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Desirée Popper: “Da farfalla a tigre, ribelle per natura” – Intervista esclusiva

Desirée Popper
Consuelo è uno dei personaggi che in Mare fuori 4 domina il racconto e rimane impressa nella mente degli spettatori: ne abbiamo parlato con Desirée Popper, l’attrice che la interpreta, in una lunga intervista in esclusiva che spazia dal suo lavoro al suo essere donna, determinata e fragile al tempo stesso.

Desirée Popper interpreta il personaggio di Consuelo in Mare fuori sin dalla prima stagione. Moglie del comandante Massimo, Consuelo è sempre stata una farfalla ma, complice un deplorevole atto di vendetta e avvertimento nei confronti del compagno (uno stupro, agghiacciante), si trasforma pian piano in una tigre: una metamorfosi che Desirée Popper ha conosciuto non solo sul set di Mare fuori 4 (su RaiPlay e dal 14 febbraio su Rai 2) ma anche nella vita.

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Messa alle strette sin da quando aveva appena un anno per via di vicende familiari che scegliamo appositamente di non raccontare, Desirée Popper e la Consuelo di Mare fuori hanno sicuramente molti punti di contatto: entrambe sono arrivate in Italia dal Brasile per inseguire il sogno di diventare attrice. Ma, mentre Consuelo trovava Massimo e la maternità, Desirée Popper prima di Mare fuori ha dovuto percorrere una strada più impervia per divenire un’attrice ed essere considerata tale.

Per molti, prima di poter dimostrare il suo talento, la sua delicatezza d’anima e la sua autodeterminazione, era solo l’ex tronista di Uomini e donne, un’etichetta a cui il nostro sistema cinema sembra essere allergico per via di stupidi stereotipi e pregiudizi che faticano a morire. Ha dovuto per tale ragione per molto tempo “abbassare la testa” e fingere di non sentire pur di non rinunciare a un’aspirazione, a un sogno in cui ha sempre creduto.

Con Desirée Popper ci si incontra su Zoom per discutere di Consuelo, di Mare fuori ma anche di The Cage – Nella gabbia, il film che la vedrà al cinema a partire dal 22 febbraio al fianco di Aurora Giovinazzo e Brando Pacitto. Eppure, sin da subito, si intuisce che non sarà un incontro come tutti gli altri. Dal suo sguardo, traspare una dose di sincerità che nessun filtro riesce a coprire: le sue parole (“non sono brava a parlare”, sussurra) traspirano emozione e purezza d’animo. Anche quando la domanda potrebbe apparire ostica, Desirée Popper risponde senza nascondersi dietro un dito, scavando dentro di sé e instillando continue gocce in chi l’ascolta.

Ed è allora che capita anche che Desirée Popper si commuova e faccia commuovere. Accade due volte nel corso di questa chiacchierata. Due volte in cui asciuga i suoi occhi e si apre come non mai. Emergono così i ricordi di un passato sempre presente, la sua paura della solitudine e il suo essere donna al di là delle incertezze del destino. E la sensazione, a fine incontro, è che ci si sia regalati del bene a vicenda.

Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris;Styled: Gian
Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris;
Styled: Gianluca Cococcia; Press: MPunto Comunicazione).

Intervista esclusiva a Desirée Popper

Consuelo nella quarta stagione di Mare fuori subisce un enorme cambiamento rispetto a come siamo abituati a vederla. Psicologicamente e fisicamente va incontro a qualcosa di molto forte.

Ogni volta che mi cimento con un personaggio mi piace pensare a un animale. Nel corso delle prime tre stagioni, me la sono raffigurata come una farfalla, con una sua certa leggerezza d’animo. Pian piano, però, è andata incontro a quello che sarà una sorta di iniziazione, che darà il via al tunnel della sua trasformazione e che farà uscire tutta la sua cazzimma. La quarta stagione di Mare fuori è per me quella dell’evoluzione di Consuelo: diventa donna, smette di essere la ragazzina che non voleva crescere e accettare ciò che la vita le ha buttato addosso per diventare un’adulta cazzuta che farà delle scelte molto difficili. Tuttavia, l’aspetto più interessante è che le farà non per lei stessa ma per le persone a cui vuole bene.

