Venerdì 29 marzo, in prima serata su Rai 3 e su Raiplay, gli spettatori avranno l'opportunità di immergersi nel mondo affascinante della danza attraverso il docufilm Eleonora Abbagnato – Una stella che danza, diretto da Irish Braschi. Il film celebra la straordinaria carriera di Eleonora Abbagnato, una delle più grandi ballerine italiane, Etòile dell’Opéra de Paris e Direttrice del corpo di ballo e della scuola di danza del Teatro dell’Opera di Roma.
Offrendo uno sguardo intimo sulla vita e la carriera di Eleonora Abbagnato, il docufilm intreccia il racconto del presente con i ricordi del passato e i sogni per il futuro. Attraverso testimonianze di amici, parenti e colleghi, tra cui nomi illustri come Vasco Rossi, Claudio Baglioni, Ficarra e Picone, il pubblico avrà l'opportunità di conoscere da vicino la determinazione e la passione che hanno guidato Eleonora Abbagnato lungo il suo straordinario percorso artistico.
Eleonora Abbagnato incanta, inoltre, il pubblico con la sua ultima esibizione sul palco dell'Opéra de Paris durante la sua Soirée d’adieux, mentre i ricordi dei suoi trent'anni di carriera danzante si intrecciano in un'emozionante narrazione che oscilla tra l’ieri, l’oggi e il domani.
In questo viaggio attraverso la vita e la carriera di Eleonora Abbagnato, emergono anche temi universali, come il sogno e la determinazione, che hanno plasmato la sua identità artistica e la sua straordinaria crescita come ballerina e direttrice.
Prodotto da Matteo Levi e realizzato in collaborazione con Rai Documentari e il contributo del Ministero della Cultura, Eleonora Abbagnato – Una stella che danza offre uno sguardo senza filtri sulla vita di una delle figure più influenti della danza contemporanea. Con uno sguardo delicato e sensibile, il docufilm ci invita a scoprire il percorso di una donna straordinaria che ha dedicato la sua vita alla ricerca della perfezione artistica e al trasporto delle emozioni attraverso il linguaggio universale della danza.
Intervista esclusiva a Eleonora Abbagnato
In un mondo in cui il successo è spesso narrato in modo edulcorato, Eleonora Abbagnato ha scelto di dipingere la sua storia attraverso i sacrifici e i dolori. Il docufilm Eleonora Abbagnato – Una stella che danza traccia i primi passi della sua vita, partendo dalla sua amata Sicilia, dove ha lasciato i genitori e ha affrontato le sfide con l'aiuto di veri amici.
Fin da bambina, Eleonora Abbagnato ha affrontato le etichette ingiuste, come, quando arrivata a Parigi, si sentiva appellare come "la petite mafieuse", mentre perseguiva la sua passione per la danza. La sua determinazione, unita alla personalità forte, l'hanno portata avanti, nonostante la solitudine che ha dovuto affrontare.
Oggi, guardando al futuro, Eleonora Abbagnato osserva sua figlia Julia, che nel docufilm interpreta lei da bambina, seguire le sue orme, consapevole delle sfide che potrebbe incontrare lungo il cammino. Tuttavia, vede in Julia una combinazione di forza e sensibilità che le dà fiducia nel suo successo.
Il rigore e la disciplina sono stati pilastri fondamentali nella formazione di Eleonora Abbagnato come ballerina, una disciplina che ha abbracciato non solo nell'arte della danza, ma anche nella vita quotidiana. È per questo che accoglie con gioia il percorso di sua figlia nella danza, sapendo che queste lezioni saranno preziose anche al di fuori del palcoscenico. Ma a palarci di ciò lasciamo che sia lei, Eleonora Abbagnato.
In un mondo in cui si racconta solitamente in maniera stucchevole il successo e la riuscita, scegli di raccontare la tua storia attraverso i sacrifici e i dolori.
Il documentario ripercorre la prima parte della mia vita: forse un giorno racconterò anche la carriera, che rappresenta un altro tipo di percorso ancora, molto difficile. Ci tenevo a raccontare, rispetto alle nuove generazioni, il sacrificio che comporta il raggiungere un obiettivo.
La mia storia comincia dalla partenza dalla Sicilia, una terra a cui sono ancora molto legata, anche se, purtroppo, il tempo e il lavoro non mi permettono di viverla quanto vorrei. E inizia da lì per raccontare quanto pesante sia stato, prima di ogni cosa, lasciare i miei genitori, quanto fondamentale sia stato per me averli e quanto importante sia avere dei veri amici.
Da palermitano come te, non poteva non colpirmi un particolare passaggio della tua esperienza da bambina, perché ancora tale era, all’Opéra di Parigi: alcune mamme di altre piccole ballerine ti definivano “la petite mafieuse” anziché “la petite danseuse”.
