Denise Tantucci è quello che non ti aspetti. In un mondo in cui l’apparenza prevale sull’essenza, Denise Tantucci è in grado di spiazzarti con una disarmante sincerità e, soprattutto, autoironia (dote che sempre in meno hanno) sia sul suo lavoro di attrice sia sulla sua vita privata, segnata da un’autodeterminazione che non ha eguali e dalla consapevolezza di sapere sempre chi si è, anche quando si alza volontariamente l’asticella del proprio oggetto del desiderio.
Alla Festa del Cinema di Roma, Denise Tantucci è protagonista di due film tra loro molto diversi, che in qualche modo diventano il simbolo di un percorso artistico costruito con grande libertà e mosso da un solo desiderio: la voglia di stare sul set e recitare. Ragione per cui Denise Tantucci ha sempre rifuggito etichette e confini, spaziando da un autore all’altro e, cosa non da poco quando ancora esisteva quel preconcetto che separava tv e cinema, da un mezzo all’altro.
Il primo è Wanted di Fabrizio Ferraro, un’opera che, scritta dallo stesso Ferraro in collaborazione con Valerio Carando e prodotta da Vivo Film con Rai Cinema, ci mostra il mistero di interi quartieri della metropoli che si svuotano di presenze umane a causa di un non meglio specificato nuovo ordine che indaga e reprime. In tale contesto, distopico ma anche stranamente attuale, le vite di tre donne si intrecciano in un ambiguo gioco di fughe e catture, ribaltando continuamente il concetto di vittima e carnefice. Denise Tantucci interpreta la “prigioniera”, un personaggio senza nome che l’ha portata a trovare ispirazione nel legame tra fisica e poesia. E non stupitevi: Denise Tantucci è laureata in fisica.
Il secondo, invece, è Hotspot – Amore senza rete, una commedia romantica firmata da Giulio Manfredonia, proposto nella sezione Panorama Italia di Alice nella Città. Scritto da Roberto Proia e Mauro Graiani, è la prima co-produzione tra Eagle Pictures e Sony Pictures International Productions ma bisognerà attendere il 2024 per vederlo. Nel film, Denise Tantucci interpreta Tina, una giovane ballerina di danza classica che, per mezzo del destino, conosce Pietro (Francesco Arca) all’aeroporto di Londra, dando il via a una storia d’amore insolita e piena di tribolazioni, magica quanto divertente. E pensare che Denise Tantucci non si sente portata per la commedia…
Intervista esclusiva a Denise Tantucci
“Un risveglio ostico”, è la prima battuta che nel corso di un’intervista sincera e onesta Denise Tantucci mi lancia quando le rivelo di aver visto Wanted, il film di Fabrizio Ferraro presentato alla Festa del Cinema di Roma di cui è protagonista insieme a Chiara Caselli e Caterina Gueli, alle sei del mattino. “Wanted è un film di cui sono molto fiera di far parte perché è quel film che avrei voluto fare io da regista: un’opera bella e compiuta che vibra con le mie corde”.
Mi ha colpito particolarmente la storia: in Wanted, si entra in medias res, non sappiamo nulla del prima e del dopo e i personaggi sono tutti senza nome. L’ambientazione sembra distopica ma è al contempo estremamente realistica. È finzione ma l’ambientazione negli studi di Cinecittà e le indicazioni su quale teatro occupare (inerenti ovviamente alla storia stessa) la rendono quasi finzione nella finzione. Come ti sei approcciata a un lavoro così complesso?
Fabrizio Ferraro, il regista, ha lavorato in maniera diversa con ogni attore. A me sono state soltanto le mie scene: non sapevo nulla dell’intera sceneggiatura, non avevo idea se ero la vittima o il carnefice di tutto quello che stava succedendo nella città al centro del racconto. Il titolo originario del film era Una donna è fuggita: ero la donna che fuggiva dalle forze di un ordine astratto di cui non si capisce bene l’origine, la funzione, il riferimento o cosa cerca. Avevo quindi solo le mie (poche) battute e tutto ciò che vi stava dietro si sarebbe costruito da solo.
E ciò, dal mio punto di vista, traspare un po’ nel risultato: il film ha tantissime sfaccettature proprio perché, per scelta del regista, manca di certi connotati e risponde a esigenze specifiche. Le scene del mio interrogatorio sono state girate ad esempio tutte consecutivamente: in due giorni, le abbiamo realizzate tutte di fila in un uniche ciak che ci ha dato l’impressione di essere protagonista di una specie di piéce teatrale. Fabrizio ci chiedeva di dire le nostre battute e di lasciarci andare, anche se non sapevamo cosa c’era dietro, dove ci portava non il cuore ma lo stomaco.
