Diego Conti è da poco tornato in radio con il singolo I baci a scuola, canzone di cui TheWom.it vi presenta oggi in anteprima esclusiva il videoclip, diretto da Alessandro Porzio (e in cui è presente anche Fabiana Protani). Prodotto da Ivan Antonio Rossi e registrato a Bologna presso i mitici studio Fonoprint sotto la supervisione del produttore e discografico Leo Cavalli e a Milano presso l’8brr.rec Studio, I baci a scuola porta, oltre alla firma di Diego Conti, anche quella di Andrew Long Oldham e Cheope.
Per chi se lo stesse chiedendo, sì: è quell’Andrew Long Oldham, lo scopritore, produttore e manager dei Rolling Stones, che con Diego Conti ha lavorato sulla musica. E sì, è quel Cheope, pseudonimo dietro cui si cela Alfredo Rapetti Mogol, uno dei parolieri più apprezzati d’Italia (sue canzoni per Mango, Marcella Bella, Rettore, Laura Pausini, Adriano Celentano, Francesca Michielin, Arisa, Michele Bravi, Noemi, Alessandra Amoroso, tra gli altri) e figlio dell’altrettanto leggendario Mogol che ha contribuito al testo.
A parlarci di cosa racconta I baci a scuola e di come sono nate le collaborazioni è lo stesso Diego Conti, che abbiamo imparato a conoscere già nel 2016 grazie alla partecipazione a X-Factor, nella squadra capitana da Arisa, nel 2018 a Sanremo Giovani e nel 2019 ad Amici di Maria de Filippi. Ma ciò che abbiamo visto finora di Diego Conti, ventotto anni, è soltanto la punta di un iceberg che affonda in un oceano di cuore, come scopriamo pian piano nel corso di una conversazione che si trasforma in maniera spontanea in un racconto di vita segnata dalla ruggine, talvolta dal pregiudizio ma sempre con la voglia di andare avanti. Anche con qualche angelo in più al proprio fianco.
Intervista esclusiva a Diego Conti
Cosa racconta I baci a scuola?
I baci a scuola è, senza dubbio, la mia canzone manifesto, figlia di un romanticismo e di una visione romantica della vita che fa parte di me e che nessuno di noi dovrebbe far morire in questo mondo sempre più folle in cui viviamo. La canzone è un viaggio nell’universo delle emozioni e dell’intimità di una donna nel periodo della sua adolescenza, quell’adolescenza fragile e indimenticabile, piena di vertigini nello stomaco, di sentimenti nuovi da scoprire e, appunto, di baci dati, di quelli che era meglio evitare, di quelli sognati e di quelli che non riceverà mai.
Siamo tutti la somma dell’amore e delle mancanze che ci piovono addosso, soprattutto nel periodo dell’adolescenza in cui ci si forma. Quando abbiamo a che fare con una persona che entra a che fare con la nostra vita e ne siamo già in parte innamorati persi, bisognerebbe fare i conti con il suo vissuto intimo per conquistarla e conoscerla davvero. Il mio consiglio è sempre quello di domandarle: “Ma tu, a chi li davi i baci a scuola?”. È una metafora ma entra molto nell’intimo.
I baci a scuola è nata da mille colpi di fulmine, mille delusioni, mille storie di vita e mille baci. È sicuramente autobiografica ma parla di noi tutti: è un po’ un lavaggio del cervello di quel periodo magico dell’adolescenza, in cui tutti ci siamo immersi per la prima volta nel mondo dell’amore.
E tu a chi li davi i baci a scuola?
Sicuramente li davo a una ragazza che mi ha fatto tremare un po’ le gambe, che mi ha addolcito il cuore e che ha risvegliato in me quel romanticismo che mi porto tuttora addosso. Spesso, il rischio è che, crescendo e vivendo mille esperienze diverse, lo si perda per strada: nel mio caso, invece, ha preso il sopravvento nella mia personalità, è ancora vivo e vegeto e si acuisce con il passare del tempo.
La canzone è il risultato di tutto ciò ed è anche stata la prima che ha fatto scoccare l’amore tra me e Andrew Long Oldham, il primo manager, producer e pigmalione dei Rolling Stones.
Come vi siete conosciuti? Non è che sia così facile incontrarlo passeggiando per strada…
Come tutte le cose più belle, mi piace lasciare sempre una sorta di alone di mistero ma… per certi, versi è andata esattamente così, come dici. Ho sempre sognato l’incontro: sono cresciuto ascoltando i Rolling Stones su tutti (ma anche tantissimi altri gruppi come gli Oasis o artisti come Bob Dylan, Lucio Battisti, Lucio Dalla e Vasco Rossi). Devo tuttavia ringraziare un “angelo”: sentendomi suonare per caso, una persona a cui era piaciuta la mia musica un bel giorno mi ha detto che a casa sua, ogni settimana, andava a prendere il the Andrew Long Oldham. Lì per lì, non ci credevo ovviamente e ho fatto cadere la discussione.
