Emanuel Caserio, attore di talento e profonda sensibilità, rappresenta l’esempio di un percorso artistico che va ben oltre il successo immediato. Ogni suo ruolo è impregnato di una ricerca interiore, volta a esplorare le fragilità umane con autenticità e trasparenza. Emanuel Caserio non teme di mostrare le sue insicurezze, anzi, le rende protagoniste del suo viaggio, come testimonia il recente personaggio di Stefano nella serie tv Netflix Inganno. Stefano, lungi dall’essere un antagonista tradizionale, è un uomo mosso dall’amore, dalla paura di perdere ciò che ama e dalla necessità di proteggere chi gli sta a cuore. Emanuel Caserio ha saputo restituire a questo personaggio una profondità emotiva, esplorando il tema della fragilità umana che spesso deriva dalla mancanza di attenzione e affetto.
La recitazione per Emanuel Caserio è stata più di una semplice professione; è stata una via per ritrovarsi e confrontarsi con le proprie vulnerabilità. Sin dall'infanzia, segnata da un'introversione che lo rendeva timido e insicuro, ha trovato nella recitazione uno strumento per far emergere la sua voce, guadagnando fiducia in sé stesso grazie all'approvazione altrui. Questa stessa fragilità, che lo ha accompagnato lungo il percorso, è divenuta una risorsa creativa fondamentale, permettendogli di connettersi intimamente con il pubblico. Il ruolo di Salvatore Amato nella soap Il Paradiso delle Signore, interpretato in maniera straordinaria nonostante le difficoltà possibilmente legate all'accento siciliano, è diventato simbolo di questa sua capacità di mettersi in gioco, aprendosi al cambiamento e sfidando i propri limiti.
Ma la vita di Emanuel Caserio non è stata priva di difficoltà. Le sue lotte personali, come la perdita di un fratello e i lunghi periodi di inattività professionale, lo hanno spinto a confrontarsi con pensieri oscuri e la sensazione di fallimento. In quest’intervista, ci racconta di come la recitazione e il successo improvviso nel 2018, grazie alla serie Rai, lo abbiano aiutato a risollevarsi in un momento di profonda crisi. Il dolore che ha vissuto, sia personale che professionale, ha trovato un riflesso nei ruoli che interpreta, donando una verità e una profondità uniche ai suoi personaggi. Emanuel Caserio non è solo un attore, ma un uomo che sta ancora imparando a far pace con le sue ferite, trasformandole in un elemento di forza e connessione con chi lo osserva sullo schermo.
In un mondo in cui spesso si tende a nascondere le proprie debolezze, Emanuel Caserio ci ricorda quanto sia potente abbracciarle. La sua storia, segnata da momenti di crisi e rinascita, dimostra che la vera forza risiede nella capacità di affrontare e superare le proprie paure. Emanuel Caserio continua a camminare su un sentiero di crescita personale e professionale, e attraverso la sua arte, invita il pubblico a fare lo stesso: ad accettarsi per quello che si è, a riconoscere il valore dell’amore incondizionato e a vedere nella fragilità non un limite ma una fonte inesauribile di ispirazione e autenticità.
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Intervista esclusiva a Emanuel Caserio
“Con Stefano a me interessava creare un antagonista buono”, risponde Emanuel Caserio quando gli si chiede di raccontare il personaggio che interpreta nella serie tv Netflix Inganno. “È lui che si oppone alla coppia formata dalla madre e dal giovane fidanzato ed è l’unico che va fino in fondo portando chi l’ha messo al mondo in tribunale nel processo contro Elia. Tuttavia, non mi interessava restituirlo come il classico cattivo dalla voce bassa e dall’atteggiamento rude: quello che volevo era semmai concentrarmi su un altro aspetto, sulla fragilità che si porta dietro. Tutti noi, a volte, per via della fragilità siamo portati andare contro qualcosa di estremamente puro come l’amore. In fondo, la fragilità spesso deriva proprio dalla mancanza d’amore e di attenzione, da un non ascolto che può sfociare in gesti che appaiono estremi”.
“Stefano porta la madre in tribunale perché comunque così facendo può proteggerla da chi sembra mosso da altre intenzioni”, continua Emanuel Caserio. “Non si rende però conto che in realtà la madre ama realmente quell’uomo, al di là della sua età. L’aspetto bello di una serie tv come Inganno è dato dal voler parlare di amore senza alcun tipo di distinzione, limite o confine: l’amore è amore, senza bisogno di ulteriori connotazioni che lo etichettino”.
