Arriva in sala il 16 marzo il film Diario di spezie, diretto da Massimo Donati. Prodotto da Master Five Cinematografica in coproduzione con Rai Cinema e Rodeo Drive, è un noir che Donati ha tratto dal suo omonimo romanzo, pubblicato da Mondadori nel 2013.
Protagonisti del film Diario di spezie di Massimo Donati sono tre uomini all’apparenza senza alcun collegamento: lo chef Luca Treves, il restauratore Andreas Dürren-Fischer e il poliziotto Philippe Garrant, portati in scena da Lorenzo Richelmy, Fabrizio Ferracane e Fabrizio Rongione. La storia ci porta direttamente in Belgio, dove a un matrimonio, Luca viene presentato ad Andreas, suo grande ammiratore. Quella che sembra una conoscenza casuale si trasforma presto in un viaggio in auto che dal Belgio, passando per la Germania, dovrà condurre entrambi in Italia.
Tuttavia, sosta dopo sosta, il viaggio assume il sapore di un cammino verso un passato rimosso e di una discesa agli inferi sempre più ardita e pericolosa. La vita di Luca viene totalmente stravolta di fronte ad atrocità che hanno come oggetto la fascia più indifesa dell’umanità: i bambini. E, mentre Luca perde la sua innocenza davanti a un “oste” che ben sa cucinare le sue prede, Philippe indaga sulla scomparsa di sua figlia, avvenuta anni prima, mettendola in relazione con altre misteriose sparizioni. È alla ricerca di fantasmi ma anche di giustizia, la stessa che chiede a gran voce anche la giovane Juliette (Galatéa Bellugi).
Mentre diventa presto chiaro chi è chi, il film Diario di spezie è accompagnato da una domanda che Massimo Donati pone a tutti quanti prima di offrirci la risposta: cosa muove il misterioso Andreas? Per scoprirlo, occorrerà aspettare il finale, girato tra le montagne del Trentino sullo sfondo di un selvaggio west innevato.
La storia produttiva di Diario di spezie è particolarmente interessante. Prima di essere un film, è stato un romanzo che è nato da un trattamento cinematografico: un bel corto circuito che lo stesso Donati ci racconta nel corso di questa intervista esclusiva.
Intervista esclusiva a Massimo Donati
Raggiungo telefonicamente il regista, sceneggiatore e scrittore Massimo Donati a tarda sera. Il perché è presto detto: è impegnato a teatro con uno spettacolo su Don Milani, in cui in scena ci sono tre donne legate al prete di Barbiana che ne restituiscono un ritratto più intimo di quello che conosciamo tutti. È destinato soprattutto a un pubblico di ragazzi ma piace molto anche agli adulti. Ma sicuramente è qualcosa di molto diverso da Diario di spezie, il suo primo film.
Diario di spezie è il tuo primo film di finzione. Sono passati dieci anni dalla pubblicazione del romanzo...
Eh, sì. La storia del film è una storia molto lunga. Prima di nascere come romanzo, Diario di spezie è nato come racconto cinematografico: era quello che in gergo si chiama un trattamento e aveva vinto il premio Solinas un po’ di anni prima. La storia è rimasta veramente tanto in cantiere prima di diventare un romanzo e riprendere dopo la strada per tornare a essere film.
È una storia che ti è rimasta dentro per parecchio tempo…
Più che rimanermi dentro mi ha accompagnato per tanti anni. Il trattamento era stato scritto per il premio Solinas quando avevo appena finito la scuola di cinema, che tra le altre cose ho anche frequentato abbastanza tardi. Nel frattempo, sono cresciuto, ho fatto altre esperienze cinematografiche, ho realizzato un documentario (Fuoriscena), ho pubblicato un altro romanzo (Giochi cattivi) e ho realizzato soprattutto spettacoli teatrali, di cui ho firmato sceneggiatura e regia. Tutto ciò, sommato, ha contribuito a portarmi alla regia del mio primo lungometraggio.
Oltre a Diario di spezie, hai pubblicato nel 2018 il romanzo Giochi cattivi. Ad accomunare entrambi è il male assoluto. Mi spieghi il perché?
Il perché bisognerebbe chiederlo a uno psicologo (ride, ndr).
