Quello di Ema Stokholma è un nome ormai noto nel panorama mediatico italiano, non solo per le sue competenze come presentatrice e personalità radiofonica, ma anche come fervente sostenitrice dell'inclusività e della diversità. La sua presenza ai Diversity Media Awards 2024, dove conduce insieme a Francesca Michielin, è più che un semplice ruolo cerimoniale; rappresenta un riconoscimento del suo impegno nel promuovere una rappresentazione equa e valorizzante di temi legati a genere, etnia, identità di genere, e altre questioni di diversità nei media italiani.
La storia di Ema Stokholma è profondamente radicata nella lotta personale e nella resilienza, sebbene lei ami definirsi una loser. Cresciuta in un contesto di sfide e superamento di barriere personali e sociali, Ema Stokholma ha sempre percepito la diversità come una parte integrante della sua identità. Questo sentire si riflette non solo nelle sue scelte professionali, ma anche nel modo in cui interagisce con il mondo, promuovendo un dialogo aperto e onesto su tematiche spesso marginalizzate.
Il suo approccio ai temi legati alla diversity and inclusion è intriso di questa sua storia personale: Ema Stokholma non si limita a presentare la serata del 28 maggio al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano ma utilizza il suo ruolo per evidenziare l'importanza di una vera inclusione nei media. La sua capacità di trattare argomenti delicati con umorismo, empatia e una franchezza disarmante la rende un'icona non convenzionale e una voce di cambiamento, nonostante lei non si percepisca come tale.
Durante l'intervista in esclusiva che ci ha concesso, Ema Stokholma esplorerà in profondità il concetto di "sentirsi diverso" e come questa percezione abbia modellato tanto la sua vita quanto la sua carriera. Sarà l'occasione per discutere delle sfide che ha affrontato nel settore mediatico, spesso reticente al cambiamento, e di come abbia usato le sue piattaforme per sfidare lo status quo e promuovere una rappresentazione più inclusiva e comprensiva.
Questo dialogo con Ema Stokholma offrirà uno sguardo unico su come si possa trasformare la percezione di sé da una potenziale fonte di isolamento a un potente strumento di empowerment e advocacy.
Intervista esclusiva ad Ema Stokholma
Qual è stata la tua reazione quando sei stata contattata per presentare i Diversity Medi Awards?
La prima cosa che ho pensato è stata “Finalmente si sono accorti di me”: ero super felice. Come lo ero quando ero stata nelle precedenti edizioni nominata, tanto che con Gino Castaldo su Rai Radio Due ne avevamo parlato a lungo. È bello ovviamente condurli: è un po’ un riconoscimento da parte della comunità: siamo una grande famiglia, io ne faccio parte.
Un riconoscimento che viene dal basso o non per autoproclamazione come avviene nel caso di certe icone autoproclamatesi tali che poi non conoscono nemmeno il significato dell’acronimo LGBTQIA+.
Negli ultimi anni il linguaggio è cambiato molto, il mondo è cambiato e non tutti riescono ad adattarsi velocemente ad alcune terminologie. Non giudici nessuno ma è bello porre attenzione su determinati aspetti e cercare di crescere. Chi come noi lavora con la comunicazione, non si può permettere di sbagliare ma capisco che per tutti non è così facile e immediato capire che non si possono più usare certi termini o che altri vanno usati in maniera differente.
Io adoro i cambiamenti di linguaggio. Li amo: li ho vissuti anche in Francia negli anni Novanta e mi piacciono in ogni campo, dalla musica all’arte ai costumi. Ma non tutti riescono ad apprezzarli, a comprenderli e a integrarli subito.
Secondo te, quali sono le ragioni che ha portato la community queer a eleggerti icona?
No, io non sono un’icona, assolutamente: le icone sono altre. Semmai io faccio parte di questa community che chiamo famiglia perché per me è stata tale quando mi è venuta a mancare quella biologica. Quindi, mi sento parte di una famiglia che ha dei pensieri simili ai miei, che non giudica mai per questi e che ti capisce. E io mi sento accettata da sempre, da quando sono arrivata in Italia, ed esserlo è stata una grande liberazione. Però, non mi sento un’icona: non mi azzarderei mai a definirmi tale.
