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Elisabetta Pellini: “Una donna che corre con i lupi ma con la sindrome del brutto anatroccolo” – Intervista esclusiva

Elisabetta Pellini è al cinema tra i protagonisti del film Dark Matter. L’abbiamo raggiunta per un’intervista esclusiva in cui parla di sé, del suo lavoro, del suo essere donna e del suo impegno in prima linea contro ogni tipo di violenza, fisica o psicologica.

Tentare di riassumere in poche righe chi è Elisabetta Pellini non è semplice. In poche parole, potremmo essere banali e dire che Elisabetta Pellini è un’attrice di cinema e televisione con all’attivo decine e decine di titoli. Così come potremmo sostenere che Elisabetta Pellini è una modella il cui volto ha segnato pubblicità di ogni tipo.

Risulteremmo però abbastanza riduttivi. Perché Elisabetta Pellini è prima di tutto una donna che contiene in sé infinite moltitudini. È una donna, ad esempio, consapevole di quanto il rispetto per se stessi sia fondamentale per evitare di cadere nella trappola della violenza, psicologica o fisica che sia. È un’amica che sa attribuire il giusto valore ai rapporti interpersonali, che oggi anche a causa della frenesia in cui viviamo tendono a essere improntati più all’io che al tu. Ed è ancora una figlia che ha un fortissimo legame con la madre (“pur vivendo in città diverse ma non passa giorno in cui non la sento, ha una forza impressionante”) ed è rimasta segnata dalla scomparsa improvvisa del padre.

Ma non avremmo ancora il ritratto completo di Elisabetta Pellini. Occorrerebbe aggiungere che è una donna che, come ognuno di noi, ha le sue fragilità (la “sindrome del brutto anatroccolo”, per esempio) e le sue passioni. Recitare, certo, ma anche dipingere (“sono cresciuta tra opere bellissime”, realizzate dai cugini Eugenio, fondatore della Scapigliatura, ed Eros Pellini), viaggiare e scrutare le stelle (“amo l’astrologia, non quella degli oroscopi… sto pensando di comprare una stella e dedicarla a mio padre”).

Tutto questo lo abbiamo scoperto intervistando Elisabetta Pellini in esclusiva. L’occasione ce l’ha fornita l’uscita in sala per Superotto Film Production del film Dark Matter, diretto da Stefano Odoardi in uscita al cinema il 4 maggio. Nel film (che vanta nel cast Alessandro Demcenko, Angélique Cavallari, Daniela Poggi, Orso Maria Guerrini ed Eleonora Giovanardi), interpreta Flavia, una giornalista coinvolta con le ricerche legate alla scomparsa di un bambino undicenne.

La trama di Dark Matter prende spunto da un dato agghiacciante legato alla scomparsa dei minori. Ogni giorno in Italia scompaiono infatti 47 minorenni. Nel 2022 le denunce di persone svanite nel nulla, sotto i 18 anni, sono state 17.130. È un dato che emerge dalla relazione sull’attività del Commissario Straordinario di Governo per le persone scomparse e a cui Elisabetta Pellini, da sempre attenta all’attivismo e all’impegno sociale, non poteva non prestare attenzione.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.

Intervista esclusiva ad Elisabetta Pellini

Chi è Flavia, il personaggio che interpreti nel film Dark Matter?

Flavia è una giornalista che va a intervistare il protagonista Antonio per cercare di capire cos’è la materia oscura di cui si occupa. Di fronte ai termini altamente scientifici che lui usa, Flavia gli chiede di usare parole più semplici affinché la gente possa capirlo: è un’usanza abbastanza televisiva quella di arrivare un po’ a tutti, sia alle persone che sono acculturate sia a quelle che non lo sono. La regola, non scritta, è quella di essere il più semplice possibile: l’ha adottata anche il linguaggio politico italiano, ad esempio, cambiato molto nel corso degli ultimi anni.

