Denny Mendez è una donna che di regole ne ha rotte parecchio durante il suo cammino. Nel 1996, a soli 17 anni, è stata eletta Miss Italia a furor di popolo. A volerla come simbolo della nuova bellezza italiana è stato il pubblico, la gente. Numerose invece furono le polemiche che si sollevarono su più fronti. Polemiche spesso pretestuose e infondate, lasciatecelo dire. Il dito veniva puntato contro le sue origini: come può una dominicana rappresentare la bellezza italiana? era la più stupida delle domande. E la più cieca, considerando la realtà oramai multiculturale che ci circonda.
Denny Mendez ha sempre saputo rispondere con il sorriso a ogni attacco. Ma non perché lo prendesse con leggerezza. Semplicemente, perché si sentiva italiana e lo era. Ha forse anticipato i tempi e ha aperto gli occhi a chi ancora si ostinava a non guardarsi intorno. Non si è fermata al concorso e ha continuato lungo la sua strada, impegnandosi forse più di altre per dimostrare le proprie capacità. Si è ritrovata quasi subito a condurre quello che una volta era un evento mondiale, Miss Italia nel mondo, e ha intrapreso con umiltà e determinazione il percorso di attrice.
Abbiamo visto Denny Mendez in molte serialità italiane. L’abbiamo ammirata in diverse coproduzioni internazionali, a fianco di George Clooney, John Travolta, Morgan Freeman e tanti altri nomi di spicco. Ha preso fugacemente parte a un reality ed è stata la protagonista di un video musicale di Andrea Bocelli. Il suo volto campeggiava nei cartelloni di una nota pubblicità insieme a quello del sex symbol Gerard Butler.
È come se Denny Mendez non si fosse mai fermata. In tanti lamentano la sua lontananza dal piccolo schermo generalista. Il suo personaggio nell’amata soap nostrana Un posto al sole è ancora nei cuori di molti. Ma chi la segue sa che Denny Mendez, diventata nel frattempo mamma, ha continuato a camminare, senza spinte esterne, al di là e al di qua dell’oceano. Da figlia del mondo, lavora tanto negli Stati Uniti quanto in Italia o in Europa.
Vedremo presto Denny Mendez al Festival di Cannes 2022 protagonista di un cortometraggio a sfondo lgbtqia+ ma possiamo seguirla anche su Business24, emittente definita la “tv del lavoro” visibile sul digitale terrestre e via satellite grazie a Sky e Tivùsat. Conduce un programma che si chiama Pole Position, in cui le storie di successo di imprese di eccellenza vengono raccontate in modo semplice e veloce.
Ed è proprio grazie a Pole Position che Denny Mendez ha rotto un’altra etichetta. È la prima black woman in Italia a condurre un programma tutto suo in cui si parla di un tema, come l’economia, da sempre associato alla sfera maschile. Con disinvoltura, curiosità e preparazione, Denny Mendez è padrona del mezzo televisivo e della materia trattata, incontra importanti ceo e non necessita di una “guida” maschile. La sua è una conquista più che una vittoria e, in un mondo inclusivo in cui colore di pelle e sesso non fanno la differenza, si spera che non rimanga un episodio isolato. Dovrebbero capirlo quei direttori di rete che temono di fare il salto, che hanno paura di innovare e rappresentare l’Italia così com’è realmente.
TheWom.it ha incontrato Denny Mendez per una chiacchierata a tutto tondo. Ha parlato con lei del suo lavoro, di discriminazione e di maternità. Ne è venuto fuori il ritratto di una giovane donna del Terzo Millennio che, in barba ai pregiudizi, ha saputo farsi strada da sola, senza concessione o compromesso.
INTERVISTA ESCLUSIVA A DENNY MENDEZ
Pole Position, un programma che è partito quasi in sordina, si è rivelato un successo vero e proprio. Nonostante non vada sui canali principali d Sky, è molto seguito. Ti vede per la prima volta alla conduzione da sola. Hai già avuto in passato esperienze di conduzione, tra cui Miss Italia nel mondo con Carlo Conti, ma mai da sola. Come hai affrontato questa nuova sfida?