In Diario di spezie c’erano due linee, una più teorica e l’altra più emotiva e forse irrazionale. Quella teorica mi permetteva di lavorare sul genere, apportando una serie di modifiche strutturali al plot e mescolarlo con altre forme di narrazione più legate all’esistenza degli esseri umani e al loro modo di stare al mondo, di confrontarsi ma anche di confliggere. Se vogliamo, era una linea più autoriale o letteraria che mi portava a voler seguire la strada di alcuni grandi autori americani che mi piacciono molto e che mescolano vari generi dandogli una direzione più profonda.
La linea emotiva era invece legata all’idea del male assoluto che, stando alle spalle delle persone, in qualche modo incombe, le trasforma e si insinua in profondità nei rapporti. Il male che attraversa la relazione fra Luca e Andreas è un male che risale a una generazione precedente.
Quando ho dovuto pensare al film, ho avuto in mente l’idea della tragedia classica, spesso animata dall’ineluttabilità dei fatti, qualcosa che fa scontrare gli esseri umani ma che va anche molto oltre. L’ho chiamato male assoluto e mi ha permesso di esplorare lo strano rapporto che si crea fra uno chef e un grande restauratore.
In Giochi cattivi, invece, ho preso un’altra strada. L’idea del male c’è ancora ma per certi aspetti è ancora più pervasiva: si racconta di un male che addirittura viene dalla natura.
Il punto di unione tra le due storie è il Trentino. Cosa ti ha fatto di così brutto la regione per trasformarla nel regno del male?
Nulla. Il Trentino semmai mi piace come spazio visivo, come ambientazione e come umanità. Ho trascorso molte vacanze in Trentino da piccolo e ci sono tornato tante volte da adulto: è una regione che mi è rimasta dentro e amo la montana.
In Diario di spezie, il Trentino ha un senso anche metaforico ed era legato all’ascesa e al separarsi dalla civiltà. Il salire in montagna diventa quasi un duello in uno spazio selvaggio: i due protagonisti sono in qualche modo all’ultimo stadio del loro scontro e si giocano la vita e la morte separati dal resto della società.
In Giochi cattivi, invece, lo scenario è molto più ampio: è quello del ricordo, della nostalgia e del ritorno a ciò che non è più. Quando dopo trent’anni il protagonista torna in montagna, tutto è cambiato: c’è stato uno sterminio naturale e il panorama umano che conosceva non c’è più.
Il numero 3 è qualcosa che ritorna in entrambi i romanzi. Concentriamoci su Diario di spezie e il film che ne hai tratto. Al centro del racconto ci sono tre uomini tra loro molto diversi, Luca, Andreas e Philippe, interpretati da Lorenzo Richelmy, Fabrizio Ferracane e Fabrizio Rongione. Ma anche una donna, Juliette, portata in scena da Galatéa Bellugi. Ed è forse la donna l’unico personaggio ad avere una sorta di happy ending, se così vogliamo definirlo: è la sola che chiude definitivamente i conti con il passato.
Per certi aspetti, anche Philippe chiude i conti con il passato e la scomparsa della figlia, apprendendo delle verità che probabilmente sono tali, qualora sia vero ciò che gli viene raccontato da Andreas. Juliette è una sorta di prolungamento di Philippe: è lui che le da la possibilità di guardare in faccia il suo carnefice e vedere che fine farà. Ho volutamente lasciato in sospeso la scena finale ma quello che si evince è come l’umanità di Juliette non sia stata distrutta dall’atrocità vissuta: il guardare in faccia il suo carnefice rappresenta la sua salvezza. È una nota di speranza che ci porta fuori dalla dimensione noir di una storia dura per tutti gli aspetti legati alla violenza sui minori.
Come ho ripetuto già varie volte, non ho voluto appositamente raccontare nel dettaglio cosa accade ai bambini. Si parla sostanzialmente di un’organizzazione che traffica minori ma mi interessava sottolineare il male assoluto che ci sta alle spalle, qualcosa di molto superiore anche al reale. Ho lasciato il dolore e la morbosità sottotraccia perché l’attenzione si doveva concentrare su tutt’altro: il male che si può fare verso un minore è il più grande dei mali che possiamo immaginarci nella nostra quotidianità civile occidentale.
