e non ho un certo tipo di background che mi aiutasse a capire certe sfumature.
Come accennavo prima, mi sono basato molto sull’emotività e sulla solitudine che vive Walter perché anch’io alla sua stessa età vivevo esattamente le stesse dinamiche anche se per motivi diversi. A dodici o tredici anni non mi sentivo capito: mi sentivo molto lontano dai miei coetanei e dalla mia famiglia e mi sono un po’ isolato. Non sono dunque partito dal lutto, anche se tanti anni fa ho perso un amico a cui volevo molto bene (una situazione comunque diversa da quando si perde un genitore seppur drammatica).
Rimaneva comunque la difficoltà di far capire a Tiziano certi momenti e le emozioni in gioco. Tanto che c’è stato anche un momento difficile durante le riprese. Dovevo girare la scena in cui Walter manda a quel paese la madre Rita: Tiziano non conosceva quel tipo di rabbia, non l’aveva mai vissuta e non aveva nulla di così forte o drammatico da cui poter pescare la cattiveria necessaria.
La rabbia non faceva e, mi sento di dire, non fa parte del suo carattere. E, quindi, per quella scena ho dovuto stimolargliela io, con grandissimo dolore, sbroccando e urlandogli addosso. Ho volutamente esagerato nel dirgli che non era capace di girare la scena, tanto che è rimasto poi arrabbiato con me fino a fine giornata. Ma è stato grazie a quella rabbia che ha girato la scena in maniera perfetta: non mi ha parlato per quattro ore fino a quando, con quella sua grande intelligenza emotiva che ho intercettato sin dalla prima volta che l’ho guardato giocare a basket quando l’ho trovato a Ostia, ci siamo confrontati e mi ha sorpreso nel dirmi “ho capito perché lo hai fatto”.
Da cosa nasceva il tuo sentirti non capito da ragazzino?
Correva l’anno 1996, parliamo di più di vent’anni fa: non c’erano ancora i cellulari, internet o altri mezzi per comunicare con gli amici quando ho cambiato scuola perché i miei genitori hanno cambiato casa. È coinciso per di più con il passaggio dalle scuole elementari alle medie. Nel giro di un anno, mi sono ritrovato a non avere più punti di riferimento: non avevo più amici, il parchetto in cui andavo a giocare e l’edicola sotto casa dove c’era la vecchietta che già mi conosceva.
Cambiando zona, mi sono trovato completamente sperso e ciò si è tramutato in una chiusura di base, in un isolamento che poi i miei genitori hanno cercato di colmare facendomi fare sport e mandandomi da uno psicologo. A quell’età non avevo gli strumenti per affrontare quella malinconia che avevo di mio ma che ancora non conoscevo. Ricordo quegli anni come i più vuoti della mia esistenza. Ho impiegato tempo a riprendermi: mi sono lasciato alle spalle quel periodo buio intorno ai quindici anni.
La scuola ha contribuito non poco al mio isolamento. Già alle elementari il mio animo sensibile non veniva capito e veniva considerato una debolezza figuriamoci poi in una scuola in cui avevo dei compagni di classe dal carattere forte che avevano degli atteggiamenti da bulli. È qualcosa che ho subito molto e che, non parlando tanto, incassavo facendo fatica nella socialità. E isolamento, tristezza e malinconia fanno parte delle dinamiche che raccontiamo in Denti da squalo.
Denti da squalo ha un bellissimo rapporto di amicizia al suo centro: quello tra Walter e Carlo (presentato a Rita come Elio ma che poi scopriamo chiamarsi Giancarlo). Un rapporto che sottolinea come fondamentale sia proprio l’amicizia in quella fase di vita.
Quella che ricordo fondamentale in quel periodo era l’amicizia con i miei nonni. Mio nonno era il mio amico del cuore: ha fatto veramente tutto quello che si poteva fare per me. Tra l’altro, casualmente, si chiamava Elio: mi ha stupito ritrovare quel nome in sceneggiatura dal momento che non è così comune.
Ho fatto tutto con i miei nonni: ho imparato ad andare i bici, a giocare a scacchi, a giocare a carte, a nuotare… andavo anche in vacanza con loro! I miei genitori lavoravano tanto e, quindi, mi ritrovavo sempre con i nonni.
Devi a loro la tua passione per il cinema?
