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“È stata la musica a salvarmi”: Intervista esclusiva a Gian Maria Accusani dei Sick Tamburo

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I Sick Tamburo hanno pubblicato il loro sesto disco di inediti, Non credere a nessuno: ne abbiamo parlato con Gian Maria Accusani con un’intervista che, partendo dalla musica, affronta argomenti come dolore, perdita, salute mentale, accettazione di sé e consapevolezza.

Non credere a nessuno (La Tempesta Dischi – Believe) è il sesto album di inediti dei Sick Tamburo, guidati da Gian Maria Accusani. Nati dall’esperienza dei Prozac+, i Sick Tamburo si sono imposti tra i principali riferimenti del panorama alternativo italiano, coniugando la sensibilità e la poetica della scrittura di Gian Maria Accusani con le sonorità incalzanti più tipiche dell’alternative rock.

Non credere a nessuno dei Sick Tamburo è un album molto maturo e consapevole, in cui confluiscono diverse esperienze di vita, alternando momenti spensierati e altri malinconici e più intimi. In altre parole, possiamo immaginarlo come un viaggio tra le tappe della vita. Abbandono, perdita, consapevolezza di sé, bisogno, aiuto, deviazioni e commiato diventano centrali nel racconto dei testi dei Sick Tamburo, firmati da Gian Maria Accusani e dal suo stile incisivo e mai banale.

Ed è partendo da Non credere a nessuno dei Sick Tamburo che con Gian Maria Accusani affrontiamo un’intervista esclusiva molto particolare, che dalle canzoni del disco confluisce nel presente del cantautore e nella sua esperienza di vita. Forse come mai prima d’ora, Gian Maria Accusani racconta del suo intimo, della sua attrazione per i perdenti, di come vive i momenti difficili e di come ha sperimentato sulla propria pelle il dolore della perdita della persona amata.

Non c’è mai commiserazione nelle parole di Gian Maria Accusani, così come non ce n’è nelle canzoni dei Sick Tamburo, impegnati a portare il disco live in giro per l’Italia con un calendario già fitto fino alla fine di agosto.

I Sick Tamburo.
I Sick Tamburo.

Intervista esclusiva a Gian Maria Accusani (Sick Tamburo)

“Sono ovviamente legato al passato e a quello che ho fatto però sono tutto meno che amante dell’amarcord”, sottolinea Gian Maria Accusani, frontman dei Sick Tamburo quando, in un revanchismo adolescenziale, gli ricordo come Betty Tossica (uno dei pezzi storici dei Prozac+, ndr) sia uno dei pezzi della mia vita. “Vivo oramai sul mio presente, un presente che oramai dura da diverso tempo: il passato è una roba bella e finita di cui cerco di parlare sempre meno possibile. Se viene fuori ogni tanto, non è un problema ma non mi piace vivere sugli allori, preferisco vivere su quello che faccio adesso e su ciò che da quello arriva. Non nascondo di essere anche orgoglioso del passato, sembra altrimenti che voglia fare il figo, ma preferisco il presente”.

E il presente oggi si chiama Non credo a nessuno, sesto album dei Sick Tamburo.

Non credo a nessuno fondamentalmente è una sorta di ammonimento che ormai ho introiettato dentro di me da tanto tempo. Diciamo che negli ultimi tempi si è spinto ancora più dentro: abbiamo tutti affrontato un paio d’anni abbastanza difficili che ci hanno dato il tempo di riflettere su molte cose. Non credo a nessuno è quindi una sorta di bandiera: credo che chiunque vada ascoltato anche con interesse (ed è quello che faccio) ma ho imparato che la verità è solo quella che posso sperimentare io di persona.

Posso riconoscere intellettualmente che ciò che mi viene detto può essere giusto ma comincio a crederci quando lo sento mio, dentro di me: è una specie di questione empirica. Da tanto tempo ormai mi viene spontaneo dire “ascoltate tutti ma non credete a nessuno”, “provare le vostre cose: se son giuste, è quella la direzione, altrimenti provate la direzione opposta”. In questo modo, ognuno di noi si fa la propria idea di come vada il mondo senza dover sposare quella degli altri.