È una vittoria importante. In generale, ahimè, sono poche le donne che partono in conduzione da sole. Sono sempre state affiancate da un uomo, da una controparte maschile prima di prendere il volo da sole. Anche se, negli ultimi anni le cose sono un po’ cambiate, anche a livello televisivo: tante donne si sono elevate senza essere necessariamente “battezzate”. Io, ad esempio, sono fiera del mio “battesimo” con Carlo: è uno di quei pochi conduttori che dà la possibilità di far crescere e di lavorare. Non tutti lo fanno. Vedi subito i copia e incolla delle donne vicino a un conduttore: tutte al servizio di qualcosa che non corrisponde alla loro persona.
In Pole Position ho la possibilità di respirare, di viaggiare, di muovermi, seppur supportata dagli autori, da sola. È un’esperienza di conduzione ma anche di sfida: è per me una responsabilità. Devo innanzitutto prepararmi. Anche se durano poco le interviste, le ricerche sono fondamentali. Una cosa che ho scoperto con la conduzione del programma, rispetto al passato, è che, con un gruppo in grado di vedere le tue qualità ma anche i tuoi difetti, si cerca di elevarsi e aiutarsi tutti. C’è uno scambio continuo di energie. Il programma in sé è molto stimolante perché conosce e approfondisce realtà aziendali di vari campi differenti, dalle creme al luxury brand.
Parlare in Pole Position di economia, di business, di lavoro e di termini che generalmente sono abbinati a un contesto maschile, e intervistare i Ceo di grandi e piccole aziende, purtroppo ancora per la maggior parte uomini, è per me stessa come donna un’opportunità che va a rompere quei luoghi comuni legati all’identità di genere. Ma è un’opportunità, anche per me come persona, di sfatare quei cliché che combatto da anni: una black woman che va a condurre un programma di business. È una rottura di una barriera nel campo professionale.
E di barriere ne hai anche rotte parecchio. Quanto pensi che la tua elezione a Miss Italia nel 1996 sia stata precoce e avanti nel tempo? È avvenuta nel 1996, un periodo in cui non si parlava neanche lontanamente di inclusività, di rispetto verso tutti. Un’epoca distante da quella che viviamo, un’epoca in cui anche il solo colore di pelle differente ti faceva sentire “diverso”. Non sarebbe diverso oggi? Se fosse avvenuta oggi, il tuo percorso professionale sarebbe stato sicuramente differente.
Sicuramente. Con il tempo, sono riuscita a digerire e a capire quanto fosse importante quell’elezione a Miss Italia. Non tanto a livello di evento in sé, legato alla discutibile bellezza o no, ma quanto al significato che ha comportato. È stata essenziale, soprattutto, per poter portare al tavolo delle discussioni sociali certe tematiche che erano e che sono spesso tuttora trattate, con diversi escamotage, in maniera leggera e in superficie. Si sente parlare di certi argomenti solo quando avvengono eventi eccezionali: la mia elezione a Miss Italia, ad esempio, o le vittorie sportive di un italiano non bianco. Devono per forza accadere questi fatti?
Per fortuna, negli ultimi anni è in corso un cambiamento che sta avvenendo in maniera quasi naturale. La naturalità, in una nazione che fa ancora fatica a lanciarsi su questo tipo di tematiche, è essenziale. L’elezione di Miss Italia è stata importante soprattutto per le ragazze: è possibile! Non bisogna essere distaccati dalla realtà che si vive quotidianamente. C’è ancora un po’ di ruggine da togliere.
I giornali hanno una loro responsabilità. Ma anche, ci tengo molto a dirlo, le sceneggiature, le scritture. Le storie dovrebbero essere raccontate in maniera non fuorviante. Si mette confusione sia in chi le riceve sia nell’identità della persona. L’evoluzione della comunicazione è importante. Basta vedere artisti come Elodie o Ghali e il messaggio che portano avanti.