Preferirei dire che sono un portavoce per la battaglia dei diritti civili che non è solo una battaglia ma anche un pensiero, un modo di esprimersi che porto avanti tutti i giorni nei miei programmi in radio, nella mia vita, nelle mie amicizie. Quello che posso fare nel mio piccolo è essere me stessa e affrontare argomenti e opinioni vicine alla comunità. Detto ciò, un’icona deve avere almeno un disco d’oro (ride, ndr)… deve avere in tasca delle cose più pesanti di quelle che ho io.
Quand’è nel tuo percorso personale che hai percepito per la prima volta il peso della parola ‘diversità’?
Ho capito il concetto di diversità già a quattro o cinque anni perché non è solo quella che affronteremo durante i Diversity Media Awards ma è anche il sentirsi soli e il non vedersi guardati o considerati, anche quando hai un corpo conforme a quello degli altri: gli altri non ti vedono e inevitabilmente ti senti solo e, quindi, diverso. Io mi sento diversa sin da quando sono bambina perché ho avuto in effetti un’infanzia diversa, purtroppo non dissimile da tanti altri bambini nel mondo. Sono dunque cresciuta sentendomi diversa…
E sin da piccola ho avuto i primi pensieri liberi da preconcetti o pregiudizi. La mia famiglia era composta da me, mia madre e mio fratello, ed io già molto presto pregavo che mia madre trovasse una persona che le stesse vicino: forse in coppia si sarebbe sentita amata e avrebbe imparato ad amare. La coppia nella mia testa era composta da una donna e un uomo o da due donne, non importava: chiunque mi sarebbe andato bene purché fosse una persona civile. Purtroppo, non è successo ma era il mio sogno.
Dove cercavi quell’amore che in casa non avevi?
Nelle amicizie, l’amore per me erano le mie amicizie. Con la solitudine e la tristezza in casa, provavo amore già verso le mie amichette e i miei amichetti delle scuole elementari ed è qualcosa che mi sono portata dietro durante tutto il percorso scolastico ma anche oltre.
Quando sono arrivata in Italia per la prima volta, nel 2000, sono entrata poi a far parte di un’agenzia di moda, ho stretto amicizia con il mio booker ed è stato lui che mi ha portata al cospetto di qualcosa che ancora non conoscevo, il Gay Pride, come si chiamava all’epoca. Ed è lì che ho ritrovato quello stesso concetto di amore, un sentimento che per me è molto simile all’amicizia: seppur non conoscessi nessuno, mi sembrava di essere amica di tutti, inclusa. Non c’è nulla di più inclusivo dell’amore.
Ti senti oggi inclusa ma allo stesso tempo diversa dagli altri?
Mi sento tutti i giorni, nella mia vita lavorativa e nelle mie amicizie, molto inclusa. Però, mi sento anche diversa e le mie amicizie amano il mio modo di essere e le mie diversità. Alcuni, tra l’altro, mi aiutano anche a svilupparle maggiormente e il tutto diventa molto divertente perché la diversità di pensiero, di ironia e di gusti, fa sì che ci sia sempre qualcosa da dirci quando ci incontriamo.
La diversità può ovviamente essere anche estetica. Cosa rappresentano per te i tuoi tatuaggi? Sono una sorta di copertina di Linus? E sono mai stato oggetto di esclusione in ambito ad esempio professionale?
Si, in effetti è successo fino a qualche anno fa che per me alcuni contesti mi sentivo dire di non essere adatta perché troppo tatuata: era difficile vedere una ragazza con un abito da sera e i tatuaggi in bella vista. Oggi, la situazione è cambiata ed è capitato anche che i tatuaggi abbiano giocato a mio favore, portando qualcuno a pensare “prendiamo lei perché è strana e ha un’immagine forte”.
Detto ciò, odio i miei tatuaggi. Sono stati una copertina di Linus ma quella copertina non mi serve più: me ne servono altre e questa vorrei piegarla e metterla nell’armadio. Mi ritrovo, invece, a portarla sempre addosso e a ricordarmi che ero insicura, impulsiva e anche un po’ testa di cazzo.