Da farfalla, Consuelo diventa tigre, un animale che conosci molto bene dal momento che hai tu stessa nella vita dovuto imparare a ruggire.

Ricordo ancora come mi sono divertita ad esempio per la prima stagione quando ho fatto la prova costumi: tiravano fuori capi che erano proprio da Desirée appena arrivata in Italia, molto sudamericani e pieni di paillettes. Quando ho messe piede in Italia, ero esattamente come la Consuelo di allora: un po’ ingenua, perché non avevo idea del mondo che mi aspettava, diverso da quello a cui ero abituato. Curiosamente, poi, anche Consuelo arrivava dal Brasile con il desiderio di fare l’attrice in Italia… Siamo, quindi, cresciute e diventate adulte insieme. Abbiamo fatto mano nella mano il percorso da farfallina innocua, bella e colorata, che pian piano diventa tigre.

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Ricordi qual è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato quando ti sei trasferita in Italia?

Il mio approccio con l’Italia è stato molto fluido, morbido e dolce. Credo sia dipeso anche dal mio modo di prendere e accogliere la vita e gli avvenimenti. Sono stata molto incosciente nei confronti di ciò che sarebbe stato, non avevo idee di quello che mi aspettava. Come tutti, ho passato momenti di sacrificio e di buio ma non è stato chissà quale trauma. Anzi, per me è stata quasi una boccata d’aria fresca rispetto alla storia che mi portavo alle spalle.

In Italia, abbiamo imparato poi a conoscerti come tronista a Uomini e donne. Tronista è un termine che si porta dietro tanti stereotipi e pregiudizi, soprattutto sul talento di chi poi cerca strade diverse per affermarsi. Ti ha creato difficoltà nel tuo ingresso nel mondo del cinema?

Chiaramente, sì. Ma sono di natura molto ribelle e ne vado fiera. Per molto tempo, mi è stato detto che non avrei potuto fare l’attrice ma non mi sono arresa: andavo semmai a bussare a un’altra porta. L’ho fatto per quasi cinque anni, durante i quali ho detto “no” a tante ospitate, rifiutato offerte e rinunciando anche a buoni compensi. Avevo capito che per togliermi di dosso l’etichetta di ‘tronista’ avevo davanti una sola strada: dovevo concentrarmi sullo studiare, migliorare più che potevo la conoscenza della lingua, acquisire maggior tecnica e lasciar stare quel mondo lì. Quando l’ho realizzato, è come se avessi acquisito un super potere: era arrivato il momento in cui bisognava adattarsi, abbassare la testa, sentire commenti e battutine, in attesa un giorno di ribellarmi e poter dire la mia con il mio lavoro.

Una strategia che si è rivelata, oltre che vincente, anche intelligente. Dal 22 febbraio ti vedremo anche in un film per il cinema, The Cage – Nella gabbia, in un ruolo straordinariamente inedito, quello di una lottatrice MMA, Killer Beauty.

Considero ogni ruolo che mi viene proposto, anche il più piccolo, come se fosse il ruolo della mia vita. Semplicemente perché non so quando avrò un’altra occasione. Cerco, dunque, di sfruttare al massimo quel poco che ho. Per me, stare su un set è, ogni volta, come vivere un sogno ma è anche come se fosse un messaggio di incoraggiamento a tutti quegli stranieri, soprattutto giovani attrici, che partono non da zero ma da meno cento: si può fare… se ce l’ho fatta io, possono anche loro.

Ti sei in questo caso confrontata con la fatica, gli allenamenti e i lividi dell’MMA. È una disciplina con cui ti sei cimentata sul set o che conoscevi anche da prima?

In Brasile, l’MMA non è molto diffusa tra le donne: più che altro, è considerata una roba da uomini anche se, negli ultimi anni, tante donne hanno cominciato a praticarla. Prima delle riprese di The Cage, praticavo Muay Thai e credevo di essere per questo perfetta per il ruolo… E, invece, ho scoperto che era molto più complesso: ho dovuto prepararmi anche intensamente e convincere persino gli altri a darmi questa opportunità.