A prescindere da Miss Italia, mi sento cittadina del mondo. Già da piccola, ho cominciato a viaggiare: non mi sono mai sentita un pesce fuor d’acqua.
Quello delle sceneggiature mi sembra sia un problema abbastanza sentito. Ho intervistato di recente un’altra attrice, Nadia Kibout, che mi ha sollevato la stessa questione. Mi sembra di capire che quando ricevete una storia vi ritrovate sempre davanti a luoghi comuni che si fa fatica a estirpare.
Sì. Occorrerebbe maggior collaborazione tra chi scrive e chi legge. Ultimamente mi hanno proposto un testo teatrale. L’ho letto e ho trovato qualcosa da ridire. Con tutto il mio affetto, ho proposto allo scrittore di parlarne insieme dei luoghi comuni che aveva. Chi scrive deve farlo non tanto per lo show ma per comunicare, per insegnare. È importante dire no quando c’è qualcosa da cui non si viene rappresentati, alla banalità di certi personaggi, o collaborare nella scrittura: deve esserci corrispondenza, attinenza alla realtà. Bisogna stare un po’ attenti.
Prima, da giovincella, accettavo e facevo esperienza. Adesso no. Sto molto attenta. Ed è lo stesso tipo di attenzione che riporto anche in Pole Position. Ci sono delle domande che fanno parte del copione ma ci sono anche questioni a cui faccio molta attenzione perché riconosco l’importanza di soffermarsi su certi temi. Parliamo di aziende a conduzione familiare, di aziende nazionali e di aziende internazionali. Il mio punto di vista è molto più forte di prima ed è chiaro. Quote rosa, formazione, internazionalità sono quesiti su cui torno spesso perché è importante cha arrivi al pubblico il giusto messaggio. Mi faccio un po’ da tramite. Osservo parecchio, ascolto molto e c’è sempre molto da imparare.
Bisogna affinare la propria visione e avere elasticità. Lo straniero non è più straniero: la società si sta mostrando molto diversa da come la dipingono. Tra i vari Ceo che ho intervistato, c’era ad esempio un signore albanese che ha creato un impero nel settore dei trasporti quando tutti pensano invece al suo Paese come qualcosa da Terzo Mondo.
Al di là delle sceneggiature, pensi che il mondo dello spettacolo sia inclusivo? C’è finalmente un’apertura totale o continua a dominare quello che in sociologia si definisce elitarismo bianco? Nella televisione generalista, ad esempio, non abbiamo nessun volto che non sia bianco. Non c’è una rappresentazione multiculturale.
Grazie al cielo esistono le piattaforme, i social e siti come TheWom.it, dove la gente può capire e cercare quali siano i diversi modi di fare spettacolo e la giusta rappresentazione. È un peccato incredibile: arrivano messaggi forti da fuori ma sembra che la televisione generalista sia un po’ sorda e cieca. Non so se sia legato anche a un discorso politico. Quando si è tentato di andare oltre, penso al ministro Cècile Kyenge, è caduto il mondo. L’italiano non è così: è solo un certo gruppo che non vuole staccarsi.
Io sono propositiva: tra qualche anno, anche solo il mezzo giornalista non bianco farà la sua comparsa. È impossibile che non avvenga. Tra dieci anni, si vedranno anche gli effetti di tutta l’immigrazione di questi ultimi anni. Altrimenti, non combacerebbe il racconto dei mass media con la realtà.
Le nuove generazioni, compresa la mia, devono scrivere, proporre e vedere altre situazioni per far capire che alla televisione generalista non deve arrivare solo la storia misera o le tragedie. Si deve far comprendere che la realtà che stiamo vivendo e che si vivrà in futuro è diversa da quella che ci propongono. Eppure, i media generalisti sanno che c’è un cambiamento in corso ma è come se fossero attaccati esclusivamente alla tradizione. Conoscono il problema ma non vogliono fare il passo in avanti. È da scemi, scusate il termine.