Quanto è stato difficile per te scrittore e in quanto tale deus ex machina di una storia trasformarti improvvisamente in regista, un lettore che dà vita con le immagini alle parole? Non è un processo di transizione abbastanza complesso?
Non è stata un’operazione a cuore leggero. Ma è stata facilitata dall’aver pensato sin dall’inizio a Diario di spezie come a un film. la fatica più grande è stata quella di trasformare l’adattamento in romanzo: non ne avevo mai scritto uno, non almeno con l’intenzione di pubblicarlo. Avevo scritto in precedenza altro ma non un romanzo e quando ho dovuto farlo mi sono accorto di quanto dovevo imparare sulla scrittura, di quante cose non sapevo e dovevo costruire. È stata quella la vera grande fatica: mi ha richiesto anni perché, comunque, sentivo il disagio di non essere adeguato.
Ho continuato a studiare, ad approfondire e a sperimentare l’artigianato delle scrittura: ho riscritto più volte la storia, ho cambiato il tempo verbale (dal passato al presente per dare immediatezza alla storia) e mi sono dato delle regole formali, anche molto rigide, a cui attenermi. E le regole molto spesso si rivelano delle trappole che ti obbligano a fare dei giri immensi per risultare semplice e allo stesso tempo efficace. Ho fatto una bella fatica e mi sono fatto affiancare da altre persone.
Quando si è affacciata la possibilità di tornare al film e ho quindi dovuto scrivere la sceneggiatura, il romanzo mi ha permesso di approfondire molto i dettagli delle psicologie e anche delle immagini che dovevo restituire: in qualche modo, nella mia mente ho costruito le situazioni in maniera molto più dettagliata di quanto avessi fatto in precedenza. Per un film si deve, anche per via di aspetti produttivi, asciugare il più possibile.
Ho anche realizzato uno storyboard ma una volta sul set il film è stato almeno in piccola parte riscritto nuovamente, sebbene avessi le idee chiare sul da farsi. Parte dei dialoghi, ad esempio, sono stati messi a punto, lavorando in particolare con Lorenzo Richelmy e Fabrizio Ferracane: erano fondamentali per la storia e dovevano funzionare. Con Fabrizio abbiamo anche inventato una lingua particolare per il suo personaggio: una sorta di impasto che ha voluto regalarmi e che ha contribuito non poco alla riuscita del suo Andreas.
Sei infatti riuscito nell’impresa di “spalermitanizzare” Fabrizio Ferracane…
È stata tosta ma Fabrizio è stato bravissimo a lavorarci sopra. Sono serviti molta fatica e molto impegno: non è qualcosa che abbiamo fatto in due giorni a cuor leggero. Abbiamo iniziato mesi prima a parlare di Andreas, anche perché chiaramente i dialoghi vanno di pari passo con la psicologia, del modo in cui pronunciava una determinate frase e del discorso sulla lingua. Fabrizio ha studiato con un insegnante di madrelingua francese per poi proporre un francese comunque contaminato di tedesco e di italiano. Mi piaceva l’idea che non si identificasse esattamente la sua provenienza: ha un cognome tedesco ma potrebbe essere belga e lo sentiamo parlare italiano… una bella complessità con cui confrontarci.
Luca e Andreas fanno due lavori, lo chef e il restauratore, che non sono casuali. Sono metaforici delle loro personalità: lo chef è colui che dosa gli elementi per trovare la ricetta perfetta mentre il restauratore è colui che invece è costretto a riportare un’opera alle sue origini. Due lavori in contrasto come i due personaggi.
Andreas, nel percorso all’interno del film, deve tornare alla radice nera della sua vita, scavando. Che poi è quello che fa un restauratore: interviene materialmente su un’opera riportando alla luce la sua essenza e levando spesso strati che si sono accumulati sopra. Un’operazione che si propone di fare con il suo piano, anche un po’ pazzesco, nei confronti di Luca: far emergere una verità secondo cui, a parità di condizioni, entrambi si sarebbero comportati allo stesso modo. Non è un caso che anche Luca si ritrovi a far delle cose terribili. Mi piaceva, inoltre, il contrasto tra la bellezza della cucina e del restauro con il male assoluto, con l’orrore che sta alle loro spalle.