Alessio Sakara, direttore artistico del film, mi aveva pubblicamente detto di non essere adatta al ruolo e che non c’era tempo per preparami. L’ho letteralmente supplicato, “sarò qui tutti i giorni, alle otto del mattino”. Lui ha ceduto e io ho rispettato la mia promessa: ero già sul tapis roulant da più di un quarto d’ora quando arrivava per la mia preparazione. Ma sono fatta così sul lavoro: non ho una mentalità da artista, ciò che mi ha permesso di fare le cose che ho fatto è semmai il mio approccio da atleta. Mi alleno, studio e faccio ricerche prima di andare sul set… Un po’ come è successo per interpretare Consuelo nella quarta stagione di Mare fuori: mi sono immersa nelle ricerche fino a farmi venire la nausea.

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Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris; Styled: Gia
Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris; Styled: Gianluca Cococcia; Press: MPunto Comunicazione).

L’atleta più che l’artista deve avere una dote fondamentale per agguantare il suo risultato: l’autodeterminazione, una parola che nel tuo percorso di vita ha un peso determinante. Nessuno ti insegna cosa sia: devi avercela affinché venga fuori. Quando hai scoperto che in te c’era così tanta forza non solo per divenire attrice ma per essere la donna che sei oggi?

(Si commuove, ndr). Tutte noi donne siamo un animale forte per natura: sono le convenzioni e gli stereotipi della società che annientano la nostra forza e provano a reprimerla. Molte lasciano che avvenga mentre altre, quando non hanno scelta, devono necessariamente tirare fuori la forza per andare avanti, come è accaduto a me. Ho dovuto tante volte nella vita rialzarmi in piedi e applaudire me stessa per averlo fatto: non c’era nessuno a farlo per me.

Ma ha avuto un sapore che non si può facilmente spiegare con le parole: è in quei frangenti che capisci che tutto il tuo mondo sei tu. Quell’applauso ha il sapore della realizzazione, del ‘ce l’ho fatta’ e del ‘non devo dire grazie a nessuno se non a me stessa’, e può essere dedicato all’aver preso un piccolo ruolo in una pubblicità o a una piccola vittoria, non necessariamente di lavoro, nella vita di tutti i giorni. Anche se, ogni tanto sarebbe bellissimo poter dire grazie a qualcuno che è lì con te…

Per voi brasiliani, una parola fondamentale è saudade. A te cosa fa venire in mente ogni volta che la senti?

In Italia, spesso, la si spiega come mancanza di qualcosa o di qualcuno. Io invece spiegherei la saudade come qualcosa di molto più profondo e anche amara di ciò che si pensa. Tra l’altro, credo che abbia una connotazione ancora più amara per quelli che, come me, sono spersi per il mondo: è come una doppia fregatura che ci fa avvertire la mancanza del Brasile quando siamo altrove e la mancanza dell’altrove quando siamo in Brasile…

Rimane una parola che però non riesco a tradurre o a spiegare ma non è semplice nostalgia: è una perenne sensazione di mancanza di qualcosa, che ti fa non essere mai soddisfatto, anche delle piccole cose. Vivi quindi come in uno stato di insoddisfazione perenne che dalla mente si propaga a tutte le cellule de corpo. Tuttavia, quando avverto che sta per partire la saudade, sarà anche per tutto ciò che nella mia vita ho attraversato, cerco di correggere il mio umore, apprezzando quello che sto facendo o, persino, mangiando in quel momento. Il segreto per non farsi abbattere è quello di apprezzare le piccolezze di tutti i giorni, i suoi sapori e i suoi profumi.

Quanto l’amicizia può essere di supporto nella vita di chi ha sempre dovuto combattere con la solitudine?

Gli amici sono un tassello importantissimo nel nostro cammino. Ogni mattina, quando mi sveglio, mi chiedo quali sono le ragioni per cui devo essere grata alla vita. Nella lista delle risposte, ci sono sempre, al di là della salute e di mia sorella, quei pochi amici che per me sono stati, metaforicamente, come dei ponti o degli angeli: sono loro che mi hanno tirata fuori dai momenti bui. Ci si può anche non vedere spesso o stare costantemente insieme ma è con la loro vicinanza emotiva che mi permettono di capire che per me ci sono o si emozionano.