Se non si possono portare i progetti avanti nella tv generalista, andiamo altrove. Sta cambiando anche il modo di fruizione della televisione, le piattaforme hanno aiutato tantissimo: ti danno la possibilità di vedere una vasta scelta di caratteri, di storie, di racconti.
Ma perché bisogna andare sulle piattaforme? Perché la televisione generalista non vuole trasmettere il giusto messaggio o la giusta visione della realtà? Lo fa solo ogni tanto, con un “contentino”, come nel caso delle vittorie sportive. È facile celebrare quando si vince. Le vere vittorie stanno proprio quando non c’è la vittoria. La vittoria sta nella normalità.
Come te sono convinto che sia un problema di rappresentazione che viene dall’alto. La gente è curiosa di conoscere, di interagire, di avvicinarsi all’altro.
Ma sì. Io lo vedo personalmente. Ho fatto da madrina a un festival di cinema a Los Angeles, il Los Angeles Italia Film Festival. “Ma che bello! Miss Italia portata a un’italianità che può promuovere italianità trasversali”. Chi non è nato in Italia ma anche chi vi è nato da genitori stranieri, che ama l’Italia, viene esaltato dalla tv generalista quando va fuori. Ma nella quotidianità viene trattato di merda. E scusate ancora il termine.
Sono una persona di fede. Mentre sto facendo l’intervista ho davanti il santino della Madonna di Loreto. Dipende tutto dall’Alto, non so quanto possiamo fare. Sono propositiva, ci sarà un cambiamento. Sia in chi esclude sia in chi viene escluso. Arriverà il Papa nero, assolutamente.
Come cantavano i Pitura Freska dopo la tua vittoria a Miss Italia.
Assolutamente. È il ciclo. È arrivato un Presidente degli Stati Uniti nero. E arriverà, perché no, un Papa nero. La parte religiosa ha un peso importante per il cambiamento della società. Papa Francesco è una grande persona, riesce a lanciare messaggi importanti ogni tanto. L’Italia ha una digestione lenta.
Lenta non per colpa della gente e, soprattutto, delle nuove generazioni. Dal basso c’è un movimento.
È vero. C’è movimento nei ragazzi, nelle mamme, nei genitori. È un po’ come un casting. Ogni volta che devo fare un casting passo attraverso cinque “fasi” diverse, accompagnate sempre da fede e fortuna: il responsabile del casting, il regista, il produttore, il direttore di rete e… il politico!
Sono propositiva, ripeto: le eclissi esistono. Dobbiamo sperare in un’eclisse affinché il cambiamento avvenga. L’eclisse, se ci pensate, è una cosa meravigliosa: è l’unione di due mondi in uno solo. Papa nero o eclisse? Scegliete voi. Io tutti e due. Perché no? (ride, ndr).
A parte la conduzione di Pole Position, porti avanti la tua carriera di attrice. In anteprima, possiamo svelare che sarai presente al Festival di Cannes 2022 con il cortometraggio Red Roses Never Die di Anna Carvalho. Chi interpreti? Che tipo di ricordi ti porti da quel set?
Ti ringrazio per la domanda. Sembra quasi che quando diventi mamma, il tuo percorso artistico si fermi divenendo desaparecidos. Togliamo questo retaggio: anche con la gravidanza, ci si può tenere sempre attive. Quando ero incinta della mia bimba, ho lavorato per un’agenzia a Los Angeles dedicata solo a mamme. Mi ricordo dei casting stupendi al sesto, settimo o ottavo mese. Quando siamo incinte, non siamo malate! Stavo bene, grazie a Dio, di salute e da grande lavoratrice non mi sono mai fermata. Los Angeles è una di quelle città che ti permette di respirare e di avere possibilità anche quando sei in attesa di quel dono straordinario che è un figlio.