In un mondo in cui tutti si prodigano a restituire la versione migliore di sé, la tua sincerità ti porta a mettere subito in evidenza chi sei realmente, senza maschere.
Ma io sono una loser, chi se ne frega del giudizio degli altri. Amo raccontare le mie sfighe quando mi capitano (ride, ndr). Lo ero ma nella vita si cambia tanto e ciò mi dà la possibilità di guardare a ciò che ero fino a ieri. Farlo mi dà forza e mette in risalto le mie evidenti mancanze: perlomeno le vedo spesso, ragione per cui vado in analisi due volte a settimana.
Sono in analisi da tanti anni, mi sento una loser ma ne approfitto per far diventare le mie mancanze dei punti di forza. Mi è mancato l’amore quando ero piccola e ho conosciuto la violenza in casa molto presto, la volenza, la tristezza e tutto ciò che ho provato nella prima parte della mia vita, ma non mi piango addosso, ne traggo forza, ci scherzo su e ci gioco. Quindi, sì sono una loser ma consapevole: più rido su quello che mi è accaduto più ciò mi farà ridere… è un esercizio mentale che ho imparato molto presto: non mi devo vergognare delle mie debolezze.
Ti è mai capitato di imbatterti in un racconto dei vari media che abbia restituito quello che hai veramente vissuto durante l’infanzia o perlomeno che ti abbia permesso di rispecchiarti?
È strano ma per sentirmi capita o, comunque, per capirmi, ascolto i crime perché rappresentano l’unico contenuto che mi riporta a cose che ho vissuto io. Si tratta di storie molto diverse dalla mia e ovviamente nessuna ha punti di contatto con quello che ho vissuto ma si innesca un meccanismo che è simile a quello che mi ha portato anche alla scrittura del mio libro, Per il mio bene, venuto alla luce dopo un orribile fatto di cronaca di cui era vittima un bambino.
Ascoltare tutte quelle storie reali di famiglie, di violenze, di disagio e di povertà, mi fa sentire un po’ capita: “Non è successo solo a me”. Mi rivedo eventualmente nei sentimenti della vittima, mi chiedo cosa avrà provato e mi sento non solo capita ma anche in grado di capire alcune storie da entrambi i punti di vista, vittima e carnefice, perché io sono cresciuta dovendo anche capire mia madre. Mi ritrovo così a non giudicare… credo di non essere una persona troppo giudicante: riesco a provare empatia anche per delle persone che sono in palese difficoltà, altrimenti non farebbero mai quello che fanno. Non si può sempre condannare e basta, bisogna andare dietro alle cose e alle storie.
Con una battuta, in Baby Reindeer provi empatia anche per Martha.
Certo, quella serie parla proprio di questo e di come tutti quanti possiamo diventare dei carnefici. Perché i carnefici possono avere anche dei disagi mentali di cui nessuno si accorge e non è giusto. Come nel caso di mia madre, di cui nessuno si è mai accorto.
Qual è l’indifferenza che ti ha fatto più male? Quella di tua madre o quella di chi poteva percepire che qualcosa non andava e non interveniva?
Dipende dai periodi. Da piccola, sicuramente mi feriva tanto quello che mi capitava direttamente per mano di mia madre. Quando poi sono cresciuta, avendo sviluppato un pensiero mio su come comportarmi e sull’etica, sono passata per un certo periodo dall’altro lato della barricata e ho voluto sperimentare cosa si provasse a essere una “bulla” per capire se anch’io fossi così cattiva. Ho provato a far del male agli altri lasciando esprimere la mia aggressività ma ho presto capito che non era quello che volevo: io volevo far ridere la gente, non farla soffrire.