Quando ho cominciato a registrare il disco in cui I baci a scuola sarà contenuta, quella stessa persona mi ha mandato un ulteriore messaggio in cui mi chiedeva, su richiesta di Andrew, di fargli ascoltare qualcosa su cui stavo lavorando per valutare di darmi qualche consiglio. Sono in quell’attimo cascato dal letto. So che può sembrare una roba folle ma è andata letteralmente così. Il tutto è accaduto mentre stavo attraversando uno dei periodi più bui della mia vita ed eravamo nel pieno della pandemia da CoVid, subito dopo la primissima fase tosta. Ero in un periodo di down ma Andrew Long Oldham mi ha rialzato donandomi un’energia incredibile.
La demo casalinga di I baci a scuola è stata a tutti gli effetti la prima canzone che gli ho mandato. Ha cominciato da quel giorno a darmi dei consigli e siamo arrivati a oggi a qualcosa come 500 e-mail sull’album che verrà, prodotto con Fonoprint Studios, un tempio della musica italiana. Oltre a quello con Andrew, un altro incontro bello nel mio percorso è stato quello con il produttore Leo Cavalli: è una bella favola, che mi emoziona tutte le volte che la racconto.
Grazie a Fonoprint, ho avuto la possibilità di incontrare un giorno presso gli studi di registrazione Cheope, uno dei più grandi autori di testi in Italia nonché figlio di Mogol. Sentendo I baci a scuola, anche lui ha manifestato il suo interesse a collaborare con me.
I baci a scuola è quindi una canzone che hai scritto tu con Andrew Long Oldham e Cheope al cui interno è presente un chiaro riferimento a un pezzo storico di Lucio Battisti, firmato proprio dal padre di Cheope: Il tempo di morire.
Ero impegnato in una chiamata Zoom con Cheope, ragionavamo sul testo quando come dall’alto mi arrivato il “Non dire no” quasi in soccorso di una terzina che mi mancava. Ho espresso allora il mio desiderio di omaggiare chiaramente Battisti e suo padre: Cheope ha sorriso e il risultato è nella canzone.
Nel video che accompagna la canzone ti si vede in una veste molto rock’n’roll più che romantica. Ti piace nascondere il lato romantico o è semplicemente una scelta estetica?
È semplicemente come sono io nella vita di tutti i giorni: chi è rock’n’roll, ha un grande cuore. Rock’n’roll, in definitiva, vuol dire “ruggine”, se ci pensiamo. E chi conosce la ruggine ne rimane segnato perché, in fondo, ha veramente un grande cuore. Non avrei mai potuto scrivere le mie canzoni senza le belle emozioni che ho provato o le delusioni della vita. Il protagonista del video sono semplicemente io e come suonerei la mia canzone davanti a un pubblico.
Mentre parlavi, ho sentito abbaiare un cane. È il tuo?
Ho un labrador che si chiama Us, Noi… L’ho chiamato così perché mi ricorda la mia famiglia, ossia le persone che ci sono e, magari, anche quelle che non ci sono più come mia madre. Se n’è andata troppo presto per colpa di una malattia brutta ma è stata colei che in famiglia mi ha dato quella vena artistica romantica che poi si sente nelle mie canzoni.
Quanti anni avevi quando è andata via?
23/24. Purtroppo, è andata via per un cancro al seno, che combatteva da tantissimo. È stata forte, come un pugile (mi ricorda molto la canzone di Paul Simon, The Boxer), ed era una donna con un grande cuore. La parte femminile che è dentro di me e di cui non mi vergogno la devo a lei. Quando si chiede a un artista come nascono le proprie canzoni, è giusto raccontarlo: non ci sono solo gli amori dietro all’essere romantico ma anche gli eventi che mi hanno segnato, gli stessi che mi danno la voglia di prendere una chitarra, salire su un palco e spaccare tutto per sottolineare che, nonostante tutto, la vita è bella e va vissuta.
Nasce anche da lì la ruggine a cui accennavo prima. Quando ho partecipato a X-Factor e per la prima volta, dopo essere stato recluso per un po’ di tempo, sono salito sul palco per esibirmi con la mia canzone, cercavo di vedere tra il pubblico mia madre ma non c’era. Ho saputo solo dopo che era sotto i ferri, in ospedale, al Gemelli di Roma… è questa la ruggine che mi ha aperto il cuore e che mi porto dentro. Mi consola l’aver avuto la soddisfazione di averla vista seduta sulle poltrone rosse dell’Ariston quando ho partecipato a Sanremo Giovani nel 2018.
Facciamo un salto indietro nel tempo e torniamo a quando ero pressappoco un bambino. A dieci anni, hai cominciato il Conservatorio. Com’è stato a quell’età confrontarsi con la rigidità che richiede?
Eh… Suonavo già la chitarra elettrica quando un bel giorno mi sono svegliato con il desiderio di approfondire la musica in sé e di andare a suonare musica che in realtà non ascoltavo. La rigidità però non fa per me… ma il Conservatorio mi ha aiutato molto a capire cosa volessi fare realmente nella vita: quella rigidità somigliava a quel percorso che non avrei mai voluto intraprendere (non me ne vogliano i musicisti classici!). Non ho mai amato il ricevere i voti: tutto oggi è un numero ma preferisco fare l’amore.