Come la possibilità, appunto, di girare questo corto, Red Roses Never Die. È la seconda volta che interpreto un personaggio legato alla sfera LGBTQIA+: Solange, una donna innamorata di un’altra donna (interpretata da un’attrice portoghese). La prima volta è stato in Blood Trap, un horror di Alberto Sciamma in cui ero più combattiva. In Red Roses Never Die, invece, sono protagonista di una relazione non romantica, un po’ seduttiva e un po’ borderline. Per me, esplorare l’altra parte del sesso femminile è sempre molto, molto intrigante. È come se non finisse mai.
Ho trovato nel corto qualcosa che mi ha riportata a una sensualità naturale, non necessariamente legata al sesso, e a una bellezza sentita. Le due donne si parlano e discutono anche in maniera seduttiva tra loro due e non per piacere agli altri. Ho trovato bellissimo il personaggio. Mi piacerebbe interpretare altri personaggi che esplorino l’altra parte femminile. Non ho avuto alcuna difficoltà a calarmi nei panni di Solange e ciò per me è stato molto importante: c’era una finezza e una delicatezza, anche nei non detti, che mi ha colpito. Trovo che le storie d’amore al femminile siano un po’ più elevate. C’è un qualcosa che mi trasporta di più rispetto alle storie tra un uomo e una donna. Entra in gioco anche la psicologia dei personaggi. La psicologia femminile è sempre molto complicata.
Sto lavorando adesso a un progetto, un documentario realizzato negli Stati Uniti da Anna Carvalho, sulla figura di Pelagie Amoreux. Di solito si conosce la storia di Harriet, un’afroamericana che ha fatto tutto un suo percorso per quanto riguarda la schiavitù. Su di lei è stato fatto anche un film molto bello con Cynthia Erivo. Di Amoreux, invece, si parla poco. Ha vissuto nell’Ottocento, è nata schiava ma è morta da libera perché è riuscita, trent’anni prima dell’emancipazione, a liberarsi dalla schiavitù. La sua è una storia bellissima sullo sfondo del Missouri, nel sud degli Stati Uniti.
Come la sua, ci sono tante storie da ricercare e raccontare. Mi piacerebbe raccontare storie del genere o di donne connesse alle loro radici anche in Italia… mi piacerebbe capire perché accadono: succedono ma rimangono lì, senza nessuno che le conosca. Non so, forse in futuro.
Sei molto richiesta negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti è molto tosta, non è facile. Però devo dire che lì, come appartenente alla comunità latina e come professionista, ho una voce che ha un valore professionale. Gli attori sono più tutelati non solo a livello di budget. Per farti un esempio, in Italia chi porta il caffè su un set, viene trattato come “quello che porta il caffè”. Negli Usa, invece, è alla stessa stregua degli attori: non si fa sentire il divario.
Parecchi miei provini, ne ho fatto uno di recente per la Disney, sono valutati non solo per la professionalità ma anche per la personalità. A differenza di quello che accade da noi dove la personalità sembra quasi un difetto. Se è troppa, non va bene. Idem, se è poca. Lì, invece, mi sento più sicura, più riconosciuta: ho un valore. Se piaci, piaci.
È importante celebrare la propria personalità: il too much non è troppo. In Italia è un problema: “è troppo!”, ci si sente dire. Per loro è troppo, per me non lo è. Ecco perché mi piace fare la spola con gli Stati Uniti: non c’è questa barriera. Si lavora, si va avanti e non ci si sofferma sulla personalità.
E in effetti non ti vediamo in una serie tv italiana dal 2011, da Cugino & cugino. Eppure, sei stata anche uno dei personaggi più ricordati di Un posto al sole.
Ritorna il discorso che facevamo prima sulle scritture e sui casting. Ma è anche per un discorso mio, di scelte. Di recente ho fatto degli ottimi provini per un prodotto destinato a Netflix, anche se poi il progetto non si è concretizzato. Con la tv generalista invece entrano in ballo anche altri fattori, a cominciare dagli “agganci” giusti. Devi poi sempre convincere qualcuno sulle tue capacità e su ciò che sai fare. Si ha a volte ha una visione delle persone perché non le si conoscono.