Molto precisa e attenta, Flavia ama moltissimo il suo lavoro ma allo stesso tempo ha sempre mille cose da fare. Ed è a lei che Antonio si rivolge quando scompare suo figlio Thomas. Le dà appuntamento in un bar, dove Flavia tira fuori la sua agendina per prendere appunti: questo è un aspetto che mi piace molto del personaggio perché anch’io scrivo ancora a mano sull’agenda.

E da quel momento, superata anche una certa antipatia iniziale, Flavia si trasforma in un piccolo investigatore. E consiglia ad Antonio di far intervenire nel caso i mass media, qualcosa che può essere però dall’altro lato molto rischioso perché è difficile prevenire la reazione dei rapitori.

Nella scena del bar da te citata, Flavia mostra tutta la sua autodeterminazione e indipendenza. E lo fa attraverso una semplice battuta: “Aspetti, pago io il mio caffè”.

Mi ritrovo molto nel suo atteggiamento, nella sua borsa piena di mille cose, nella sua agenda e nel suo desiderio di indipendenza.

Mi incuriosisce la tua agenda. Cosa appunti ancora a mano?

Ho tutto nella mia agenda: senza, sarei persa. Ho un’agenda di Mafalda che uso sin da quando sono piccola: è sempre più introvabile ma è bella perché Mafalda è uno dei personaggi dei fumetti, anche molto ironico, che più adoro.

Appunto nell’agenda tutto quello che devo fare, dalle interviste ai casting, dall’appuntamento con la mia migliore amica al massaggio dall’estetista. Non riesco a farlo sullo smartphone o sull’IPad perché lo trovo asettico: mi fido di più dell’agenda. Così come non riesco a leggere i libri in formato digitale: mi piace sfogliarli, sottolinearli… mi piace il cartaceo, poterlo avere in mano.

Annoti anche delle riflessioni?

Sull’agenda scrivo anche com’è andata la mia giornata. Credo anche nella legge dell’attrazione per cui, nei momenti più particolari, mi piace far l’elenco delle dieci cose che vorrei nella vita: più le scrivi, più le realizzi anche psicologicamente dentro di te e ti adoperi in qualche modo affinché si concretizzino. Ma scrivo anche gli aspetti che non mi piacciono della mia vita o ciò che mi capita in una giornata storta: ce ne sono di terribili che iniziano male e finiscono pure peggio. In più, di una giornata cerco sempre di cogliere qualcosa di bello che è successo e qualcosa trovo sempre: un tramonto, un film, la telefonata di un’amica, una frase sentita…

Facendo così, l’agenda si trasforma in una sorta di diario personale.

E lo è a tutti gli effetti. Negli anni, ne ho collezionate diverse e le conservo ancora tutte. Sono diventate i libri della mia vita: è anche bello rileggerle e ricordarsi che quel giorno è successa quella determinata cosa. Se incontro qualcuno che mi piace, rompo con un fidanzato o litigo con la mia migliore amica, sull’agenda scrivo anche le motivazioni e farlo ha anche una forte valenza psicologica. Qualche anno fa, sono andata da uno psicologo comportamentale che mi ha spiegato come scrivere ciò che mi disturba sia un modo per farlo mio e di sfogare anche le tensioni. Per me, scrivere è terapeutico così come lo è dipingere.

Rileggere le agende non è anche un modo per confrontarsi con se stessi, specchiarsi e notare quanto si evolve o si rimane uguali nel tempo?

Assolutamente sì. Ma anche di prendere consapevolezza dei propri limiti e dei propri pregi. Non annoto solo le cose negative ma anche quelle positive, come può essere un apprezzamento fatto da un’amica o da un amico. Spesso ci rimangono impresse solo le brutte cose e si tende a dimenticare, anche per pudore, quelle belle: scriverle aiuta a ricordarle, soprattutto quando interviene qualche litigio o discussione e rimangono impresse le brutte frasi che si dicono.