Ricorderò sempre come ad esempio una mia carissima amica si sia messa a piangere per l’emozione quando le ho detto che ero stata presa per Falla girare 2, il sequel del film di Giampaolo Morelli che vedrete prossimamente. Ha reagito come reagirebbe una mamma o qualcuno della tua famiglia, ragione per cui spesso facciamo ciò che facciamo anche per le persone a cui vogliamo bene e non solo per noi stessi.

Se dovessi definire i miei amici, userei proprio la parola ‘famiglia’. Non sono tanti, si contano sulle dita di una mano ma sono gli stessi da più di dieci anni. Non fanno il mio stesso lavoro: non è un dettaglio di poco conto perché, da curiosa degli altri mondi, mi arricchisce.

Famiglia per te significa tua sorella, più piccola di un anno. Siete cresciute insieme supportandovi a vicenda. Come ha preso il tuo lavoro?

Io e mia sorella abbiamo un rapporto molto in simbiosi ma anche molto altalenante per certi aspetti: ci sono stati dei momenti in cui io ho fatto da mamma a lei e altri in cui la situazione si è capovolta, con lei a fare da mamma a me. Mentre io sono un po’ più serena e riesco a farmi scivolare tutto addosso, mia sorella è molto ansiosa e ha bisogno di tenere sotto controllo ogni aspetto che la riguarda. Ogni tanto, soffre più di me il mio lavoro per la poca stabilità che comporta: con le sue domande sulle ‘novità’ finisce spesso con il mettere ansia anche in me che ansiosa non sono (sorride, ndr). Diciamo pure che prende il mio lavoro più o meno come una mamma non modificata genericamente al nepotismo o a qualsiasi altro tipo di favoreggiamento. Quindi, sì, lo soffre ma ne è anche molto fiera.

“Mamma”: una parola che è fino a qui tornata fuori diverse volte. Ciò che è accaduto a te in passato ha influito su un tuo eventuale desiderio di maternità?

Credo di sì. Ma non solo su me: credo che abbia toccato anche mia sorella. Sta con il marito da otto anni e, nonostante parli del desiderio di avere dei figli, continua a rimandare la maternità di anno in anno. Per quanto mi riguarda, non mi piace dire “mai” ma avrei paura, per come va il mondo oggi, a mettere alla luce un essere indifeso. Ma forse la verità è un’altra: non sono stata abbastanza figlia. Ed io voglio essere ancora figlia: è come se ci fosse un vuoto che non sono riuscita ancora a colmare.

Mare fuori 4: Desirée Popper

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Per due anni, hai vissuto e lavorato a Istanbul, una città dalle due facce: una aperta al futuro e una costantemente chiusa nel passato. Com’è stata la tua esperienza da giovane donna in Turchia?

Ho vissuto nella parte occidentale della città, quella molto moderna e aperta, propensa al cambiamento. Un po’ come accaduto a Berlino qualche anno fa, chi vi vive ha il bisogno di dimostrare che sta guardando in avanti e che si è lasciato alle spalle un certo modo di pensare. Ed è una sensazione che ho avvertito anche solo guardandomi intorno: le donne, ad esempio, erano liberissime di truccarsi, di vestire come volevano e di andare al supermercato anche con il tacco 12. Non ho mai frequentato la parte più conservatrice della città, sono sincera. Di mio, posso dire di avere amato quella fetta stupenda di Istanbul che ho conosciuto: un’esperienza che mi ha arricchito molto anche a livello umano.

Sei riuscita a imparare il turco?

Se c’è una facilità che mi riconosco, è quella con cui imparo le lingue: sono in patica come una spugna, assorbo ciò che sento e mi adatto. Per me, diventa quasi una challenge parlare la lingua del posto e cercare di mimetizzarmi tra la gente. Quindi, sì, l’ho imparata anche se a oggi, non sentendola più così spesso, ho perso un po’ di fluency: tra l’altro, è molto basic come lingua, chiunque ha una buona memoria può facilmente comprenderla e parlarla.

Tra i vari progetti che in cui ti vedremo in questo 2024 c’è anche The Dadchelor, un film Netflix diretto da Jon Karthaus in cui recitano tra gli altri anche Matteo Simoni, Alvise Rigo e Paolo Camilli. Com’è stato ritrovarsi su un set internazionale?