È stata per me un’esperienza veramente bella che mi ha permesso di fare appello ad aspetti che non avrei mai immaginato e sono contenta del risultato. Il film dipende molto dalle suggestioni che uno spettatore può avere: l’abbiamo girato un anno e mezzo fa ma sembra comunicare con oggi e tutto quello che sta succedendo o è successo: dalle vicende legate al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma alle guerre in giro per il mondo, dalla pandemia a diversi altri contesti sociali.
Wanted: Le foto del film
1 / 3A cosa di inaspettato hai fatto appello?
Anche se poi sono state tagliate in fase di montaggio, c’erano un paio di sequenze molto libere che partivano da spunti letterari e poi prendevano tangenti diverse a seconda di ciò che io e il mio partner in scena pensavamo. Mi riferisco soprattutto alla linea narrativa che riguarda la vita “normale” del mio personaggio, costruita insieme all’amico interpretato da Michelangelo Dalisi, un attore per me incredibile e con un talento pazzesco. Per fare quelle scene, io e Michelangelo abbiamo camminato così tanto che sembravamo camminatori professionisti proprio per associare al personaggio un certo tipo di camminata e per cercare da questa un’ispirazione che portasse quasi in trance: un processo molto mistico e delicato.
Ho immaginato di essere una donna che, appunto, prima o poi deve fuggire. Non ne sapevo la ragione ma doveva fuggire da qualcosa. La passeggiata con l’amico/amante restituiva quindi un senso di libertà assoluta come quando conosci per la prima volta qualcuno che ti interessa (neanche troppo) e ti senti libero di essere te stesso. Nelle passeggiate, mi aggrappavo anche involontariamente a tutta una serie di immagini che mi permettevano di capire la metafisica. Da laureata in Fisica, tutte le volte che mi ritrovo in mezzo alla natura il mio pensiero va sempre a quei fenomeni fisici che la regolano: per me, sono bellezza. E le chiacchiere con Michelangelo durante le camminate finivano per vertere molto sui processi fisici naturali e sulla poesia.
Cerco di capire come possano convivere fisica e poesia nello stesso momento.
Anche quando studiavo e mi approcciavo alle teorie che descrivono i processi con formule fatte e finite, deterministiche, cercavo di capirle con un processo estremamente personale. Arrivavo alla consapevolezza che quella legge era vera “poeticizzandola”, facendola convivere con la poesia che c’è nella mia testa. Molto più semplicemente, una formula descritta con i numeri per essere interiorizzata deve essere nella testa verbalizzata. E ci sono avverbi o aggettivi meravigliosi per far convivere la razionalità con l’irrazionalità.
Hotspot: Le foto del film
1 / 3Molto più semplice sarà stata l’esperienza per Hotspot, l’altro film di cui sei interprete e che è stato presentato alla Festa del Cinema di Roma: una favola, al fianco di Francesco Arca, diretta da Giulio Manfredonia.
È veramente una favola, una di quelle classiche commedie romantiche che, pur vedendole senza pretese, ti riaccendono la voglia di innamorarti, anche in maniera stupida: ma ciò che accade nella storia potrebbe accadere anche a me? Non è che un giorno, andando all’aeroporto, non mi funzioni il wifi e si attacchi all’hotspot di uno che è fighissimo? Non è che poi lo rincontro nuovamente, mi corteggia e ho pure la possibilità di fare la preziosa prima di innamorarmi per davvero? Sembra strano ma può succedere anche nella vita… non è successo a me, è successo solo nel film ma va bene così (ride, ndr).
Rammarico che non ti sia ancora capitato?
No, non è rammarico. È ovvio che certe cose sono bellissime e, dopo diversi film, quando corteggio provo a mettere in atto un po’ di quella dose cinematografica di sorprese o accortezze da film! Sono un’eterna romantica e mi piacerebbe che anche l’altro si impegnasse in determinate azioni: ci sono cose che si potrebbero fare e che non si fanno solo perché anche in amore si è diventati pigri. Sono state più le volte in cui ho fatto qualcosa io che quelle in cui mi sono state fatte (ride, ndr)!