In qualche modo, diventa più facile poi fare pace o fare un piccolo esame di coscienza non se stessi: non si ha sempre ragione e spesso il torto, quando si litiga, non sta mai solo da una parte. Mi piace riflettere sui miei sbagli e cercare di capirli ma per farlo bisogna averne consapevolezza: gli appunti mi aiutano a trovarla.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.

Ti metti in discussione come donna?

Si, forse troppo. Troppo perché credo che uno pensasse di meno sarebbe molto più felice e avrebbe meno problemi. A volte una buona dose di egoismo non guasterebbe: le persone che pensano meno sono più felici di quelle che pensano troppo.

Cosa ti rende meno felice?

Sono vagamente malinconica come persona. Mi piace la malinconia: ti fa crescere e ti fa ricordare le cose belle. Se uno avesse meno memoria, a volte sarebbe anche meglio. La perdita di mio padre nel 1999, morto improvvisamente di infarto, e il fatto di non avergli potuto dire quanto lo amassi è un trauma che ancora mi porto dietro con la paura dell’abbandono: ogni volta che saluto qualcuno (un’amica, un fidanzato o mia madre), ho sempre terrore che sia l’ultima. È il motivo per cui ad esempio scatto tante fotografie, anche dei posti che visito e in cui vorrei poi ritornare per ritrovarli esattamente così come li ho lasciati.

È da tuo padre Oreste che, anche inconsapevolmente, hai ereditato la passione per il cinema. Ha infatti collaborato con Guido Guerrasio e i fratelli Castiglioni alla regia di due documentari cult, Africa segreta e Africa ama.

In Camerun, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta… è partito con i fratelli Castiglioni, due gemelli, per l’Africa ed è ritornato con moltissime riprese effettuate. Mio padre aveva la passione per la cinepresa e i video. Avevano girato dei materiali talmente forti che, una volta montati, Grimaldi ha deciso di mandarli al cinema come film: mi raccontano che, non ero ancora nata, fuori dai cinema c’era gente che stava male dopo averli visti.

In Africa ama, ci sono ad esempio le riprese dell’infibulazione, una pratica che purtroppo ancora persiste anche nel 2023 e che si pratica o per emulazione o per tradizione culturale. Io stessa, quando ho avuto modo di lavorare in Kenya per le riprese di un film tv, ho potuto constatare facendo volontariato quante donne ricorrano all’infibulazione per “scelta” perché convinte che sia qualcosa di giusto da fare.

La scelta però è pur sempre relativa. È, secondo me, figlia della pressione psicologica con cui si cresce: l’ha fatta la nonna, l’ha fatta la madre, lo vuole il papà e lo desidera il futuro marito altrimenti non ti sposa. È indotta, quindi, e non volontaria. Molte donne non sanno forse nemmeno quello a cui vanno veramente incontro e, come sempre, la differenza la fa il sapere.

Che rapporti avevi con tuo padre?

Un rapporto molto speciale. Da piccolina, nei miei diari mi lamentavo della sua assenza perché troppo concentrato sul suo lavoro. Ripensandoci, oggi, so che c’era: mi ha montato per esempio la casa delle Barbie ma non potevo pretendere che ci giocasse con me! Per attirare la sua attenzione, cercavo di comportarmi da maschiaccio…

Crescendo, ho voluto appositamente andare a studiare in un collegio interno esclusivamente femminile. L’ho chiesto io anche per spirito di emulazione nei confronti di mio fratello maggiore, che a sua volta stava in un collegio maschile. Ed è stato in quel momento che con mio padre si è creato un rapporto bellissimo. Ero e sono negata per la matematica mentre lui era bravissimo: ricordo le nottate in cui fino alle quattro del mattino cercava di spiegarmi cosa fosse la logica.