“E Stefano è un uomo che ama incondizionatamente.Ama la mamma, ama la moglie, ama la figlia, ama i fratelli e ama l’amico poliziotto. Ma è per amore che cade in tante pecche: è estremamente fragile e, quando lo si è, si rischia di farsi portare dove va il vento”.
Quanto della fragilità di Emanuel c’è in Stefano?
Tanta. Sono una persona che spesso ha bisogno di continue conferme: è un atteggiamento che mi porto dietro da tantissimo tempo. Condivido con lui la passionalità ma anche la costante esigenza di cercare l’approvazione della madre, qualcosa che costantemente facevo anch’io fino a poco tempo fa, prima di iniziare un percorso di terapia. Non mi rendevo conto di quanto fossi in qualche modo ‘succube’ di mia madre subendone il fascino come accade anche a lui. Comprendo bene la gelosia con cui si pone sullo stesso piano del compagno, come il complesso di Edipo insegna.
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Al di là di tale condivisione, ci sono anche tanti altri aspetti di Stefano che fanno pensare a un parallelismo con Emanuel: anche tu hai un fratello (purtroppo scomparso per via di un tumore al rene) e una sorella e, per ovvie ragioni, convivi con un’assenza che è in realtà una forte presenza.
Ai provini, Stefano mi veniva raccontato che era semplicemente l’antagonista che doveva agire contro la madre, il solito cattivo che mette i bastoni tra le ruote all’eroina. Quando poi ho letto la sceneggiatura, ho capito le motivazioni delle sue azioni e del suo agire per amore, trovando molte similitudini non solo con me ma anche con il mio passato e a ciò che ho vissuto.
Mi sono rivisto totalmente in lui, in alcune sue frasi e persino nel suo pianto. Ho inevitabilmente pensato alla perdita di mio fratello e a tutta un’altra serie di elementi che mi sembravano messi lì appositamente. Tanto che inizialmente mi sono anche convinto di essere stato scelto non perché avessi fatto un buon provino ma per via di quel dolore che un po’ traspare dai miei occhi per averlo conosciuto in prima persona: come se, guardandoli, si capisse già quanto avessimo in comune io e il personaggio.
Hai mai temuto che rivivere certi sentimenti anche solo per finzione scenica potesse riaccendere tutto quel dolore che avevi messo in un cassetto?
Non sarebbe stato un male, anzi… Sono stato male quando abbiamo girato le scene in cui Stefano è in tribunale contro la madre: ho in quel frangente rivissuto emozioni che avevo nascosto anche a me stesso o dimenticato. Purtroppo, quando lo vivi, il dolore sembra eterno ma poi la vita ti porta a lasciarti tutto alle spalle: se così non fosse, saremmo anche tutti più buoni, no? E forse dovrei ringraziare Stefano perché, facendomi rivivere quelle cose, mi ha fatto ritornare in contatto con me stesso e con quel dolore che provavo: a volte fa anche bene farlo.
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Nel 2016 avevi comunque preso parte a una commedia, Forever Young, in cui eri tu stesso a interpretare il ‘toy boy’ della più matura Sabrina Ferilli, andando contro un cliché che, a quanto pare, otto anni dopo persiste ancora.
In quasi dieci anni non è cambiato molto: non abbiamo fatto nessun passo in avanti ma trentamila indietro. Siamo sempre allo stesso punto, quello per cui abbiamo bisogno di etichettare qualcosa per poterlo definire…
…così come da un tuo post Instagram non si sono fatti passi in avanti sul giudizio dettato dall’aspetto fisico: siamo sempre pronti a giudicare ed etichettare chiunque abbiamo davanti partendo dalla loro estetica. Come chi si è preso la briga in pubblico di sottolineare la tua fantomatica non bellezza.
Mi ha colpito come volutamente la signora in questione abbia voluto farlo: ci teneva a dirmi che non ero bello ma al massimo simpatico e che i belli erano altri. L’occasione le è stata data da una mostra legata ai festeggiamenti delle mille puntate della soap di Rai 1 Il Paradiso delle Signore, del cui cast faccio parte. Tra i vari eventi, c’era un incontro tra attori e fan: di fronte ai complimenti di un’altra persona, lei ha espressamente rimarcato quanto fisicamente io non corrispondessi al concetto di ‘bellezza’ condiviso.