E qui si aprirebbe un’intera parentesi sulle differenze di genere…
Credo che sia più una questione caratteriale: so di avere un carattere forte. In generale, le donne abbiamo dal mio punto di vista un carattere più forte e ne stiamo prendendo sempre più consapevolezza.
Ma così dicendo intimorisci gli uomini: fisica, poesia e carattere forte…
Mi sono oramai rassegnata (ride, ndr)!
Hotspot ti ha permesso di lavorare con Giulio Manfredonia, il cui metodo di lavoro è sicuramente molto diverso da quello di Fabrizio Ferraro.
Giulio è un regista dalle idee molto chiare. È un suo punto di forza che gli permette di guidarti molto bene sul set e anche di colmarti alcune lacune che, senza volere, potresti avere nella costruzione del personaggio. Mi ero fatta un’idea molto precisa della mia Tina, una ragazza molto decisa a diventare ballerina di danza classica ed entrare in una compagni importante. Le avevo dato una connotazione molto seria ma Giulio mi ha aiutata ad aggiungere tutta la componente più buffa e ironica del personaggio, aspetti a cui io naturalmente non avevo puntato perché di mio non mi sono mai sentita portata per la commedia! Con i suoi suggerimenti, mi ha dunque fatto vedere il mio personaggio a 360°.
Viva la sincerità: non sono tanti gli attori o le attrici che ammettono di non essere portati per qualcosa.
L’ho detto anche al produttore dell’ultimo film che ho finito da poco di girare, Leopardi & Co., una commedia romantica (con Whoopi Goldberg nel cast, ndr). Interpreto un personaggio diverso da Tina, non dovevo rompermi le ossa ma era ugualmente buffo. Mi preoccupavo di non risultare credibile ma il produttore mi rassicurava sempre dicendomi di essere la Meg Ryan italiana facendosi benevolmente odiare da me.
Ti sei rotta le ossa per il film di Manfredonia? Hai ballato sul serio?
Tina è una ballerina e ci sono ovviamente delle scene di danza. Chiaramente, ho avuto una controfigura per quelle molto difficili ma, per spirito di coerenza, ho voluto che la postura e l’andatura di Tina fossero quelle di una ballerina. Sono io quella che si vede in certe scene di riscaldamento, così come è mia la parte superiore delle scene di danza: nei mesi precedenti alle riprese, mi sono allenata tutti i giorni per cinque ore al giorno con insegnanti diverse… ne sono uscita distrutta fisicamente e ho ancora qualche problema con il nervo sciatico ma ho scoperto una nuova passione: la danza, che in qualche modo unisce fisica e poesia (per tornare al discorso di prima).
Avevo praticato danza classica da piccola ma riscoprire questa disciplina, che da fuori è vista come rigida e costruita, è stato un regalo incredibile: ho scoperto un modo tutto nuovo per esprimermi anche con il corpo e per una persona mentale come me non è poco. È stato come sentirsi liberare: la danza mi ha dato un valore aggiunto grandissimo e credo proprio che non la lascerò andare!
Dai l’impressione di una persona che alza giorno dopo giorno l’asticella del suo oggetto del desiderio…
Ho scelto nella vita di avere come obiettivo quello di migliorarsi sempre sia dal punto di vista umano e relazionale sia da quello fisico (non di estetica ma di abilità). Sono venuta a patti con il mio lavoro: è intensissimo quando c’è ma assolutamente libero quando non c’è… e tutto il tempo libero, che un attore o un altro libero professionista ha, ho deciso di impiegarlo per fare qualcosa per me e imparare sempre di più.
E, quindi, sì: l’asticella è sempre più in alto perché ogni giorno voglio fare e imparare qualcosa di nuovo. Laurearmi in Fisica quand’ero più piccola sembrava un sogno inarrivabile e far l’attrice era inconcepibile per chi come me veniva da un piccolo paesino, eppure grazie allo studio ho scoperto che erano accessibili… adesso ho deciso che devo prendere un brevetto da pilota di aerei e i prossimi mesi saranno dedicati a quello: se dovessi mai fare Top Gun in Italia, vorrei guidare io! Del resto, ho un fetish per i motori: dopo i fuoristrada, il prossimo passo sono gli aerei.
Passione per i motori?
Sì, sono iscritta anche a un club a Roma, dove faccio molte cose divertenti. Sui miei profili social dovrebbe anche esserci qualche foto…
Più che le foto, su Instagram colpisce la tua ironia.