Sviluppandolo, ho capito che anche la gente aveva un senso etico. Per cui, da più grande, mi ha fatto soffrire di più l’indifferenza degli altri. Ho capito che quando c’era qualcosa che mi piaceva, avrei dovuto fermarmi e chiedere se ci fosse bisogno d’aiuto. Ma perché gli altri non l’hanno fatto con me? Spesso non so distinguere chi abbia più colpe, se chi si esprime con la violenza e con atteggiamenti discriminatori, è evidente che abbia un problema, o chi rimane inerme a guardare: perché siamo così indifferenti o non ci interessa aiutare l’altro? Se cammini per strada, vedi qualcosa che non va, non ti fermi o pensi ad altro, bene non fai.
Sei in terapia da diversi anni. Cosa il terapista ti ha aiutato a scoprire lati di di te che non immaginavi?
Tutto, altrimenti non sarei felice oggi. Ho scoperto la persona che sono grazie all’analisi: prima non vedevo niente di me e mi vergognavo di tutto, a partire dalla mia presenza. L’analisi mi ha aiutato a perdonarmi tante cose che non pensavo neanche di dovermi perdonare e mi ha permesso di scoprire di avere un senso di colpa che mi frenava e mi uccideva. Ha rappresentato per me una grande liberazione che mi ha permesso di lavorare su ciò che c’era di brutto e di lasciarmelo alle spalle, conservando e coltivando solo ciò che c’era di bello.
E, quindi, cosa hai scoperto di bello?
Oddio, forse devo andare in analisi tre volte a settimana per rispondere a questa domanda: mi viene sempre un po’ difficile parlare bene di me ma ce la posso fare (ride, ndr). In analisi o comunque nella vita in generale, negli ultimi anni ho scoperto di essere simpatica. Può andar bene? (ride, ndr).
Bastava sentirci prima e te lo avrei detto io…
Ho scoperto con l’analisi che, se non stai bene, possono tutti dirti ogni giorno anche per venti volte quanto sei simpatica e non crederci. Se hai una voce dentro che ti dice che non è vero, per te non risponderà alla realtà: devi lavorare su di te per accettare i complimenti, purtroppo.
Quelle carezze o complimenti che ti sono mancati da parte di tua madre hanno inficiato la tua idea di maternità?
Penso di sì. Non so se sarei cresciuta con gli stessi pensieri che ho oggi se avessi avuto un altro tipo d’infanzia. Sicuramente, capisco che ci sono delle donne che nascono con il bisogno di diventare madri e altre invece no: probabilmente, sarei nata ugualmente senza questa necessità. Col tempo, ho realizzato tante cose sulla maternità e, in generale, ho potuto constatare quanto sbagliato sia il racconto che si fa delle madri perché, comunque, una madre può anche non amare i suoi figli, può anche non farcela a tirarli su, può anche essere una madre migliore se li dà in adozione e può essere tale anche se decide di abortire.
Si può essere madri con tante declinazioni diverse e in tante differenti situazioni: io stessa posso esserlo se c’è un bambino o qualcuno che ha bisogno di me. Ho il mio istinto materno ma non voglio viverlo sulla mia pelle.
Ti sei mai sentita mamma di te stessa?
Bene o male, mi sono tirata su. A un certo punto, sono diventata mamma di me stessa e anche papà.
La tua storia sfata, se ancora ce ne fosse bisogno, lo stereotipo secondo cui i genitori sono solo quelli biologici: è una funzione sociale a cui possono tendere tutti.
È una frase fatta ma i genitori sono coloro che ti crescono o che si prendono cura di te. La scienza è un conto e l’amore un altro: non sempre funziona come vuole la prima.
Se dovessi pensare a due figure per te genitoriali chi sarebbero?
MacGyver per quanto riguarda mio padre e Amanda Lear per quanto riguarda mia madre. Oddio, forse Amanda Lear sarebbe più una zia: le racconterei cose che a mia madre non direi (ride, ndr).
Il tuo percorso professionale è sotto gli occhi di tutti. Ti sei mai sentita realizzata?
‘Realizzata’ è un parolone… non mi piacerebbe sentirmi realizzata, è una sensazione che evito. Allo stesso tempo posso però affermare che per la prima volta in vita ho comprato casa, soffrendo come un cane ma ce l’ho fatta. Ricordo che per questo una volta mi sono data una pacca sulla spalla: chi l’avrebbe mai detto che ci sarei riuscita? Per me, era impensabile per come era partita la mia storia personale. Forse è stata quella la volta che mi son detta di star facendo grandi cose che mai avrei immaginato possibile.