Come me, era amante dei viaggi ma anche del teatro. È stato lui a portarmi a teatro per la prima volta Giorgio Gaber o Mariangela Melato. Eppure, da piccola mi lamentavo che non ci fosse abbastanza per me ma i bambini hanno sempre bisogno crescendo di trovare dei contrasti con i genitori. Una volta, piangendo, gli ho anche detto che non mi voleva bene e che non mi considerava a sufficienza perché dopo cena guardava la televisione… e, invece, la guardava abbracciato a me mentre cercava di scrocchiarmi le dita, una cosa che non sopportavo.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.

Cosa ti ha portata dal voler studiare in collegio a iscriverti a un’agenzia di modelle?

È accaduto tutto in maniera molto strana. Abitavo a Varese mentre mia cugina Benedetta, mia coetanea quasi una sorella per me, viveva a Milano. Per il suo diciottesimo compleanno, aveva organizzato una festa a cui andai. Era presente il classico fotografo di turno, un professionista che lavorava per un’agenzia di modelle per la pubblicità: fu lui a chiedermi se fossi interessata a far quel lavoro.

Avevo già alle spalle sette anni di danza classica e la passione per il teatro, il palco e il cinema. Se vogliamo, era anche una passione indotta: abitando in un paesino del varesotto, vedevo tantissimi film anche perché fuori pioveva quasi sempre! E avevo, quindi, maturato la passione per il lavoro di attrice, nonostante tutti intorno mi dicessero che era terribile e che non ce l’avrei mai fatta.

Trovando coraggio nelle parole del fotografo, con mia madre che mi accompagnò, presi contatto con l’agenzia. E mi ritrovai a fare il mio primo provino per una crema proprio con mia madre! Per la pubblicità, cercavano una coppia di madre e figlia e io obbligai quasi la mia a sottoporsi al casting… Mia madre è una donna bellissima ma molto timida, ragione per cui fece un pessimo provino mentre io venni scelta. Poi, però, non feci la pubblicità: dovevo studiare, a detta dei miei.

Due anni dopo, mentre guardavamo la tv, una mia amica per scherzo mi disse “perché non ti iscrivi a Miss Buona Domenica”? In quel periodo, avevo anche la sindrome del brutto anatroccolo e volevo recitare però, quasi per sfida, colsi l’occasione. Finì che mi chiamarono, vinsi il concorso e mi ritrovai a Bellissima, entrando quasi in automatico nell’agenzia di Riccardo Gay. Arrivai seconda ma mi si aprirono le porte delle televisione: venni chiamata per La sai l’ultima?, Mai dire gol e altro ancora. Ma non smisi di studiare: contemporaneamente frequentavo la facoltà di Giurisprudenza alla Cattolica.

Ma la vita sa sempre come rivoluzionarti i piani. Ricevetti una chiamata da Roma: Corrado Mantoni, un maestro e genio della televisione, voleva vedermi per l’edizione mattutina di Tira e molla. Cercava una ragazza della porta accanto da affiancare a Giampiero Ingrassia. Mi sottoposi al provino ma in cuor mio speravo che non mi prendessero: non volevo trasferirmi. Arrivai in jeans, camicia bianca, scarpe da tennis e pochissimo trucco, in mezzo a molte altre ragazze in tacco, minigonna e scollatura in evidenza. E mi presero: ero inizialmente disperata… non volevo stare a Roma, non conoscevo nessuno, non avevo amici e avevo un fidanzato a Milano, dove avevo anche da poco preso casa.

E cambiò radicalmente la mia esistenza. Mi notò Vanzina e mi chiamò per un film ma lavorai anche con Gigi Proietti, che mi ha spinta a studiare recitazione: “Vuoi fare la milanese a vita?”, mi disse, “se vuoi far l’attrice, devi studiare”. La sua scuola in quel periodo era chiusa ma mi indirizzò verso Annabella Cerliani. Iniziai con lei un percorso di recitazione, indipendente ma molto utile: fu meglio che andare dallo psicologo. Ed è mentre studiavo che ebbi anche il mio grande incontro con Mariangela Melato, di cui Annabella era la migliore amica. Ricordo ancora quando andavo d’estate a portare i miei monologhi e mi ritrovano tutte e due sedute davanti a me che mi massacravano: “Rifai la scena con un’altra intenzione!”.