Purtroppo o per fortuna, non ho hater con cui sfogare la mia ironia e, quindi, quando posso, cerco di metterla in risposte sparse qua e là: è un aspetto che mi caratterizza.
Sognar di fare l’attrice era un sogno inaccessibile da bambina. Eppure, le note biografiche ti vogliono già a dieci anni scrittrice di un racconto per un libro destinato ai ragazzi e a quattordici sceneggiatrice e regista di uno spettacolo teatrale.
In quegli anni ho fatto talmente tante cose che adesso, giuro, mi sento quasi in pensione. Ho fatto tutto ciò che potevo e che avevo a portata di mano… ho cominciato con lo scrivere perché avevo conosciuto un insegnante che pubblicava i suoi lavori anche su antologie per ragazzi.
Il teatro è venuto dopo quando frequentavo un corso di teatro con i miei compagni: dissi all’insegnante che volevo fare uno spettacolo tutto mio. Mi rispose di farlo e mi adoperai al meglio: contattai anche il comune del mio paesino, Montemarciano, che mi mise a disposizione il teatro, uno dei tanti gioielli di cui sono piene le Marche. In più, la banca locale finanziò lo spettacolo: una rappresentazione sull’eutanasia. Mi aveva colpito la storia di una ragazza belga, molto complessa e intrigata, e avevo voluto raccontarla attraverso quattro punti di vista differenti. Sono molto fiera di quella che sono stata quando ero adolescente: vorrei riuscire a fare oggi altrettanto.
Hai il dubbio che non ti stia già impegnando abbastanza?
Penso di aver fatto tantissimo in quegli anni. Ero uditrice a scuola, studiavo a casa da sola e una volta al mese tornavo in aula per le verifiche e le interrogazioni. Stavo anche sul set e ho preparato uno spettacolo teatrale. Crescendo, mentre lavoravo, mi sono laureata anche in Fisica. Riuscivo a fare tanto e contemporaneamente. Forse il dubbio nasce dallo starci in mezzo agli anni: magari tra un decennio penserò che anche a 26 anni stessi facendo proprio tante cose… è la malinconia dei ricordi.
Quelli dell’adolescenza, nel tuo caso, sono anche gli anni in cui è arrivato il grande successo della serialità tv, grazie a Braccialetti rossi. Come lo hai vissuto da adolescente?
Ricordo quei due anni sul set di Braccialetti rossi come se fosse stata la leva militare: mi alzavo tutte le mattine presto, mi rasavano i capelli, affrontavo le ore massacranti di set e poi tornavo a casa per dedicarmi ai compiti e al programma scolastico. Se ci penso adesso, trovo tutto quanto assurdo però riuscivo a farlo: quando giravamo, tra noi attori c’era una stanchezza che ci trascinavamo dietro senza neanche quasi rendercene conto.
I problemi maggiori venivano fuori quando la serie tv andava in onda. Ci mandavano in giro a destra e sinistra a fare i concerti legati alla colonna sonora: da un lato, era appagante vedere che c’era tanta gente che amava Braccialetti rossi e apprezzava il nostro lavoro ma, dall’altro lato, era fuorviante. C’era la mitizzazione del prodotto ma anche di noi attori che venivamo acclamati come pop star per una storia che raccontava di ragazzi malati e, quindi, di un tema molto serio: era un dualismo che pesava… era quello il modo giusto per parlare di amicizia, solidarietà e malattia? Non si rischiava di banalizzare il prodotto e di non rendergli abbastanza giustizia? Facevo sì tutto ma non la vivevo molto bene.
Così come non vivevo bene i risvolti negativi della popolarità. Ricordo che andavo a scuola e che spesso mi addormentavo in autobus perché avevo sonno: mi ritrovavo poi i video mentre dormivo sparsi ovunque. È sempre bello e piacevole concedersi a chi chiede foto o autografi ma non tutto il rovescio della medaglia messo in atto da persone maleducate. Purtroppo, queste erano la maggioranza: sono arrivata al punto di dirmi che non mi interessava per davvero far qualcosa che mi facesse vivere in quel modo.
In più, l’aver preso parte a una serie tv creava una sorta di barriera con il mondo del cinema, uno stigma che per lungo tempo ho combattuto. Oggi funziona diversamente: i social non sono più in problema, tanto che si cercano gli influencer (e nemmeno gli attori che provengono da serie famose) per portarli al cinema. Tant’è che all’epoca, dopo Sirene, altra serie tv, dissi al mio agente di voler provare a far qualcos’altro, anche in film piccoli o particolari.