Due mestieri che hai particolarmente studiato…
Come si evince più dal romanzo che dal film, mi ero studiato sia il mondo della cucina sia quello del restauro. C’era anche una prima stesura che conteneva molto di più in termini di ricette, alcune originali e altre totalmente inventate o rimaneggiate da me. Così come c’erano anche lunghe descrizioni sull’arte del restauro. Mi sono serviti a scavare in profondità per capire cosa fa un cuoco o un restauratore: è stata una bella palestra poter studiare ambiti lontani dal mio. Mi ha permesso di capire cosa muove i personaggi della storia: Diario di spezie è un noir che si fonda sul perché Andreas porti Luca in viaggio con sé.
Dicevi che sei arrivato al cinema relativamente tardi. La domanda è dunque d’obbligo: cosa porta un laureato in Fisica ed ex ricercatore del CNR come te al cinema? Cosa ti ha spinto a lasciare il certo per seguire quella che a molti può apparire solo come una passione?
La passione per la letteratura e per il cinema ci sono sempre state sin da quando ero piccolo. A casa dei miei genitori ho ancora degli appunti su storie che volevo raccontare ma che poi lasciavo lì. Ho da sempre amato il cinema, anche grazie a mio fratello e a un gruppo di amici. Per tanti anni, è stata una passione che ho espresso solo a me stesso: ho passato notti intere a immaginare ad esempio come avrei visto una determinata scena ma senza che ne sapessi nulla della tecnica.
Avevo iniziato il mio percorso da ricercatore subito dopo la laurea. Mi piaceva anche molto e pensavo che fosse quella la strada giusta per me. Tuttavia, il desiderio di raccontare storie diventava man mano sempre più forte. Sono una persona che sta molto in ascolto di se stesso e del proprio sentire e, proprio quando avevo vinto due concorsi come ricercatore, ho realizzato che, per quanto amassi quel lavoro, non era quella la mia inclinazione. Approfittando di uno stop natalizio, ne parlai con la mia fidanzata di allora e presi la mia decisione. Lasciai la ricerca per iniziare un percorso di tipo cinematografico.
Ho frequentato la scuola di cinema, per un periodo ho lavorato in radio e ho fatto un po’ di cose che mi hanno nutrito, fra cui anche insegnare. Sono rimasto alla scuola di cinema come tutor per i corsi di sceneggiatura fino a quando non è arrivato Diario di spezie…
Qual è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato una volta sul set?
Le difficoltà per un regista sono veramente molteplici. La più grande, sebbene fossi circondato da una troupe non enorme ma molto affettuosa e bella, è quella di trasferire agli altri l’immagine precisa che hai in testa, il far vedere agli altri esattamente quello che vedi tu. Un’altra è poi legata alla lotta costante contro il tempo: se non avessi avuto come direttore della fotografia Vladan Radovic probabilmente non sarei mai riuscito a finire il film nei tempi che avevamo a disposizione.
Su un set è come se si fosse sempre in corsa, con dei cani arrabbiati che ti inseguono, una situazione che devi coniugare con il tuo desiderio di qualità. Puntavo alla qualità assoluta sulle battute, su come venivano pronunciate, sulle espressioni degli attori… le due cose creano un conflitto interiore fortissimo.
Ricordo perfettamente ancora una scena, il monologo di Andreas sull’amore in auto, girata tantissime volte: sebbene Fabrizio (Ferracane, ndr) fosse molto bravo e dotato, le pause non erano come le avevo immaginate io per dieci anni. Dovevamo andare da un’altra parte a girare altro, eravamo già in ritardo sulla tabella di marcia ma non so quante volte l’abbiamo ripetuta: per me era importante non rompere l’emozione perché in quel monologo c’era tutto il nichilismo di Andreas.
Hai dato agli attori la possibilità di leggere anche il romanzo o dovevano attenersi alla sola sceneggiatura?
Ho dato loro anche il romanzo: ho pensato che potesse aiutarli a costruire la psicologia dei personaggi. Il romanzo ha però un carattere fortemente cinematografico: mi ero dato come regola quella di non raccontare i pensieri dei personaggi. Dovevano emergere attraverso i dialoghi o le azioni ma mai direttamente. Però, non ho mai controllato che l’abbiano letto: non li ho interrogati (ride, ndr).