Un insegnamento utile quando poi ti hanno chiamata per Incantesimo 5, dove interpretavi due gemelle agli antipodi. Non si rischia di impazzire e non capire più chi si è?

E infatti finita quell’esperienza partii per il Messico. Avevo bisogno di una lunga pausa per recuperare. Era appena morto mio padre e necessitavo di fare un viaggio di un certo tipo: è stata forse anche una scelta egoistica perché mia mamma aveva anche forse bisogno di me… per stare via, rifiutai anche un ruolo importante per la serie tv Orgoglio: fu un errore gravissimo ma feci uno di quei viaggi che ricorderò per sempre.

Girai in autobus tutto il Chiapas, incontrai un’altra cultura e conobbi molte persone: fu in quell’occasione che conobbi la diversa concezione che si può avere della morte, intesa come rinascita. C’è un bellissimo libro, uno di quelli che ti cambiano la vita, che ben spiega cosa intendono i messicani. Ne ho tre copie in casa per paura di doverlo prestare e di non vederlo tornare indietro: si chiama Donne che corrono coi lupi. Tramite le favole, spiega tra le altre cose anche cos’è la Sacra Muerte e per me è diventata una specie di Bibbia.

E tu ti senti una donna che corre con i lupi?

Sono un po’ una donna che corre con i lupi. Sono una donna assolutamente indipendente, a cui piacciono anche il rischio e le sfide. Ho appena finito ad esempio di girare tre film molto diversi da loro: Il monaco che vinse l’Apocalisse di Jordan River, dove interpreto Costanza d’Altavilla; 21 Rubies, in Transilvania con Mickey Rourke e Anthony Delon tutto in inglese (una lingua con cui non andavo d’accordo nemmeno ai tempi delle scuole medie); e Buio come il cuore, un noir interamente girato in Calabria.

E come hai fatto con l’inglese?

Non ci ho mai capito nulla. Per recitare accanto a due attori come Anthony Delon e Mickey Rourke, un mio mito sin da quando ero piccola (da 9 settimane e ½ a Wrestling), ho preso un coach privato per imparare bene la lingua, capire il testo e far mie le varie intonazioni. Lo vedevo tutti i giorni per circa quattro ore al giorno, stavo diventando quasi scema (ride, ndr): sapevo l’intero copione a memoria! Ho speso soldi ed energie e avevo persino paura che fosse un brutto tiro di Scherzi a parte: continuavo a chiedere ai miei amici di dirmelo se fosse stato così. Ma lo chiedevo anche al regista durante le videocall mentre lui si trovava già in Transilvania: “Sicuro di volere me?”.

È stata anche una bella sfida lavorare con Mickey Rourke: lo dipingono matto come un cavallo ma sul set ho potuto apprezzare il suo lato più umano. Faceva ad esempio mettere a palla la musica e voleva che tutti ballassero prima delle riprese. Era il suo modo per vincere la paura o la tensione. “Un attore che non si emoziona, non ha tensione o non suda, non è un vero attore”, mi ha detto carinamente mentre io chiedevo alla costumista dei fazzoletti per nascondere il sudore.

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La bellezza spesso si trasforma in pregiudizio. Per te, è stata più un vantaggio o uno svantaggio?

Come ho già accennato, ho sempre avuto la sindrome del brutto anatroccolo. Non mi sono mai sentita bella e, quindi, non ho mai agito come una bella. Molto spesso non mi sento all’altezza di tante situazioni, ragione per cui le vivo con ansia. Ogni cosa per me rappresenta una sfida. Poi, penso anche che la bellezza in qualche modo possa aiutare ma l’ho sempre accompagnata con altro. Vengo dal mondo della danza classica, conosco il sudore e il sacrificio. Ma riconosco che il mio più grosso limite è quello di sottovalutarmi.