A livello professionale, ogni progetto a cui mi approccio mi fa pensare “Che figata!” ma non dico mai di essere arrivata, anche se soprattutto nell’ultimo anno ho fatto dei lavori per cui sono abbastanza fiera di me… mi fa strano anche dirlo! “Si può comunque sempre fare di meglio”: è questo il modo in cui mi pongo nel mondo e anche nel contesto lavorativo.
Per lavoro, hai attraversato il mondo della moda, della musica, della radio, della televisione e del cinema. Quale di questi ti è sembrato più inclusivo?
All’ultimo posto, signore e signori, abbiamo il lavoro da deejay. Ancora oggi, quando accendo la console, c’è chi pensa che stia facendo finta di suonare. Ricordo ancora quanto agli esordi i deejay maschi rosicassero, come se una donna in discoteca potesse far soltanto la cubista o la ragazza immagine e non avvicinarsi alle strumentazioni. Premesso ciò, sono però riuscita a farmi un bel po’ di amici in quel periodo creando un mio piccolo mondo.
L’ambiente più inclusivo è forse quello della radio, in cui ho sempre un confronto molto aperto e alla pari con il resto della squadra. Lo considero un posto molto libero per me. Salto il cinema perché è qualcosa che non conosco ancora molto bene: se dovessi basarmi sulle sole due o tre esperienze avuto, direi che è pazzesco ma non è il mio mestiere… sono stata fortunata a lavorare sia con Virzì sia con Verdone.
Che il mondo delle discoteche sia il meno inclusivo non rappresenta una novità: basti pensare ai biglietti omaggio per cui l’uomo paga e la donna entra gratis.
Certo ma anche il dresscode che viene richiesto da alcuni posti. Va bene lo stile o il glam ma perché dire a qualcuno che non va bene? È curioso doverlo ammettere perché invece dovrebbe essere il più inclusivo proprio perché la musica è inclusiva. Non demonizziamolo, però: per fortuna, ci sono stati dei posti che ti potevano cambiare la vita, come il Cocoricò, alcuni festival e altre discoteche, come è successo a me. Non posso di certo sputare nel piatto in cui ho mangiato e che mi ha cambiato tutto: bastava scegliere quello giusto.
È sempre una questione di scelta in ogni ambito della vita: è l’unico fattore che permette di abbattere le limitazioni alla libertà. Ti senti libera di scegliere?
Sì, sono libera e sono libera di scegliere. A quarant’anni, c’è una consapevolezza meravigliosa di quello che sei come persona, di quello che vuoi, di come esprimerti e dell’accettare anche i tuoi lati meno accomodanti. Vorrei essere nata a quarant’anni per sentirmi sempre così.
È chiaro che devi anche avere culo o a volte anche intelligenza ma tutte le scelte importanti che ho fatto fino a questo momento sono state libere, soprattutto in ambito delle amicizie e del lavoro. E sì, ho avuto culo nel fare scelte giuste che mi permettono oggi di sentirmi libera.
Qual è il consiglio che crescendo avresti voluto che ti fosse stato dato?
Avrei voluto che da bambina qualcuno o la me del futuro mi avesse suggerito di tenere duro perché un giorno sarei stata bene come oggi: “Non sarai sempre così triste, sarai felice”. Forse avrei sofferto un po’ meno: quella forma di previsione mi avrebbe aiutata ad affrontare quello che allora era il presente e, soprattutto, quei momenti difficilissimi in cui si pensa di non potercela fare.
Citando la cara amica Romina Falconi, quand’è che si avverte la solitudine di una regina?
Non mi sento una regina… o forse sì: in casa mia mi sento tale proprio per cosa significa quell’acquisto. La solitudine di una regina per me è il lusso della vita: trovo preziosissimo stare da sola nella mia reggia, a volte anche in silenzio. Ecco, per me la solitudine di una regina è il lusso di star bene anche da soli e zitti.