Ho sempre avuto l’impressione che i conservatori siano più utili a chi desidera diventare un esecutore e non un cantautore.
Impari a studiare spartiti anche di dodici pagine ma non a scrivere canzoni di tuo pugno. Almeno, nel mio caso è andata così: anche i corsi di composizione erano votati alla musica classica e mai al pop moderno, verso cui c’era anche un certo snobismo. Dopo aver partecipato a X-Factor, non ho terminato gli studi al Conservatorio perché, a tre anni dalla fine dei dieci previsti, non ne potevo più di certe rigidità e pregiudizi: quando entravo in classe, ad esempio, per il mio professore di armonia ero diventato il “canzonettaro”, detto con un certo tono sprezzante.
Mi aveva etichettato così come aveva etichettato un intero genere e un’intera schiera di artisti con cui ero cresciuto, dimenticando anche come sia difficilissimo fare anche le cose semplici che arrivano dritte al cuore, soprattutto se non sei ispirato. Per fortuna, tutto ciò non mi ha mai fatto odiare la musica classica, che ancora oggi ascolto con grande amore.
Ti chiedi mai se l’esperienza a X-Factor ti è stata utile o meno?
È stata la prima grande, grande esperienza che mi ha sicuramente travolto e crescere molto. Sono stato preso dopo quattro o cinque tentativi: la vita mi ha fatto capire così che se vuoi qualcosa, al di là come andrà, riuscirai a realizzarla, anche partendo dal basso. Ero molto giovane e non ero ancora pronto: non avevo le canzoni che ho oggi e non ero la persona che sono diventato… non avevo ancora vissuto la ruggine che ho adesso nel background. Ma è un’esperienza che porto dentro con me, una bella esperienza. Ricordo anche con piacere come, non appena uscito, mi ritrovai a Edicola Fiore, il programma che conduceva allora Fiorello dopo 5 ore di van da Milano a Roma…
E Sanremo? La rifaresti come esperienza?
È stata un’esperienza diversa che mi ha dato un’enorme soddisfazione: ero su quel palco con un pezzo scritto da me. La rifarei? Assolutamente sì. Tra l’altro, per una strana coincidenza del destino, quella canzone l’avevo scritta proprio a Sanremo un anno prima mentre ero lì in promozione durante la settimana del Festival. Mai avrei pensato di doverlo cantare su quel palco…
Suonavi quindi la chitarra elettrica ancora prima di avere dieci anni. Chi ti ha trasmesso l’amore per la musica?
Sono cresciuto in una famiglia che ha sempre amato la musica ma nessuno di noi quattro aveva mai suonato uno strumento. I miei avevano provato a far suonare il pianoforte a mio fratello da piccolo ma invano e di conseguenza, quando sono arrivato io, non provarono nemmeno a darmi uno strumento in mano. Ma, avendo a casa, tutti quei vinili dei Rolling Stones, Joe Cocker, John Lennon, Battisti, Dalla e via di seguito, che appartenevano a mio padre, patito di musica, ho sempre ascoltato musica non resistendo al suo richiamo: una mattina, mi sono svegliato e ho sognato di essere Jimmy Page! Ho chiesto così la prima chitarra, ho cominciato a suonarla e non mi sono più fermato.
Tra l’altro, anche uno dei primissimi e affettuosi ricordi che ho di me molto piccolo è legato alla musica. Mia zia e mio zio, quando capitavo da loro, mi facevano addormentare mettendo i dischi di Celentano o Battisti… ed io dormivo con le loro canzoni.
È bello che tu conservi così vividi i ricordi legati alla tua famiglia…
Ma io sono molto emotivo e sensibile. Ho la scorza dura ma ho un grande cuore. Noi con il chiodo di pelle alla fine siamo brave persone (ride, ndr).
Sei originario di Frosinone. Ma nella tua pronuncia, mentre parliamo, non noto nessuna inflessione.
Sono di Patrica, un paesino in provincia di Frosinone il cui centro storico conterà al massimo 600 persone. Sarà forse perché da quando avevo 12 anni ho cominciato a girare l’Italia in lungo e in largo suonando e partecipando a vari concorsi. Ho poi vissuto per un periodo a Milano e oggi sto a Bologna… sarà che ero come una spugna: prendevo quasi la cadenza dei posti in cui stavo per arrivare oggi a parlare italiano (ride, ndr).
Che sapore avrà l’album a cui hai lavorato e che presto uscirà?
Un album di canzoni pop: ci tengo a scrivere canzoni con melodie molto aperte, che possano comunicare a tutti ma con una veste decisamente rock, molto british. Ho avuto il piacere di produrlo con Ivan Antonio Rossi, grandissimo produttore della scena odierna milanese. L’abbiamo registrato tra gli studi Fonoprint a Bologna e quello di Ivan a Milano, con le chiamate ricorrenti ad Andrew Long Oldham che invece vive da anni in Sudamerica, in Colombia, in mezzo alla natura.