Tuttora?

Forse bisognerebbe vedersi con un occhio diverso, un po’ meno critico. Me lo ripeto spesso ma, quando vado a fare i provini, dentro me penso che le altre siano sempre molto più belle di me. Sono quindi oggi contenta dei self tape, almeno non vivo il confronto con chi è prima o dopo di me. Bisognerebbe ricordarsi che fare l’attore è anche dimenticarsi di se stessi.

Anche quando vado in spiaggia, tendo a coprirmi, anche per una questione di sole e di attenzione alla pelle. Vado in giro con palandrane molto lunghe, che tolgo solo quando faccio il bagno: ho un grande pudore del mio corpo, non amo esporlo. Però, poi, mi ritrovo a interpretare dei film con delle scene che prevedono sesso (ovviamente finto) e nudità. Ma in quel caso non sono Elisabetta, divento il personaggio. E, se questo si sente bella, in quel momento mi ci sento anch’io: una sensazione che svanisce quando torno a casa e ritorno brutto anatroccolo. È un contrasto che spesso e volentieri anche chi mi sta accanto non riesce a capire: in scena non c’è Elisabetta ma ci sono la mia “amica” Lara, Giulia o Flavia. I personaggi che interpreto sono tutte mie amiche ma non sono io.

Elisabetta Pellini in Dark Matter

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Hai appena terminato a Reggio Calabria le riprese di Buio come il cuore.

Buio come il cuore è un noir, il mio genere preferito. È un film che seguo da diversi anni perché conosco chi l’ha scritto, Claudio Masenza, e chi l’ha diretto, Marco De Luca. Pur richiamando un noir degli anni Quaranta o Cinquanta, ha una sessualità molto più esplicita e vicina al giorno d’oggi che prevede scene di nudo. Come tutti i noir, ha personaggi che solo malinconici ed è un film che mi è entrato nell’anima e a cui ho dato tutta me stessa.

Pur essendo un film corale, ne sono la protagonista assoluta e il ruolo che interpreto è il sogno di ogni attrice, almeno il mio. È stata una bella sfida: avevo terminato di girare in Romania e, rientrata a Roma, non ho avuto moltissimo tempo per prepararlo. Interpreto un’attrice che ha un passato nascosto, è sposata con un produttore farmacologico e ottiene la parte in un film degli anni Cinquanta prima di confrontarsi con tutta una serie di cose e delitti che la scombussolano a livello sia psicologico sia fisico.

È un film sulla verità ed è molto attuale. Sulla verità dei rapporti sentimentali ma anche su come vengono vissuti, su come la verità può essere interpreta, detta o cambiata, sull’amicizia, sul credere in qualcuno per poi essere ingannata, su dove ti può portare la forza dei sentimenti. La sceneggiatura è molto potente così come la fotografia, affidata a Christian Mantio, italiano che vive a Londra come Marco De Luca, il regista e sceneggiatore.

Se una sceneggiatura è bella di partenza, hai già l’80% dell’opera. Occorre solo metterci gli attori giusta, la fotografia, la musica, i costumi e le location. Hanno trovato dei posti in Calabria veramente belli ma anche giusti per la storia: è stato per me un mese di grandi scoperte.

Buio come il cuore: Le foto in anteprima

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La manipolazione è al centro del film ma è anche al centro dei rapporti tossici che spesso sfociano in violenza. Tu non hai mai fatto mancare il tuo sostegno alle campagne sociali sulla violenza contro le donne e sullo stalking, ad esempio.

In generale, mi adopero molto per combattere tutto ciò che mi urta. E la violenza mi urta: se posso far qualcosa per limitarla, la faccio perché viviamo in un mondo veramente violento. Tempo fa, abitavo a Trastevere di fronte alla Casa delle Donne, dove c’era un muro che elencava i nomi delle donne di vittime di violenza, chi uccisa dal marito, chi dall’amico o chi dal collega.

