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Elisa Fuksas: “Il fallimento: il funerale al film che non ho mai fatto” – Intervista esclusiva

Con Marko Polo, Elisa Fuksas ci invita a esplorare il fallimento come atto liberatorio e spirituale, trasformando un naufragio creativo in una profonda riflessione sull'umanità, la fede e la fragilità dei sogni. Presentato alla Festa del Cinema di Roma, il film è un viaggio intimo tra autobiografia e autofiction, dove l'ironia e l'autoironia guidano la regista in un percorso di riscoperta, in bilico tra la realtà e il mistero del credere.

“Il fallimento è un atto liberatorio, quasi un atto di fede”: queste parole potrebbero riassumere l'anima di Marko Polo, il film di Elisa Fuksas presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, una riflessione intima e profonda sul significato di credere in qualcosa, ma soprattutto sulla complessità del fallimento come esperienza umana universale. Non è facile per una regista portare sul grande schermo la propria vulnerabilità, quella sensazione di perdersi nei propri sogni infranti, eppure Elisa Fuksas riesce a farlo con ironia e autoironia, offrendo uno sguardo sincero sulla sua vita e sul suo rapporto con la fede, l'arte e la realtà.

Elisa Fuksas, conosciuta per la sua capacità di fondere autobiografia e narrazione cinematografica, ha spesso esplorato i confini tra la sua vita e il suo lavoro. In Marko Polo, questo processo diventa ancora più intenso, tanto che il film stesso nasce dal fallimento di un altro progetto cinematografico mai realizzato e si trasforma in viaggio scenico ma anche reale. Su istigazione della Madonna, Elisa Fuksas decide di partire per una traversata in nave, che è tutto un fallimento, insieme a sua sorella Lavinia Fuksas, alla sua sceneggiatrice Elisa Casseri e a Flavio Furno, l’attore protagonista del film fallito, alla volta di Međugorje.

Ed è proprio dal naufragio artistico che la regista trae forza per indagare il mistero del credere, non solo in Dio ma anche in se stessi e negli altri. Il suo percorso, segnato da un avvicinamento al cattolicesimo in età adulta, non è una storia lineare di riscatto, bensì un pellegrinaggio interiore e reale, che la porta a interrogarsi su ciò che significa continuare a credere, nonostante tutto.

"Come si fa a restare?", si chiede Elisa Fuksas nel film. Non è una domanda semplice, ma è quella che attraversa ogni aspetto del suo racconto: il fallimento diventa uno spazio fertile in cui ricostruire la propria identità. Con una messa in scena che oscilla tra il documentario e la finzione, Marko Polo diventa un esperimento unico nel suo genere, dove i confini tra la realtà e il sogno si confondono, proprio come le incertezze della fede. La regista, quasi come un alter ego di se stessa, si lascia guidare da una figura sacra e immaginaria, la Madonna, che la sprona a non arrendersi, a continuare, nonostante i dubbi che la opprimono.

È un film sulla ricerca del senso in un mondo che sembra sempre più vuoto di significati. Elisa Fuksas, attraverso la sua ironia e i suoi dubbi, ci invita a riflettere su ciò che conta davvero: l'umanità, le relazioni e quella fede che, pur non offrendo risposte definitive, ci spinge a rimanere.

Elisa Fuksas.
Elisa Fuksas.

Intervista esclusiva a Elisa Fuksas

“Sono molto ironica: per il resto sono piena di dubbi ma sull’ironia sono abbastanza tranquilla”, risponde con il sorriso Elisa Fuksas quando ci accingiamo a parlare del suo ultimo film, Marko Polo, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e prossimamente in sala grazie a Fandango. Ed è da questo che inevitabilmente dobbiamo partire per il nostro incontro, dal momento che non è facilmente catalogabile in un genere cinematografico specifico: non si tratta di fiction ma non è nemmeno documentario. E, se non fosse ironica, non avrebbe affidato a Iaia Forte il ruolo della Madonna, penso prima di cominciare la nostra conversazione.

Come definiresti Marko Polo? In che genere cinematografico rientra?

È sui generis, degenere. Lo definirei prima di tutto un esperimento di autofiction al cinema. Parlo di me ma è una me diversa da quella che sono io perché scrivere come prima cosa ti protegge e ti mette al riparo, creando una sorta di distanza, un’alterità tra te e la persona raccontata: c’è la mia immagine ma non sono la persona o il personaggio che vedi. La versione di me in scena mi serve solo per far funzionare il resto o, almeno, per provare a farlo funzionare.