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L’album viene presentato come una specie di viaggio nelle tappe della vita. Il disco si apre con Suono libero, che contiene un verso semplice ma dal profondo impatto: “libero di fare io cose normali”.

È il fulcro di quello che è stato il mio percorso. Sono sempre andato contro la normalità sin da quando sono un bambino, da quando avevo più o meno 13 anni. Ma arriva un punto in cui, dopo aver fatto un giro a 360°, ti rendi conto che puoi dire a te stesso di essere libero di fare anche cose normali ma sono sempre io a decidere quali siano le cose normali. Alcune volte coincidono con quella che è la normalità degli altri ma altre volte no.

Mi fai un esempio di cose normali e non?

I miei amici che non fanno parte del mondo musicale hanno studiato per imparare qualcosa, prendere una strada e fare un mestiere. Alzarsi alle 7 del mattino e andare a lavorare per me non è normalità, è la loro ma non la mia. Io ho scelto una strada molto diversa e anche la mia normalità lo è: sono percorsi totalmente divergenti che difficilmente si incrociano.

Da adulto, però ho scoperto che ci sono normalità che prima snobbavo ma che adesso mi interessano, tipo andare al mare a prendere il sole stando con i piedi dentro l’acqua. Quindi, sono anche libero di fare qualcosa che prima aborrivo in qualche modo solo perché per me era quasi un dovere l’essere diversi e lontani da una certa normalità.

Ed essere diversi ha avuto dei costi da pagare?

Beh, qualche volta sì ma sono stati di più i benefici, quindi non mi voglio lamentare.

E ne hai saputo godere?

Quasi sempre. Ho saputo godermeli, se devo essere sincero. Non ho mai scelto delle cose che poi mi sono sfuggite di mano o di cui poi non ho goduto. Quando ho scelto qualcosa è perché era talmente forte dentro di me che poi inevitabilmente me la son goduta.

I Sick Tamburo.
I Sick Tamburo.

“Il mio umore oggi è nero”, canti in Il colore si perde. Perché la scelta di questo colore?

L’umore nero nell’immaginario comune è quello di una persona che in quel momento non è proprio in forma. Ed è quello che è successo a me, come penso anche a chiunque: alternare fasi di estrema allegria e felicità con momenti di cupezza. Sono un uomo che è stato spesso volubile ma l’alternarsi di emozioni e sensazioni appartiene un po’ a tutti. Quella canzone parla propria della trasformazione che il tempo apporta a un colore, che inevitabilmente sbiadisce e si perde.

Come sei riuscito a superare i momenti in cui il colore è nero? La salute mentale è diventato uno dei grandi temi di discussione di questi tempi.

La salute mentale è una roba a cui avremmo dovuto pensare già tanti, tanti anni fa come società. Non ha niente a che fare con la follia, come vorrebbe il luogo comune (anche se, estremizzando, si potrebbe arrivare anche a quella). La salute mentale è qualcosa di cui bisogna prendersi cura come ci si prende cura di un raffreddore o di un’influenza perché è il primo passo per stare bene.

Parlo per esperienza personale e per quelle che ho visto accadere vicino a me. L’unico modo per affrontare i momenti neri è cominciare ad accettarli: l’accettazione è in qualche modo già la metà della risoluzione della questione. L’ho imparato, un po’ come ho imparato a non credere a nessuno: cominciare ad accettare di non stare bene è il primo passo da fare. Anche se l’umore nero e i momenti bui riescono ogni tanto a fregarti: capita anche che si goda di quegli attimi, rimanendo come in bilico tra due mondi diversi, tra il desiderio di uscirne fuori e la voglia del godimento del dolore. È una sorta di masochismo dell’anima molto più presente di quello che crediamo.

E qual è la soluzione? Non può essere semplicemente “andare a una festa senza mutande”, per parafrasare un verso di Facciamoci la festa, altro brano dell’album.

Qualche volta può però essere d’aiuto (ride, ndr).