Mi sono chiesto e mi chiedo quale fosse l’esigenza che si celasse dietro a un’osservazione così superficiale: avrei accettato qualsiasi commento sulle mie capacità attoriali ma non quello. Mi sono sentito ferito così come mi feriscono ogni forma di arroganza, discriminazione e violenza, verbale o fisica che sia. È da quando sono piccolo che la violenza mi terrorizza e accade ancora oggi. Perché dietro una frase che può sembrare anche banale non ci si interroga su quale bagaglio chi la riceve si porta addosso, sulle fragilità che può avere o sulle vulnerabilità?
Sono una persona che, come tutti ha, le proprie insicurezze. E il corpo è una delle mie, aggravata dal muovermi in un mondo in cui sono tutti fisicati, palestrati e belloni. La signora ha dunque fatto bingo, riportandomi alla mente tutte quelle spigolosità che sono state accentuate dai giudizi che negli anni sono arrivati anche dai provini e dai no ricevuti. Purtroppo, viviamo nell’era di Instagram, quella in cui tutto ciò che è bello va mostrato e tutto ciò che non lo è va filtrato e modificato.
“Vivi la tua vita, liberati”, dice la madre a Stefano a pochi minuti dal finale. Quando hai cominciato a vivere la tua vita?
Aspetto i famosi quarant’anni per cominciare a farlo… Sento di non aver ancora iniziato a viverla: vivo di troppi paletti che mi pongo da solo, giudicandomi per prima. Non ho mai vissuto bene nessuna fase della mia esistenza, né l’adolescenza né l’età adulta, ragione per cui mi dico che forse a quarant’anni arriverà il momento in cui mi sentirò più in pace con me stesso e più centrato. Oggi ancora non ci riesco… ho troppe paure e altrettanti pensieri sul futuro che prendono il sopravvento: sento il carico di una società che mi spaventa e non mi fa vivere serenamente.
Qual è la paura maggiore?
La mancanza di attenzione su ogni cosa: è un mondo che divora il tempo.
Cominci presti a interessarti e avvicinarti alla recitazione.
Ma l’amore per quello che faccio non è nato né durante il mio primo corso di recitazione né dopo il Centro Sperimentale di Cinematografia frequentato. Anzi… è stato dopo il CSC che mi ero del tutto perso: avevo iniziato a lavoravo quando ho subito un lungo stop di due anni. Nessuno che mi cercava o voleva, non arrivavano nemmeno provini da sostenere ed era tutto un’incognita. Ero pronto anche a smettere: avevo deciso di andare a Londra per fare il lavapiatti e imparare nel frattempo l’inglese.
Ho vissuto una fase depressiva, segnata anche da pensieri non proprio piacevoli, quando grazie al provino andato bene per Il Paradiso delle Signore ho ripreso in mano la mia vita. Sembra brutto a dirsi ma è solo quando gli altri credono in te che anche tu cominci a farlo. Sfido chiunque a credere in se stessi quando tutto va male e si è costretti a tirare avanti con pochissimi soldi al mese, a consegnare le pizze (spendendo di benzina più di quanto portavo a casa), ad avere difficoltà anche ad arrivare a fine settimana per il cibo… Nulla intorno a me funzionava e ai problemi economici si aggiungevano anche le situazioni delicate in famiglia e il lutto.
La risposta positiva per il Paradiso mi ha pian piano aiutato a rialzarmi e a credere nuovamente in me.
Era il 2018 e da allora sono passati qualcosa come 820 episodi, se non di più.
Eppure, c’è ancora chi si ostina a definirla soap con un’accezione denigratoria, senza considerare il lavoro che comporta e la palestra formativa che certe produzioni sono. Si dimentica troppo spesso che è in produzioni simili che hanno lavorato grandi attori di oggi, come Alvaro Morte, il Professore della serie tv La Casa di Carta oggi osannato da tutti, che ha mosso i primi passi proprio nella soap Il segreto.
… senza contare poi gli ascolti che tutti i giorni registra vincendo spesso contro la concorrenza. Secondo te, perché il Paradiso piace così tanto al pubblico?
Alla gente a casa arriva in qualche modo la grandissima professionalità che ruota intorno alla serie: c’è ad esempio grandissima cura nel trucco, parrucco e scenografia, ma anche nella scelta del cast, fatto da bravissimi attori in grado di girare anche nove scene al giorno, quasi un film… con le tempiste che abbiamo, si girano 45 minuti di montato al giorno, tantissimo. E in più credo che si percepisca anche l’affiatamento che c’è tra noi attori, diventati ormai un gruppo solido di amici che si vede e frequenta anche oltre il lavoro. E il pubblico nota che, al di là della macchina da presa, c’è qualcosa di sincero: chi è a casa è molto più intelligente di come viene descritto.