No. Fino a pochi anni fa non avrei mai pensato di fare cinema. Spesso sento di colleghi che raccontano di aver cominciato a maturare il desiderio di fare film quando da bambini avevano in mano la Super 8 del papà. Io no: mi sono ritrovato a far questo lavoro un po’ per caso, non ho mai ad esempio studiato cinema (ho seguito un corso di montaggio per disperazione, non sapevo cosa fare, ma poi l’ho abbandonato). Ho cominciato a valutarlo come mezzo per raccontare storie quando cinque anni fa da pubblicitario mi sono reso conto che non mi bastavano più i tempi che avevo a disposizione.
Sono sempre stato restio all’idea di seguire il lavoro dei miei genitori: non ho mai voluto fare lo scrittore o il giornalista. Non volevo percorrere la loro stessa strada, diventare il “figlio di” o trovare certe porte già aperte. Ho cominciato allora a fare il commentatore sportivo prima di tanti altri lavori improponibili che con il cinema non c’entrano niente.
Mai studiato cinema: eppure, riesci a tenere le fila di un racconto che abbraccia diversi generi, dal thriller alla commedia, passando per il coming of age e l’avventura, senza che le diverse parti sembrino tra loro scollate.
Ed era l’aspetto che preoccupava maggiormente me e la mia squadra. Mi fido di quello che dici: ognuno di noi ha il suo livello di lettura. La cosa strana è che ho sempre la sensazione che ciò che ho girato non mi rappresenti mai fino in fondo, come se non riuscissi mai a tradurre tutta la mia sensibilità nel lavoro: la trovo sempre limitata. Per certi versi, è come se iniziassi a delineare adesso i contorni di quello che sono come regista.
Se dovessi scegliere un genere che senti più tuo quale sarebbe?
È difficile rispondere a questa domanda con certezza. So che il prossimo passo sarà sicuramente un cortometraggio: un nuovo film richiederà chiaramente tempo. Adesso sento l’esigenza di togliermi di dosso un po’ di impalcatura estetica o di patina commerciale per lavorare a qualcosa che sia un bel pugno in faccia allo spettatore. Mi piacerebbe concentrarmi su tematiche che mi toccano molto ed essere meno candido, dolce o pulito: vorrei sporcarmi e vorrei farlo prima di tutto a livello personale. Solo dopo averlo fatto a livello intimo, potrei trasportare il tutto nelle cose che racconto. Vorrei scuotermi e uscire dalla mia comfort zone per tirar fuori ciò che ho dentro e scavare là dove non ho ancora fatto.
Hai trovato il tuo posto nel mondo come il piccolo Walter?
Ma quando mai (sorride, ndr)… Vivo una malinconia esistenziale che poi ha ripercussioni anche nei miei rapporti. Non sono mai contento fino in fondo: non è una ricerca miope e spasmodica di chissà che cosa, è semplicemente irrequietezza, uno stato d’animo che manifesto anche nei rapporti con le donne. Faccio fatica a godermi le cose belle che ci sono o che mi accadono… e infatti in questo periodo sto cercando di educarmi a questo bel momento che è presente nella mia vita - i complimenti per il film, le nuove persone che incontro, i dialoghi bellissimi che ho con degli sconosciuti – senza sentirmi continuamente inadeguato. Sto cercando di accettarmi per quello che sono, compresi i lati negativi.
Mi stupisce in positivo il modo in cui parli delle tue vulnerabilità.
A me piace molto parlarne perché sono pane quotidiano. Il 90% delle persone che mi circondano sono ad esempio donne (non parlo chiaramente di amanti o fidanzate): mi trovo molto più in sintonia con il pensiero femminile. Troco che gli uomini siano spesso superficiali, banali e anche un po’ sempliciotti. Ed è un lato di me che ho dovuto accettare negli anni smettendo di sentirmi in difetto verso gli altri maschi che a vent’anni ad esempio parlano di calcio, figa e macchine: non ho mai amato quel tipo di machismo o di cameratismo.
Sono molto propenso all’ascolto. Sarà anche per questo che sono convinto di essere molto diverso da quello che racconto: chi mi conosce dice che dai miei lavori esce un Davide più trattenuto, come se mi fossi nascosto o voluto rendere invisibile. La mia aspirazione massima è far sì che questa scollatura non esista più. In Denti da squalo ci sono io ma non ci sono ancora io: è il mio primo passo di quella fase di scoperta che mi porterà a capire quello che posso dare e chi sono.