Tra le tue tante esperienze, ce n’è una forse un po’ più canonica di tutte: la partecipazione come concorrente a Ballando con le stelle, il programma di Rai 1 che tutti pensano abbia un target molto conservatore e tradizionalista. Eppure, quel pubblico ti ha molto amato. Ti sei data una spiegazione?
Non sottovalutiamo mai l’intelligenza della “signora” a casa, in grado di apprezzare anche i racconti lontani dalla vita che hanno vissuto loro. Tutti quanti abbiamo avuto delle sofferenze, anche la nonna che guarda quel programma con la nipote o in famiglia: sentendo un racconto positivo come il mio (cerco di esserlo sempre, anche quando racconto cose brutte: sono passati trent’anni e non posso continuare a piangermi sopra per le botte ricevute) che usa l’ironia per raccontare le sfighe, la “signora” si diverte e può anche riconoscersi.
Ma Ballando è anche un programma che ha contribuito molto alla lotta contro gli stereotipi proponendo una coppia di ballerini dello stesso sesso proprio l’anno in cui tu eri in gara.
Milly (Carlucci, ndr) è avanti con i tempi e ha smentito il luogo comune per cui la gente non vuole vedere determinate cose. La gente ha semmai bisogno di essere rassicurata e ha desiderio di rispecchiarsi, di scoprire storie nuove e relazioni altrettanto nuove. Milly ha il dono di mettere insieme delle storie e dei racconti che rispondono a quest’esigenza: il pubblico di Ballando ci è dunque abituato e sarà anche per questo che ha amato il mio racconto diverso. In qualche modo, era preparato.
Quella di Ballando è a tutti gli effetti una tribù, nell’accezione positiva del termine. Qual è la tribù ideale di Ema Stokholma?
Quando penso alle tribù, penso a quelle vere, quelle dieci o poco più che esistono in tutto il mondo e che ti permettono di capire il vero senso dell’essere umani. La mia tribù nella vita di tutti i giorni è composta dal mio gruppo di amicizie, tra cui Andrea Delogu, che vedo spessissimo e con cui mi confronto.
L’amicizia tra donne dello showbiz sottolinea quanto falso sia lo stereotipo dell’Eva contro Eva.
Adoro certi luoghi comuni: non ci si pesta i piedi a vicenda, anche perché portando un 43 nel farlo vincerei sempre (ride, ndr). Io e Andrea siamo amiche da prima del nostro lavoro e lo siamo in tutti i sensi, sia reale sia metaforico: prima viene la nostra amicizia e poi il lavoro che condividiamo. Tra l’altro, lei mi ha sempre aperto le porte di questa professione e della radio, mi ha sempre consigliato e mi ha sempre dato un grandissimo supporto, condividendo anche i suoi contatti: ha sempre voluto il meglio per me, sia nella vita sia in ambito professionale.
Quando sento dello stereotipo sulle amicizie femminili, rido. Conosco molte donne che hanno legami di amicizia meravigliosi e mi sembra strano che si dica che non possono essere amiche. A me pare il contrario: il valore dell’amicizia tra donne è molto forte ed è cerebrale.
Se ne parla male perché le si teme?
Non so se sia per paura. A volte penso che ci piaccia proprio vivere di luoghi comuni per cui la mamma è sempre la mamma, due donne non possono essere amiche, il colore rosa è per le femmine e ci sono cose solo da maschi. Sono semplicemente dei retaggi culturali che le giovani generazioni stanno contribuendo ad abbattere: ho grande fiducia nei ragazzi di oggi.
Quand’è stata l’ultima volta che un uomo ti ha spiegato come far qualcosa?
Qualche giorno fa su Instagram, sotto al video postato per il concerto del Primo Maggio e condiviso con Rai Radio 2, il mio datore di lavoro. Sotto a quel post, trovate scritte cose schifose per cui dovrei giustificare anche come faccio il mio lavoro e inerenti ad aspetti tecnici. E infatti sono nera: vorrei denunciare tutti ma non è facile farlo perché da questo punto di vista non siamo abbastanza tutelati nonostante sia un chiaro caso di diffamazione.