Oggi questa definizione fa anche divertire, pur non volendo. All’epoca forse i francesi avevano qualcosa di irrisolto contro i siciliani mentre oggi noto che sono grandi appassionati della Sicilia: sono tantissimi quelli che ogni anno ci vanno in vacanza. Ricordo che erano soprattutto le mamme delle ballerine ad avere nei miei confronti una sorta di comportamento giudicante dettato dall’invidia: sicuramente non capivano perché una siciliana fosse arrivata dentro il tempio della danza, allora regno dei francesi.
Comunque, ci ridevo sopra: ogni tanto, scherzando, pensavo tra me e me “non è che papà è mafioso?”, anche perché quando sei così piccola non hai ancora nemmeno gli strumenti per analizzare quale stereotipo ci potesse essere dietro. Ma andavo avanti spedita come un treno.
Eri una bambina che si muoveva spinta dalla passione per la danza. Nel tuo caso, ti ha avvantaggiata il talento in quanto tecnica o la forte personalità?
La personalità sicuramente c’è e c’è sempre stata. Il talento, invece, va costruito ma deve comunque partire da qualcosa di speciale: è difficile crescere un allievo, lo vivo direttamente con la scuola di danza del Teatro dell’Opera, senza che ci sia una base. Marisa, la mia insegnante palermitana, è stata anche brava perché ha saputo lasciarmi volare da sola e non mi ha trattenuta. Anche perché, come dice anche nel documentario, non avrebbe saputo cosa darmi più di quello che mi aveva già dato.
Non avevi paura nel volo che sotto non ci fosse la rete di protezione?
No. Sono sempre stata molto determinata e ciò mi ha generato molta solitudine.
A cosa ti aggrappavi per rifuggire alla solitudine?
Alla sbarra, al teatro, alle lezioni, alle maestre, agli amici…
Tua figlia Julia sta seguendo le tue orme. Non hai paura che la solitudine possa attanagliare anche lei?
Sicuramente sì. Però Julia è anche molto diversa da me e più proiettata verso gli altri, è molto generosa. Ha un carattere forte ma anche molto sensibile: sono sicura che ce la farà anche lei a lottare e ad affermarsi.
Siamo abituati al cinema e in televisione a una rappresentazione della danza, soprattutto quella classica, molto severa e molto dura. E così è stata anche per te: racconti nel documentario un episodio in cui il coreografo Roland Petit ti tira i capelli prima di entrare in scena. Serve tanta severità per la disciplina?
Ma la disciplina va a braccetto con la severità. Se non ce l’hai, la si costruisce proprio perché la danza richiede molta disciplina di base. Già l’entrare in sala e non parlare è un esempio dell’educazione che ti dà. Ai ragazzi del Teatro dell’Opera di Roma insegniamo tanto il rigore e la cura di sé perché il mestiere del ballerino comporta avere tanta disciplina con se stessi, nell’alimentazione, nel relazionarsi agli altri e via dicendo. Ma sono regole che non servono solo per la danza ma anche per la vita in generale. È per questo che sono contenta che mia figlia Julia faccia il suo percorso: se diventerà poi una ballerina, non sarò di certo triste.
Non soffre un po’ il peso della figura della madre?
No. Perché, comunque, lei fa le sue cose e io le mie. E mi chiede anche pochi consigli, lo devo ammettere.
Che ti ha dato vederla recitare per il documentario nei tuoi panni?
Molta emozione. L’ho trovata molto simile a me e, quindi, naturale e sveglia: quando il regista le dava le indicazioni, era subito pronta a metterle in atto senza che ci fosse bisogno del mio aiuto o del mio intervento.
Nel documentario, sono tanti gli amici che hanno voluto in qualche modo omaggiarti, da Claudio Baglioni e Vasco Rossi a Ficarra e Picone. Quale degli interventi ti ha sorpresa maggiormente perché ti ha fatto scoprire qualcosa che non sapevi?
La verità? Nessuno. Sapevo già tutto quello che hanno raccontato perché rispecchiava quello che abbiamo vissuto. Con loro sono nate profonde amicizie che durano da tempo: seguiamo i nostri percorsi artistici, ci scriviamo per gli auguri e abbiamo condiviso attimi di grande affetto. Sono tutti artisti grandiosi che ammiro tantissimo.
Quand’è la prima volta che hai pensato di avercela fatta?
Senza dubbio, quando sono riuscita a ottenere un contratto con l’Opéra di Parigi da étoile: dopo dodici anni di attesa, ce l’avevo fatta.
Ed è all’Opera che hai tenuto giustamente la tua serata d’addio. Che ne ricordo ne hai?
È stato uno dei giorni più intensi che ho vissuto in teatro perché tutti mi aspettavano ed io ero proiettata per il dopo: avevo già intrapreso la mia carriera di direttrice del Teatro dell’Opera di Roma ed ero pronta a chiudere il camerino.
Pensi che l’Italia ti abbia dato tutto ciò che meritavi come artista?
Adesso sì. Perché, comunque, con il mio ruolo ho saputo contribuire anche a far crescere la danza in Italia: dopo otto anni alla direzione del Teatro dell’Opera, posso essere soddisfatta.