Ho anche realizzato un cortometraggio sulla storia vera di una donna siciliana che, incinta, sposata con un poliziotto e già madre di un figlio, veniva prima picchiata da un collega e si vedeva dopo dar fuoco. Ha dovuto fingersi morta per salvarsi ma ha perso il bambino che aveva in grembo. L’aggressore è stato denunciato e tenuto per poco tempo agli arresti domiciliari. Se l’è cavata con poco ed è questa un’ingiustizia, lei per porterà per sempre i segni addosso, non solo fisici ma anche psicologici. Chi gli ha dato il diritto di massacrarla in quel modo?

Non esiste, in nessuna circostanza, un motivo valido per ricorrere alla violenza. Né fisica né verbale. Anche le parole fanno male: gli insulti fanno sentire non adatta, non giusta, sbagliata. Sono anche quelli una violenza di cui molto spesso non si parla ma che lascia cicatrici molto profonde che non vanno via: influenzano l’idea che si ha di se stessi e lasciano insicurezze che mai si colmeranno. Oltre che a farti nascere sensi di colpa per cui cominci a pensare che l’altro abbia ragione e che sia tu la persona sbagliata.

La violenza psicologica non viene solo dai fidanzati, mariti o compagni: arriva anche dalle madri, dai nonni, dai padri o dai fratelli.  Ed è qualcosa che ti porti dietro per tutta la vita se non l’affronti, non l’appunti da qualche parte, non ne prendi consapevolezza o ne parli con qualcuno, nemmeno con le amiche, perché provi vergogna e temi il giudizio. Ma non bisogna stare zitte e dirsi di meritarselo: una volta è un “troia”, poi diventa uno schiaffo, poi ancora un calcio nel sedere… e dopo? Che fai? È una situazione che è destinata a degenerare o esplodere prima o poi: non sottovalutiamo mai nemmeno le cose che ci sembrano piccole.

E vale per la violenza sulle donne, la violenza sui bambini e la violenza sugli anziani. Quante volte diciamo loro quando vanno in tilt con lo smartphone che non capiscono niente? Come se fosse colpa loro il cambiamento a cui è andato incontro il mondo: voglio vedere tra quarant’anni le stesse persone come reagiranno trovandosi dall’altro lato. Gli anziani vanno aiutati e sostenuti, non abbandonati o isolati solo perché non “servono” più a niente: il bagaglio culturale di cui sono depositari non possono dartelo né un computer né Wikipedia, per cui vanno ascoltati perché hanno tantissime storie interessanti da raccontare.

Ma vale anche per la violenza che le donne esercitano sugli uomini. Esistono donne molto aggressive che esercitano violenza psicologica per esercitare potere sul proprio uomo facendolo sentire un inetto o, quando non vogliono essere lasciate, mettono in atto atteggiamenti da stalker, aiutate in certi casi anche dalla tecnologia.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.

Hai avuto modo di sperimentare la manipolazione sulla tua pelle?

In amicizia, è facile manipolarmi. Ogni tanto mi descrivo come un cristallo e come tale sono fragile: sembro forte ma è solo un meccanismo di difesa. Tutti noi cerchiamo sempre qualcuno di cui fidarci e a cui affidarci ma non sempre troviamo la persona giusta. Mi è capitato di rendermi conto sia nel privato sia nel lavoro di non essermi fidata dell’amicizia giusta, interessata solamente a ottenere un vantaggio. Fa quasi parte dell’istinto umano manipolare ed è un modo sbagliato di relazionarsi agli altri, assolutamente malato.

Fortunatamente, esistono anche dei rapporti sani, soprattutto di amicizia, e sempre più rari che durano tutta la vita. Ho una migliore amica sin dai tempi delle scuole medie. Abbiamo cambiato città, siamo cresciute e diventate donne ma l’amicizia è rimasta invariata perché alla base c’era e c’è la sincerità. Non abbiamo nessun altro interesse al di là del voler bene all’altra.