È chiaro se non possono piacermi tutte le proposte che mi arrivano. Dipende ultimamente anche dagli incastri possibili. Sono stata impegnata anche come mamma. Nonostante il pubblico non mi vedesse in tv, ho lavorato negli Stati Uniti in film con attori molto importanti, in tanta pubblicità.
Morgan Freeman, John Travolta, Andrea Bocelli, Gerard Butler… sono solo alcuni dei nomi di spicco con cui hai lavorato…
Tutte cose che personalmente in Italia non avrei mai potuto fare. Qui si fa più fatica… e poi, diciamoci la verità, “io non l’ho data”. È inutile girarci intorno. La parola “compromesso” è una delle più difficili da analizzare a livello mondiale.
Adesso come adesso, mi sento pronta per nuove sfide. Come Pole Position o altre che sto mettendo in cantiere. Prima ero molto più attaccata al lavoro, adesso sono più distaccata. Se è, bene. Altrimenti, vivo lo stesso. Non necessariamente devo apparire in televisione, soprattutto sulla generalista. È più stimolante ricercare o raccontare storie piuttosto che apparire per un quarto d’ora. Guardo ogni tanto la tv generalista per capire qual è l’andazzo o cosa sta avvenendo. Sono contenta di vedere, come accennavo prima all’inizio dell’intervista, tante donne che conducono da sole. Vent’anni fa, ce n’erano pochissime. Invece oggi abbiamo diverse donne in prima linea: è già una vittoria.
Si parla tanto di promuovere o di aiutare le donne. Mi piacciono quelle donne che lasciano spazio o aiutano le altre, come Maria De Filippi. È responsabilità di tutte quelle prime donne che hanno un peso sul pubblico più tosto fare dei passi avanti con i loro programmi.
La tv generalista spesso per comodità si rimanere sempre ferma sulle stesse cose. E poi noto che ci sono sempre gli stessi volti, cambiano solo canale, passando da una rete all’altra.
Ti fa ancora compagnia Pistone, il pupazzo da cui non ti separavi mai?
Si, ce l’ho ancora. È in casa con me, è una specie di portafortuna. La gente percepisce una certa aggressività in me ma sono una mocio. Nel tempo, ho però cambiato oggetti a cui sono legata. Il posto dei pupazzi è stato preso dalle gemme. Le porto sempre con me, credo nel loro potere. Con tutta l’energia che c’è intorno, occorre dare e proteggersi.
Sei superstiziosa?
Un pochettino. Credo che sia legato alle mie radici dominicane. Per esempio, ogni martedì metto il mio palo santo e seguo i miei “rituali”.
Com’è per te aver superato la fatidica soglia degli “anta” ed essere mamma?
È andata bene, pensavo peggio! Ho faticato a diventare mamma perché ho avuto delle difficoltà. Il Signore mi ha poi graziato. Ho imparato che quando si vivono dei momenti difficili occorre reagire e non piangersi addosso. Nayara, mia figlia, è arrivata un po’ prima degli “anta” portando una gioia indescrivibile. Sta sempre con me in quest’ultimo periodo. La maternità inevitabilmente ti cambia ma non mi sono mai fermata.
Ho avuto un amore di bimba. È nata negli Stati Uniti e ha adesso cinque anni e mezzo. È italiana, dominicana e statunitense. Sta crescendo con un mix di lingue e culture non indifferente, e sono contenta di questo. Non sono una di quelle mamme che sta generalmente addosso ai propri figli. Mi sono imposta di darle delle regole sin da piccola ma vedo che lei ha già i suoi “momenti”. Non so se preoccuparmi o no di ciò! (ride, ndr).
Non sono stati gli “anta” a cambiarmi ma la genitorialità. Le scuole pubbliche dovrebbero istituire dei corsi specifici: non siamo pronti per essere genitori. Mi sono ritrovata in difficoltà i primi cinque mesi, mi ha aiutata mia zia. Era tutto nuovo, una sorta di reset. È vero che solo facendo i genitori si impara a esserlo ma, secondo me, le scuole dovrebbero preparare a essere genitori non emotivamente ma praticamente. Dovrebbero insegnare le cose concrete di tutti i giorni, dal come scegliere il latte al cambio del pannolino. È stato per me un po’ “difficoltoso” ma non penso di essere né la prima né l’ultima.