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L’accettazione diventa fruttifera quando si trasforma in consapevolezza di sé. Quando hai capito nel tuo percorso chi eri e ne sei divenuto consapevole?

Secondo me, non si capisce mai del tutto chi si è. Diciamo però che gran parte del lavoro l’ho già fatta diversa anni fa quando mi sono trovato in difficoltà piuttosto pensanti, per non dire estreme, e ho dovuto cercare aiuto ma anche di aiutarmi da solo. Ho fatto allora un grande lavoro su me stesso e ho iniziato a capirmi ogni giorno un po’ di più. Ancora oggi scopro pian piano una piccola novità perché non si finisce mai, come appena detto, di scoprire chi si è. Ed è anche positivo, sarebbe altrimenti tutto noioso.

Hai citato la parola “aiuto”, che è anche uno dei temi di Non credere a nessuno. quanto è difficile chiedere aiuto?

È veramente difficile inizialmente. Quando prendi consapevolezza di un problema, la prima cosa da fare è chiedere aiuto: è il primo grande passo verso la risoluzione. Tenersi tutto dentro e negarsi la possibilità dell’aiuto vuol dire fregarsi da soli. E tanto.

E chi ti è stato d’aiuto?

Ho avuto tante persone vicine che mi sono state d’aiuto e che non mi metto, chiaramente, a elencare. Ma credo che, più di ogni cosa, sia stata la musica a salvarmi. Lo ha fatto tante ma tante volte, sin da quando adolescente mi ha tolto da un ambiente in cui, se vi fossi rimasto, non sarebbe andata a finire bene. Tuttora, quando ho dei momenti difficili, per me scrivere è come andare a fare dieci sedute di psicanalisi.

I momenti difficili sono una questione di scelta?

È sempre una questione di scelta, sia per i momenti difficili sia per quelli belli. Il problema è che bisognerebbe essere liberi di poterli decidere noi. E puoi farlo solo quando hai un certo tipo di consapevolezza.

In quei momenti, sono più utili i calci o le carezze?

Un po’ tutti e due. Però credo che, quando diventi consapevole, anche un calcio può trasformarsi facilmente in una carezza: apparentemente ti fa male ma in realtà ti indica la strada giusta.

I Sick Tamburo.
I Sick Tamburo.

Nel disco, c’è una canzone che si chiama La stanza che resta, in cui si parla di commiato, di vita e di morte.

La stanza che resta è fondamentalmente la vita, un posto in cui siamo tutti in qualche modo costretti a entrare perché qualcuno lo ha deciso per noi. È una stanza in cui inevitabilmente sei accolto, in cui accadono cose come quelle che racconta la canzone e da cui poi vai via lasciandola. La stanza che resta è proprio la vita, non la nostra ma un mondo che rimane al di là di noi.

E tu quale quadro pensi di lasciare appeso alle pareti di questa stanza?

È un’immagine legata alla consapevolezza dell’aver qualcosa da lasciare. Sono tante le cose che lascerei attaccate ma aspetto che arrivi il momento di andar via per attaccarle.

Diversi e perdenti, per citare Piove ancora. Ti sei mai sentito un perdente?

Tante volte. Ed è stata in qualche modo la mia fortuna: è stato l’input che mi ha spinto a prendere quelle strade che poi si sono rivelate giuste per me, una deviazione se vogliamo positiva. Sono sempre stato affascinato dai perdenti: mi attraggono i deboli, quelli che sono poco considerati dagli altri e lasciati ai margini della società. Visto che la società di oggi non perdona i perdenti, è di loro che io voglio parlare. Non perché mi sembra giusto o corretto farlo ma semplicemente perché difficilmente sono attratto da qualcuno che l’ha sempre vinta o a cui le cose vanno sempre bene. Mi rendo conto che star vicino a uno che è felice e gioioso può essere un aiuto però sono attratto dalle persone che sono più simili a me. E non è commiserazione, è proprio attrazione, direi quasi fisica.

Che rapporto hai con il presente, per ritornare all’inizio della nostra conversazione?