Quando sono arrivate le prime occasioni, ero molto contenta: mi sembrava di essere tornata a recitare per davvero, dovevo pensare solo a quello.
E la prima esperienza cinematografica anche di un certo rilievo arrivo con #LikeMeBack, un film presentato al Festival di Locarno.
Un’esperienza meravigliosa: pagherei per girare un #LikeMeBack 2. È stato il mio primo film d’autore, come d’autore sono stati tutti quelli che sono venuti dopo.
Fino a quando non hai deciso di accettare di prendere parte a In vacanza su Marte, il film di Neri Parenti, per cui critica e addetti ai lavori hanno cominciato a dirtene e a scrivertene di tutti i colori. Perché, secondo te?
Perché questo è il cinema, un settore che non ha per nulla ironia. Avevo girato il mio primissimo film a quindici anni proprio con Neri Parenti, Ma di che segno 6?. Quando mi è arrivata la proposta di In vacanza su Marte, eravamo in pieno periodo CoVid. Non lavoravo da un anno e mezzo, da quando avevo finito di girare Tre piani con Nanni Moretti, e intorno a me si era creato un altro pregiudizio del tutto opposto risposto a quella che faceva le serie tv: ero adesso diventata l’attrice da film d’autore. Per di più, vivevo a Milano per studiare Fisica e anche quello era motivo di stigma per alcuni.
Ero a Milano, dunque, in pieno lockdown quando mi ha chiamata Neri Parenti e mi ha offerto il film, con la promessa che ci saremmo divertiti. Ho detto sì: avrei recitato, mi sarei divertita e avrei rivisto Neri, una persona squisita nonché regista dotato di grande sensibilità. Gli addetti che mi circondavano erano tutti disperati: stavo, a detta loro, smontando tutto l’hype che mi si era creato intorno… tutti meccanismi di cui a me non importa niente.
Ma sono abituata a sentirmene dire di tutti i colori sin da quando vivevo nel mio paesino sia per la facoltà che avevo scelto sia per il mio essere un’attrice. Anche nella stessa università è capitato che qualche professore, soprattutto di vecchio stampo, si lasciasse andare a commenti che lasciano il tempo che trovano.
Cos’è che ti ha spinta a studiare Fisica?
Avevo già deciso cosa volessi fare da grande ancora prima della fine del liceo. Ero molto piccola quando ho subito la fascinazione del linguaggio matematico: era una lingua che volevo studiare e che alla fine ho studiato perché comunque ero molto “streghetta” da bambina… e la matematica era una forma di magia per me, dal sapore quasi esoterico. La vedevo tuttavia lontana: per studiarla, avrei dovuto essere Einstein e io non lo ero. Crescendo, invece, ho capito che era una scienza più accessibile di quanto non credessi.
Il mio ambito è la fisica delle particelle, una passione nata quando, leggendo filosofia a caso, a dodici anni mi capitò tra le mani Democrito, con la sua concezione della materia, fatta di tanti piccoli pezzettini, tutti uguali ma diversi. Non ne capivo i termini e il concetto in sé ma mi ero creata delle immagini nella testa. E da allora è diventato sempre il mio approccio alle cose: provare a capirle con l’immaginazione per estrapolarne una forma più compiuta.
Hai citato prima tua sorella: cosa pensa della sorella attrice e scienziata?
Ha quattro anni meno di me ma, per sapere cosa pensa di me, dovreste chiederlo a lei: è pure più criptica di me… credo che mi stimi veramente: forse è una delle poche persone che mi vede semplicemente per ciò che sono, senza l’ingombro della recitazione, della fisica o dei fuoristrada. Conosce chi sono io, le cazzate che facciamo insieme o i momenti isterici legati a mia madre che spostava i libri quando dovevo studiare. Ha una visione di me molto più concreta.
A proposito di madre, come hanno preso i tuoi genitori l’andar via di casa per la recitazione?
Mi sono trasferita a Roma a quindici anni per Un medico in famiglia: non potevo fare avanti e indietro e loro non potevano venire con me, lavoravano entrambi. Si sono ritrovati in qualche modo costretti ad accettarlo e, grazie alla loro grandissima apertura mentale, si sono fidati di me: sapevano che ero un soldatino e che non avrei mai fatto niente di male… a parte frequentare qualche ragazzo fuori di testa!