Come reagisci invece alle critiche che puntano alla sfera intima, al tuo corpo, alle tue scelte di vita e al tuo modo di comportarti?
Chiaramente, alcune critiche attecchiscono ma fortunatamente non me ne arrivano tante. Chi mi segue ha voglia di farlo e non viene di certo a infamarmi sotto al mio profilo. Chi lo fa arriva quasi sempre da altri profili spesso legati al posto in cui hai lavorato o ti sei esibita. A volte vorrei rispondere perché mi sento incompresa, altre invece lo faccio in maniera ironica e altre ancora non leggo nemmeno cosa scrivono: dipende dal mood in cui sono.
Di sicuro, non dovrei mai rispondere a caldo perché non si dovrebbe mai alimentare il circuito dell’odio. Ma è difficile resistere: sono un po’ impulsiva, dovrei sempre riflettere molto prima di far qualcosa (ride, ndr).
Oggi hai quarant’anni: cosa hai pensare allo scattare della mezzanotte del tuo compleanno?
L’età anagrafica non è mai stata una mia preoccupazione, anche perché mi ero abituata al numero che sarebbe arrivato… da quando avevo 35 anni, ho cominciato a dire in giro di averne 40 per portarmi avanti. Non ho dunque pensato nulla e non ho fatto niente, non sono una grande fan delle date o delle ricorrenze: non me ne può fregare di meno, sebbene mi divertano le feste o le atmosfere di certi periodi dell’anno come il Natale. Non ho festeggiato, quindi, e non ho fatto nemmeno un bilancio della mia vita, anche perché quello andrebbe fatto tutti i giorni per essere felice tutti i giorni.
A quella bambina di prima cosa avresti detto oltre al fatto che sarebbe stata felice prima o poi?
Nient’altro. Avrebbe avuto bisogno solo di sapere che un giorno avrebbe visto la cosiddetta luce in fondo al tunnel: era l’unica cosa che avrei desiderato. Per il resto, non cambierei nulla: ho fatto bene a vivere tutte le esperienze che ho fatto, ripasserei le stesse cose ma con la consapevolezza che sarei stata un giorno bene. Forse mi avrebbe un po’ curato il dolore che avevo al cuore fino a pochi anni fa.
È stata la tua felicità la tua rivalsa?
Lo è stata il libro e tutta l’esperienza che stata intorno a esso: riuscire a scriverlo e a farlo recepire alle persone che lo leggono con l’intento con cui l’ho fatto. Credo di esserci riuscita dalle recensioni che leggo: la gente ha capito che non volevo piangermi addosso e che volevo solo raccontare quello che era stato. Ma lo è stato anche condividere l’esperienza con mio fratello, sia di vita sia economica: con un libro non diventi ricca ma qualsiasi ricavo l’ho condiviso con lui proprio per far sì che la nostra storia diventasse qualcosa di nuovo per entrambi, fonte un po’ anche di orgoglio.
Qual è stata la parte del libro più difficile da scrivere?
Il finale, proprio perché è la parte più recente nel tempo, quella in cui racconto la morte di mia madre e il trasloco con mio fratello. È stata molto più difficile della parte legata all’infanzia, ai ricordi, alle botte e alle violenze: per quella, avevo già un racconto mio nella mia testa mentre l’altra, quella più recente, dovevo ancora metabolizzarla. E forse non l’ho ancora fatto… è stato veramente complesso: ero in lacrime mentre scrivevo al bar, al Pigneto, con il mio editore che mi chiedeva perché stessi piangendo. Certo, mai tanto quanto registrarne poi l’audiolibro.
Cosa ha rappresentato per te la morte di tua madre?
Era qualcosa che aspettavo da tanti anni come un momento di chiusura di una storia non solo per me ma anche per lei: stava male da tempo… è stata male da sempre, non l’ho mai vista stare bene o felice né prima né quando sono sopravvenute varie malattie. In un certo senso, me l’aspettavo ma non so spiegare come mi sono sentita.