Una figata assurda! (ride, ndr). Mi sono sempre trovata bene anche sui set italiani ma in questo caso mi sono ritrovata a lavorare con tutte persone molto giovani, dal cast alla crew, dal regista al produttore. È come se all’estero venisse dato molto più spazio ai giovani, cosa che ha reso il set molto fresco e, tra l’altro, ben organizzato. Sono rimasta colpita ad esempio di come tutta la macchina organizzativa facesse in modo di non sforare mai i tempi di lavorazione previsti, ogni ingranaggio funzionava a dovere.

E, in più, mi sono da subito sentita parte integrante del cast: si è fatto subito gruppo, con nessuno che poneva differenze tra un attore più affermato e un altro meno. Eravamo tutti alla pari e tutti lì per portare un prodotto a casa, aspetto che qualche volta manca in Italia, dove chi ha un ruolo minore spesso viene tenuto ai margini da chi si reputa star. Mi è capitato di stare su set italiani con attori protagonisti che nemmeno mi rivolgevano la parola… non è che me mi toccasse più di tanto: di mio, ero felice di essere lì ma lo reputo un atteggiamento stupido. Ogni persona che ti rifiuti di conoscere è uno scambio, costruttivo per entrambi, che perdi.

Per te, invece, lo scambio è fondamentale. Scrutando sui tuoi social, ho notato qualcosa che non avevo mai visto in vita mia (eppure, è da quasi vent’anni che faccio questo mio lavoro): a set concluso, porti via la sceneggiatura con le dediche di chi a quel progetto ha lavorato scritte a mano sulla prima pagina. Che valore assume quella sceneggiatura per te?

(Si commuove nuovamente, ndr) Mi commuovo perché, umanamente, non c’è cosa più bella di vedere la reazione di un tecnico delle luci che si ritrova davanti l’attrice con la sceneggiatura in mano che gli chiede una dedica. Restituisce l’importanza che ogni singolo componente ha nell’aver fatto qualcosa insieme: il risultato è per me il frutto di ogni singola ‘gocciolina di sangue’ che ci è stata richiesta.

Quella sceneggiatura firmata mi aiuta nei giorni successivi alla chiusura di un set quando si vive una sorta di buco nero di cui tanti non parlano. In quei giorni, è come se si andasse in down e si vivesse in uno stato di sospensione tra ciò che è stato e ciò che poteva essere. Ed è allora che tiro fuori quella sceneggiatura e rileggo le parole lasciatemi dagli altri (mai lette fino a quel momento).

Ma non è anche un modo per placare il senso di solitudine?

Può darsi di sì. Non ci avevo mai pensato prima e lo sto realizzando mentre parliamo: è come se conservassi per sempre con me il ricordo. Fa coppia con la mia abitudine di scattare Polaroid anche con i miei amici per poi riempire il wall di foto che ho in camera da letto. È il mio modo per ricordarmi che non sono sola e che c’è un sacco di gente che mi vuole bene, la mia ‘famiglia’.

Qual è il peggior difetto di Desirée che non tolleri?

Per alcuni non sarebbe un difetto ma per me lo è: sono molto dritta e schietta. Vorrei essere più morbida, soprattutto con le persone a cui voglio bene, perché nell’essere così sincera, onesta e senza risoluzione nelle mie risposte ogni tanto faccio soffrire chi amo. Ma c’è anche un secondo difetto che vorrei smussare: sono troppo affettivamente indipendente.

Chiariamolo subito: non sono alla ricerca in questo momento di un legame affettivo ma, quando osservo le coppie in simbiosi, nella mia testolina alcune volte scatta il pensiero per cui mi piacerebbe vivere la stessa situazione. Il che non vorrebbe dire divenire succube dell’altro ma annullare il distacco che, per cause di forza maggiore, mi porta ad allontanarmi dall’altro per paura che un giorno possa ferirmi.

Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris; Styled: Gia
Desirée Popper (Fotografa: Olga Mai; Make up: Barbara Versolato; Wearing: Sandro Paris; Styled: Gianluca Cococcia; Press: MPunto Comunicazione).
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