Ho anche provato a rimanere il più nascosto possibile nel film, a essere colei a cui viene sempre detto qualcosa e la scena con la mia famiglia ne è la prova concreta: parlo pochissimo. Questo perché volevo costruire il mio personaggio sull’ascolto e non sulla parola.

Contrariamente a quanto fatto con iSola, il film che avevi girato con uno smartphone in piena pandemia. iSola e Marko Polo sono due film che comunicano tra di loro in maniera speculare: nel primo, c’era Elisa al 100%; il secondo invece sembra prenderne le distanze. Sono quelle che vediamo le due tue facce prima e dopo l’avvicinamento al cattolicesimo?

In realtà, io vorrei annullarmi in quello che faccio e non essere così in primo piano. Lo so che sembra una cazzata perché comunque filmarsi è qualcosa di egocentrico, non mi metterei mai altrimenti al centro di storie così profondamente personali. Però, ho capito che più entro e vado a fondo nelle cose, più in esse mi annullo e cerco di tenermi a distanza.

Nel caso di Marko Polo, tuttavia, ho cercato di raccontare una storia personale che non fosse solo mia: ho voluto mettere al centro la persona intesa come umanità e non come singola personalità. Quando ho scritto il libro da cui avrei dovuto trarre quello che doveva essere il mio film poi fallito miseramente e di cui Marko Polo ne è la prova nonché il funerale, Ama quello che vuoi, mi arrivavano numerose lettere, regali e messaggi, di persone che - con vicende profondamente diverse dalla mia o che non avevano niente a che fare con me – riuscivano a immedesimarsi nella storia. Mi pareva un miracolo quasi.

Possibile che la storia così peculiare di una donna adulta che decide di battezzarsi da vecchia risuoni così tanto in chi con lei non ha alcun punto in comune? Era questa la domanda che mi ponevo ma eppure è successo: è come se nelle nostre vite ci fossero dei pattern che ci rendono molto più simili di quello che crediamo e che coinvolgono ciò che veramente conta, le grandi questioni come la Vita, la Morte, l’Amore, l’Amicizia, la Fede (non solo in Dio ma anche nel mondo e nell’altro)… tutti grandi temi che esulano dal singolo e che sono universali.

La gente si rispecchiava in te e nella tua storia di avvicinamento alla religione. Ma in chi si rispecchiava Elisa quando cercava se stessa?

Sono sempre in fuga e non mi trovo mai: è come se ci fossero dei lampi che mi permettono di riconoscermi in qualcuno o che mi danno l’illusione di aver trovato qualcosa per poi tornare alla ricerca. Il tentativo che ho fatto con la religione è stato quello di vedere chiunque altro come uno specchio per me stessa mostrando disponibilità all’ascolto. Mi aveva colpito molto tanti anni fa ciò che mi aveva detto un prete: l’unico atteggiamento possibile per l’uomo davanti al mistero è l’ascolto… lì per lì non avevo capito ma con il passare del tempo mi è stato più chiaro: “smetti di parlare e inizia ad aspettare che ti parlino” ed è solo allora che può prendere avvio quel processo di riconoscimento e rispecchiamento, altrimenti sei sempre prevaricante sulla realtà, ingombrante ed invadente.

Ci ho tentato ma poi è fallito. E ovviamente si fallisce miseramente in continuazione perché siamo pieni di limiti, difetti, errori e dolori, o perché molto più semplicemente non riusciamo a stare in silenzio. È complicato non parlare, non dire ciò che ci sembra irrinunciabile.

Il teaser poster del film Marko Polo.
Il teaser poster del film Marko Polo.

Marko Polo è un film sul fallimento, una parola che nel 2024 continua a far paura nonostante tutti quanti ci si batta per allontanare l’immagine del vincente a tutti i costi. Qual è stato l’ostacolo principale che hai incontrato nel voler raccontare il fallimento?

Non ho trovato ostacoli nel raccontare il fallimento ma li ho trovati quando volevo realizzare il film che non si è fatto. Paradossalmente, però, credo oggi che sia questo il film che dovevo fare perché risponde a ciò che realmente mi interessa: l’adattamento di quel romanzo evidentemente non aveva e non ha più tanto senso, forse dovrà pensarci qualcun altro… il come si diventa cristiani è qualcosa per me di già superato, mi interessava semmai capire come si può continuare a credere in qualcosa, sia essa una storia d’amore, il lavoro che ci scegliamo, la fede in Dio, un partito politico o quello che ci pare. Come si fa a rimanere e a non andare via da qualche cosa che ci piace? È una domanda legittima: a volte tendiamo a fuggire da quello che amiamo.