La mia è sempre stata una famiglia tutta al femminile, fatta di donne. Ci ha pensato mio zio a “bilanciare” la parte maschile: ha avuto otto figli maschi e una sola femmina. All’inizio della gravidanza, quando mi chiedevano cosa volessi, pensavo a un maschio. Ma se Dio mi ha dato una femmina, un motivo c’è.
Da donna, sono strafelice di poter vivere la dinamica che si è creata con Nayara: mi sta facendo maturare, invecchiare meglio. Mi fa avvertire tutto in maniera più limpida, più bella, più semplice. La sua apertura al mondo è meravigliosa. In questo momento della mia vita è importante che ci sia lei. Non occorre sempre stare sulla difensiva: avevo prima creato una sorta di muro per proteggermi, ora sono come un blossom flower. Si può sbocciare anche a cinquant’anni. Non è mai troppo tardi.
E se un domani Nayara dovesse dirti che vuol fare l’attrice?
Nessun problema. Adesso come adesso, non è tanto il mestiere a preoccuparmi ma la cosa che mi spaventa di più sono le frequentazioni o le amicizie. C’è parecchia emulazione sbagliata: fare qualcosa di negativo sembra quasi una vincita, un premio. Come mamma mi spaventa: starei più attenta a fiutare quello che le sta intorno. Stiamo vivendo un’epoca in cui certi episodi avvengono fin troppo spesso. Cercherò di proteggerla, fino a un certo punto. Una buona base familiare fa tanto nell’atteggiamento futuro dei figli. E non dipende di sicuro dalle scuole che frequenti.
Se dovesse fare l’attrice, mi piacerebbe che lo facesse con una regista come Emma Dante, una tosta appartenente a quella tipologia di donne che non te le manda a dire, non cheesy. O con qualcosa che raccontasse le sue radici. Che piaccia a lei ma che racconti sempre la terra o che la riporti alle sue origini.
Qual è invece il tuo rapporto con i social?
Ho scoperto i social tre o quattro anni fa. E aggiungo ogni volta un tassello in più grazie anche a Pole Position, che mi permette di conoscere le storie di chi le app o i social li ha inventati.
Per certi aspetti, ritengo i social utili perché permettono di vedere i “tuoi” contenuti. Hai la possibilità di analizzarli, di valutarli. Ad esempio, di recente, grazie ai social ho scoperto un evento di cui non sapevo, Conscious Planet, sul valore del suolo e dell’ambiente. I social arrivano in maniera veloce e diretta su certe tematiche. Mi piace separare nei social quello che è vanesio da ciò che invece serve.
Il rapporto che ho personalmente con i social è un po’ alterno. Non sempre ci sono. Sono sempre riservata. Se c’è qualcosa da dire, la dico, altrimenti non amo essere presente 24 ore su 24. I social hanno un linguaggio che forse dovrei imparare di più. Non solo per me ma anche per il futuro di mia figlia.
Come in tutte le cose, c’è una parte bella e una no. Come quella che non guardo mai: i commenti. Soprattutto, quelli degli haters. Non mi soffermo mai sui commenti: il mio tempo è prezioso per leggere cose che non hanno un valore per me. Hanno un valore i commenti delle persone che mi stanno vicine ma non quelli di chi sta dall’altra parte dello schermo e scrive, bene che vada, “non mi piacciono i capelli ricci”. Mi verrebbe da rispondere: “E allora? A me piacciono!”. Ho visto mie amiche che dai commenti si lasciano condizionare e cambiare le giornate. Non mi lascio destabilizzare dall’esterno, c’è un limite: abbiamo, per fortuna, il potere di dare peso a ciò che conta veramente. Per chi volesse seguirmi può farlo su Instagram al mio profilo @dennymendezde_.