Nel Paradiso, interpreti il siciliano Salvatore Amato in maniera credibile, nonostante tu sia originario di Latina.
Come accennavo prima, il provino è arrivato mentre lavoravo come cameriere e con me lavorava anche una ragazza siciliana. Avevo già perso un bel po’ di provini, ero demoralizzato e avevo persino detto alla mia agente che forse era inutile presentarmi dal momento che cercavano un siciliano. Ma la mia agente ha insistito: “se va male, parti per Londra e fai come vuoi”. Consideravo dunque quell’occasione la mia ultima spiaggia e ho chiesto alla mia collega di aiutarmi a preparare l’accento. Ci siamo quindi dedicati notte e giorno allo studio e il mio copione sembrava quasi una cartina geografica, pieno di segni e accenti sulle vocali aperte. È stato sì difficile ma forse in quel caso ho creduto in me stesso.
“Anziché morire di delusione, meglio un inganno che dia la vita”, dice del resto Monica Guerritore sul finale di Inganno…
È una grande verità. Viviamo in un’epoca in cui ci viene richiesto di sopravvivere, di andare sempre avanti e di non fermarci. La società corre e non sono previste soste per fermarsi a pensare a qual è la cosa giusta da fare. E, quindi, sì: ci inganniamo per andare avanti, per fare felici noi stessi e vivere un attimo di gioia, anche facendo ciò che non ci vuole.
La depressione che citavi è spesso descritta come un inganno. Ti rendevi conto di soffrirne mentre la vivevi?
No, pensavo semplicemente di essere triste, una persona che passava dalla mattina alla sera a piangere sul divano, a non desiderare più nulla e a pensare di non concludere mai nulla nella vita. Non vedevo più gente e non uscivo: non contavano nemmeno le belle parole o la pacca sulla spalla che potevo ricevere da un amico. Non sentivo più stimoli e non avevo fame ma non la chiamavo ‘depressione’ fino a quando non ho realizzato che occorreva mettere un punto a quello stato, andando anche in terapia.
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Inganno: le foto della serie tv
1 / 38Cosa ti ha poi permesso di scoprire la recitazione su te stesso?
La recitazione mi ha permesso di poter dire finalmente la mia. Sono stato un adolescente particolarmente introverso: a scuola, quando arrivava la ricreazione, era per me l’inferno. Sarebbe stato quello il momento per chiacchierare, scherzare e aggregarci, ma per me era una condanna. Spesso stavo al margine della classe, vicino al muro, in silenzio fino a quando qualcun altro dei miei compagni non si avvicinava. Non avevo la forza per far sentire la mia voce e, per via di qualche chilo in più, venivo anche preso in giro: non proprio bullizzato ma comunque oggetto di commenti liberi da parte degli altri.
Grazie alla recitazione, ho realizzato che anch’io potevo far qualcosa e ricevere per quella la mia dose di complimenti. I primi ‘bravo’ mi hanno permesso di fiorire e di sentire che anch’io potevo valere qualcosa.
Cos’è che fa sorridere Emanuel Caserio?
I gesti di gentilezza. A molti può sembrare una sciocchezza ma sorrido di fronte al cioccolatino posto accanto al caffè… ogni piccolo gesto di gentilezza mi fa sperare che non tutto è perduto, che forse possiamo salvarci da questi tempi feroci in cui ognuno pensa a se stesso.
E mi fanno sorridere in tal senso tutti i volontari che negli ospedali pensano al bene altrui. Per via della malattia di mio fratello, ho conosciuto tutte quelle persone che, non pagate, sono accanto in ospedale ai bambini che soffrono. Ancora oggi sono in contatto con l’associazione Peter Pan, la stessa che ha aiutato mio fratello e che mi fa dire “Guarda quanta bellezza c’è ancora intorno”.
Ha l’esperienza di tuo fratello in qualche modo messo in discussione il tuo desiderio di genitorialità?
Non so se sarei la persona adatta a essere padre. Mi ha colpito molto ciò che è successo della mia famiglia e conosco tutto il dolore che hanno provato i miei. Non so se avrei mai la forza necessaria a superarlo… La fotografia di quel dolore è ancora così nitida che mi spaventa diventare genitore e non voglio nemmeno pensare all’ipotesi: mi sento ancora troppo figlio e devo ancora lavorare su me stesso per evitare di riversare su un mio figlio le mie agonie e le mie paure. Si può diventare padri solo quando ci si sente un mezzo supereroe, cosa che non succede mai dato che nasciamo tutti fragili.