Il presente è l’unico tempo che in qualche modo, sembra un gioco di parole, mi rappresenta. Io sono quello che succede adesso, quello che è stato non esiste più. Sono rimasti i ricordi ma è finito: io non sono il mio passato.

Quindi, niente reunion o ritorni come spesso accade ultimamente?

Tendenzialmente non ne sono attratto ma le reunion e i ritorni non sarebbero passato: diventerebbero il presente di quel momento lì, sarebbero qualcosa che sta accadendo e non che è accaduta. Quando invece rivanghiamo il passato è come se non si fosse noi ma la nostra proiezione che, anziché guardare all’oggi, va indietro nel tempo. Ogni tanto ci sta farlo, è anche divertente, però è meglio star nel presente per la maggior parte del tempo che abbiamo a disposizione.

I Sick Tamburo hanno un calendario di live davanti a loro piuttosto impressionante.

Sono due fondamentalmente le ragioni per cui faccio musica. Scrivo canzoni che mi fanno stare bene e pubblico dischi per avere la possibilità di andare a suonare in giro con tutti i miei compagni. Credo sia un pensiero comune: fare un disco per poi tenerselo per sé e dirlo alla madre può essere buono quando hai 14 anni ma l’obiettivo finale è quello di andare in giro a suonare, che è la cosa più bella del mondo.

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Madre, una parola che viene fuori per la prima volta in questo nostro incontro…

Ho la fortuna di avere ancora la mia, anche se sta invecchiando. È stata forse lei la mia più grande spinta verso questo mondo. Sono cresciuto una famiglia di musicisti e mia mamma mi ha sempre sostenuto, quando invece ho visto amici in parte ostacolati dai genitori. Per questo le sarò grato per sempre, almeno finché avrò la possibilità di pensare… non so se si pensa quando si è morti.

Secondo alcune recenti ricerche, sì.

Quando un paio d’anni fa ho avuto una perdita piuttosto importante, ho fatto molte ricerche su cosa c’è dopo la morte. Sono state ricerche legate sia al mondo scientifico sia a quello spirituale. I risultati alla fine dicevano più o meno la stessa cosa, per cui credo che comunque dopo la morte qualcosa ci sia.

Anche perché, come diceva una nota scienziata, le cellule che sono la nostra essenza (usava il termine “cellule” per esser capita da tutti) non possono essere distrutte: c’è un annichilimento totale ma non muoiono e vanno nell’aria. Quindi, continuiamo in qualche modo a esistere: non c’è più il nostro corpo ma la nostra energia non può essere distrutta.

Non credo nel Paradiso, non penso sia quella la strada, ma credo che accada qualcosa dopo la morte e credo che quel qualcosa sia comunque la nostra continuazione.

Come si supera una perdita di quel tipo? Solo con le ricerche?

Sono ricerche che ho fatto prima della perdita perché sapevo che pian piano poteva succedere. Le ho fatte soprattutto per cercare un appiglio quando la perdita sarebbe arrivata. Come ho fatto? Ho accettato il dolore che era immenso… e che lo è tuttora, anche se fortunatamente a distanza di qualche anno ci sono momenti in cui c’è un respiro diverso: il dolore non è più costante e continuo ma intermittente. L’unica cosa che si può fare è accettarlo: in quel momento mi sembrava impossibile ma pian piano, lavorandoci, il tempo comincia ad aprire spazi di pseudo serenità che diventano sempre più grandi e che si spera continuino così.

Tu sei diventato padre a 18 anni, in un’età in cui eri ancora fondamentalmente figlio. Com’è stato?

È stata la cosa più bella che potesse accadermi. Ero un bambino con un bambino: io e mio figlio siamo cresciuti insieme giocando perché anch’io avevo ancora bisogno in qualche modo di giocare. Nonostante le grandi difficoltà logistiche, ho avuto la fortuna di avere un rapporto con lui talmente bello che lo definirei quasi folle. Quando è nato ho provato una sensazione così grande che sarei stupido a non ricordarmela o a non raccontarla così: ogni volta che lo faccio, sto bene.

I Sick Tamburo.
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