Quando ho realizzato che mi interessava raccontare ciò, ho capito che avevo fallito l’altro film… ma l’ho capito perché era il mondo che mi diceva che l’avevo fallito: molto banalmente non trovavamo i soldi per realizzarlo. Dentro però sentivo che dovevo andare avanti con la mia nuova idea, trovando l’appoggio dei produttori (Indiana, ndr), che folli e sentimentali quanto me hanno deciso di finanziarlo senza l’aiuto di terzi. Marko Polo è un film piccolo ma anche qualcuno che mi regala venti euro mi pare un miracolo: evidentemente la sua storia parlava a tutti, ne era chiara la lingua.

Certo, non sapevo inizialmente che forma avrebbe avuto o a quale genere sarebbe appartenuto. E ho detto in quel caso un po’ di bugie spacciandolo per documentario: “vado in nave, faccio interviste ai pellegrini, uso il girato accumulato negli anni”… ma la realtà è stata poi ben diversa: ci siamo ritrovati a bordo di una nave deserta e abbiamo riscritto il tutto in dieci giorni, dopo quattro anni di decine di stesure di ogni genere, dalla commedia al dramma.

È così che si è trasformato nel funerale del film che non s’è fatto. Credo profondamente nella liturgia, è l’unico modo che abbiamo per avere risposte da qualcosa che in realtà non parla. L’aspetto interessante della religioni è che tu chiedi qualcosa per cui apparentemente non avrai mai risposta, in quello che sembra essere un monologo. Detesto chiedere e parlare da sola ma ho con il tempo capito che quel chiedere non è un monologo ma un dialogo: il mistero ti risponde con la liturgia, con quella Parola che rende vivente quel Dio in cui credi, che si è rivelata allo stesso modo con chi ti ha preceduto e che così continuerà a fare per sempre con chi ti seguirà.

Ed è potente perché spersonalizza la questione. Se il prete a messa dice idiozie perché l’omelia è una questione di uomini, il Vangelo o il Cantico dei Cantici no. Ma ciò non significa che io smetta di credere in quello in cui ho sempre creduto: come diceva un mio amico cardinale, non si può cambiare ma si possono solo aggiungere livelli in più alla propria visione del mondo. Non smetterò mai di credere in certe libertà per me fondamentali come l’aborto, il matrimonio egualitario o i diritti delle persone LGBTQIA+.

Elisa Fuksas.
Elisa Fuksas.

Hai utilizzato due volte l’espressione ‘funerale del film precedente’. Non mi trovi d’accordo: non sarebbe meglio parlare di ‘resurrezione’ visto che prende nuova vita?

Mi piace come definizione e te la rubo (ride, ndr). Lo definisco come ‘funerale’ perché per me era un atto conclusivo, il momento finale dopo anni di tentativo e di casino. Ecco, uno dei miei tratti più distintivi è il caos: sono molto caotica.  Quando scrivo libro sono molto più organizzata ma con la realizzazione dei film ho uno strano rapporto: li tratto come se fossero libri pensando di modificarli, editarli, correggerli o rivoluzionarli fino al momento della loro uscita. L’atteggiamento mentale da tenere con il girato dovrebbe essere invece tutt’altro…

Marko Polo doveva essere dunque la liturgia finale dei capitoli di tutto un momento della mia esistenza. Però, nel caos, non avevo previsto che poteva esserci un germe di vita… se lo noti, lo accolgo e decido che non è un funerale ma un nuovo battesimo di una vecchia vita, che risorge e si affaccia non si sa bene su quale strada.

Da quel film non fatto ti sei portata dietro il protagonista, Flavio Furno. Lo fai però recitare per tutto il tempo con una grande maschera. Perché?

Volevo togliere a tutti i protagonisti della storia un qualcosa: a lui ho tolto il volto, che per un attore non è poco. Flavio è comunque bravissimo: anche con la maschera addosso riesce a emozionarti, a risultare simpatico ma anche a rivelarsi dolente… è straziante per il suo personaggio, Fulvio (un nome che Flavio detesta ma che gli abbiamo dato appositamente!), vedersi tolta quella parte da protagonista che aspettava da tanto. In definitiva, era mia intenzione che fosse una figura quasi arcaica e ironica, da commedia greca o da tradizione africana: la maschera riporta a un mondo altro dal nostro.

Nel gruppo di umani che ci segue a bordo della nave cha dovrebbe portarti a Medjugorje c’è anche tua sorella Lavinia.