Viviamo purtroppo in un mondo in cui il parlare è diventato più importante dell’ascoltare: il “ciao, come sto?” ha prevalso sul “ciao, come stai?”.

Non è forse una conseguenza dei social?

I social ci hanno abituato alla violenza. Sono molto aggressivi e sono veicolo di commenti che spesso sono veramente brutti, figli di cattiveria esplicita e gelosia che colpiscono sia a livello pubblico sia a livello personale.

Sui social hai anche scritto e diretto un film che si chiama Selfiemania

Ne ho scritto la sceneggiatura nel 2017. Parlava della mania dei selfie e quando lo proponevo mi chiedevano se fosse un film demenziale. No, non lo era: esistono più morti a causa dei selfie che degli squali, come evidenzia una ricerca. La mania del selfie estremo ha accentuato pericoli e distrazioni e ha generato anche una certa dipendenza: si continua a far foto per ottenere più like o follower, arrivando anche a comprarli. Trovo terrificante la storia delle spunte blu a pagamento: arriveremo al punto di non sapere più chi è chi?

Forse è anche per questo che continuo a scrivere nella mia agenda con la penna: dalla calligrafia, capisci anche la personalità di una persona. Oggi non si scrive più ad esempio: si inviano le emoji mentre una volta si inviavano le letterine, a cui mettevi anche il profumo… aspettavamo con trepidazione di ricevere una letteralmente adesso se vediamo una busta nella cassetta ci viene quasi un accidente pensando che sia una bolletta o una multa da pagare!

Bastano oggi un’emoji per dire tutto o una citazione copiata e incollata da internet prima di cancellare un’intera chat e bloccare per sempre qualcuno quando si litiga. Così facendo si perde ogni cosa, anche i ricordi più belli.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.

Che rapporto hai invece con l’amore?

Ho una relazione complicata con l’amore, altrimenti non sarebbe tale. L’amicizia è per sempre e si perdona, l’amore è un lavoro ed è più difficile da perdonare. Esiste la grande passione, dura per qualche tempo ma poi finisce se non sei in grado di alimentarla. All’inizio di una relazione, siamo tutti meravigliosi, me compresa: è solo dopo che cadono le maschere, si cambia e muta anche il sentimento. Ecco perché non c’è nulla di più prezioso per me dell’amicizia.

Hai lavorato tanto sull’amore?

Ci sto ancora lavorando tanto. Non è facile né farsi amare né amare. Però, ho capito che se non ami te stesso nessuno riuscirà mai ad amarti. Ragione per cui è importante non accettare mai le violenze e non perdere il rispetto di sé. Da attrice, non è facile stare in coppia, devi trovare qualcuno che accetti di vederti andare via anche per mesi, di vederti girare scene anche di sesso e di sentirsi spiegare che, nonostante sembrassi presa dal momento, era solo finzione. Anche perché non sempre si va d’accordo con i partner in scena e ci si ritrova con un attore primadonna che, pur di rubarti la scena, ti fa i dispetti.

E a te è capitato?

Più che con un attore mi è capitato con un’attrice. Avevamo fatto insieme un provino dopo il quale a me avevano affidato, contrariamente alle sue aspettative, un ruolo maggiore del suo: mi ha odiato a vita… ma io ero ben contenta del ruolo! Quello del ruolo minore fa parte di questo lavoro, un lavoro che richiede elasticità anche mentale. Sui set ho sempre cercato di andare d’accordo con tutti, dal regista alla persona meno influente: dobbiamo collaborare e aiutarci tutti per il risultato finale e dobbiamo essere veri.

Un altro dei miei difetti è proprio l’esser vera e sincera e, come spesso accade, la verità non è ben accetta. Ma preferisco sempre mettere tutto in chiaro: potrebbe aiutare anche a ricredersi. Tacendo, i contrasti o i dissidi non farebbero altro che aumentare.

Elisabetta Pellini.
Elisabetta Pellini.
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