Mia sorella che fa se stessa… anzi, la super se stessa perché è volutamente eccessiva rispetto a chi è nella vita di tutti i giorni. Non è che abbia fatto troppa fatica a calarsi nel personaggio (ride, ndr) ma volevo che ci fosse perché riporta a una dimensione anche più calda. Il mio legame con lei serve a sottolineare che nella vita fortunatamente non c’è solo il lavoro a ossessionarci nella vita ma c’è anche qualcos’altro che conta, come le relazioni primarie che intessiamo con amici, amori e familiari, che valgono a prescindere da tutto ciò che poi va male.

Ho come avuto l’impressione che ognuno dei personaggi – tu, Fulvio/Flavio, tua sorella e la sceneggiatrice Elisa Casseri – dovesse liberarsi in qualche modo da un ossessione o da una dipendenza: il film precedente, il volto, il fumo o la parola. Non è che siamo di fronte a un film sulle dipendenze intese come qualcosa che diventano motore di vita?

Non ci ho mai pensato… ma è una domanda troppo difficile per me oggi: sono troppo ossessionata dal prodotto per poter rispondere con un’intelligenza degna della domanda.

Marko Polo: Le foto del film

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A proposito di ossessioni, ti sei liberata di quella della “figlia di”, per citare il tuo primo libro del 2014?

Non è mai stata una mia ossessione: erano gli altri ad averla nei miei confronti. Non mi sono mai posta il problema ma se lo ponevano gli altri. A un certo punto, facendomi vecchia pure io, ho smesso di chiedermi perché questo paese non riesca a distinguere i figli dai padri… è un grosso problema, soprattutto quando si è di fronte a chi come me non ha mai fatto nulla per essere confusa o assimilata al genitore: ho fatto sempre scelte molto diverse e ho sposato anche un modo di stare al mondo profondamente differente.

Non ho mai avuto nessun problema con la mia famiglia, a cui sono molto riconoscente. Ma in Italia il problema è che erediti i nemici dei tuoi genitori ma ne perdi gli amici.

È tornata di nuovi fuori la parola “vecchia”. Hai paura del tempo che passa?

Sono terrorizzata dal tempo che passa… il tempo è l’unica variabile contro cui non puoi mai vincere o avere la meglio.

Ma perché temi la morte?

Non la mia ma quella degli altri, del contesto e di ciò che mi circonda. Non è mai stata una ruga o il guardarmi allo specchio a farmi paura, più cresci e più il cervello si adatta per non farti vedere più nulla trovando dei modi per non farti diventare matto… Di contro, però, ho capito che senza la morte non avremmo un sacco di cose, dalla filosofia alla poesia, dalla scienza all’arte, che ci spingono altrove, verso un mondo migliore.

Dopo Marko Polo, hai riallacciato i tuoi rapporti con Dio in maniera serena?

Non ho mai litigato con nessuno: non è mai stata una lotta o una guerra con qualcuno… serenità però è una parola che per me non esiste: nella serenità non sto bene, questa è la verità. E quindi è complicato.

Hai mai avuto la sensazione che le tue preghiere siano state ascoltate?

Non necessariamente. A volte basta dirle le cose per avere degli effetti: credo profondamente nella parola e nel suo potere… si può cambiare il mondo parlando.

Due film di finzione alle spalle, Nina e The App, tra loro molto diversi. Che film sarebbe eventualmente il terzo?

Dopo The App, più di Netflix che mio, ho capito più quello che non volevo fare: occorre sempre trovare una voce propria, altrimenti è inutile dire qualcosa, è tempo perso farlo. Non so come sarà il terzo film di finzione ma so che per propensione deraglierò sempre da ciò che sarà scritto sulla carta. Marko Polo è comunque ciò che al momento si avvicina più alla mia idea di cinema: il tentativo è di far sì che ciò che c’è dentro al fotogramma sia più interessante di quello che c’è fuori. È quando accade il contrario che fallisci.

È Marko Polo la tua pacca sulle spalle?

No. Non si sono mai detta “brava”… sono semmai pronta a dirmi “lascia perdere, vattene, scappa”. Ma Marko Polo è venuto al mondo da solo, si è preso il suo spazio e io gliel’ho lasciato. È quasi un miracolo che esista: ho girato dieci giorni in quattro anni…

Elisa Fuksas (Foto: Gianmarco Chieregato; Press: Zebaki).
Elisa Fuksas (Foto: Gianmarco Chieregato; Press: Zebaki).
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