Emanuela Mascherini su una cosa è certa: occorre continuare a fare rumore per combattere la violenza contro le donne. Il suo augurio è che quanto visto a Roma sabato 25 novembre non si riveli un episodio isolato ma che sia il primo passo verso un cambiamento epocale a cui siamo chiamati tutti, non solo le nuove generazioni ma anche le vecchie, quelle in cui negli anni di sono sedimentate abitudini a prima vista innocenti ma che nascondono segni di patriarcato anche tra le fila delle donne.
L’occasione per parlare con Emanuela Mascherini ce la dà l’uscita nelle sale di un piccolo film indipendente, Doppia coppia, diretto da Igor Biddau. Qui, tra atmosfere leggere che non hanno altro scopo che quello di intrattenere e instillare qualche domanda, Emanuela Mascherini interpreta il ruolo di Fernanda, una guida trekking che, con la complicità dell’amico Vincenzo (Stefano Manca), prova a sistemare una coppia di amici, la “ninfomane” Anna (Maria Celeste Sellitto) e il “vergine” Tonino (Michele Manca), solo per scoprirsi innamorata di un bello addormentato che da vent’anni è al suo fianco.
Regista tra le più promettenti in Italia, scrittrice e attrice, Emanuela Mascherini è un fiume di comicità. Contiene moltitudini, come direbbe qualcun altro, e lo si evince da come racconta, fuori dall’intervista, del suo cane o della sua quotidianità, nonostante alle spalle abbia vent’anni di vita che, mai raccontati, confluiscono nelle opere che scrive e dirige.
Di cliché e pregiudizi, però, Emanuela Mascherini ne ha conosciuti. Lei stessa ha ad esempio rischiato di non girare il film Doppia coppia proprio perché, secondo quei bias tanto condivisi, non si vedeva nei panni della principessa azzurra. Cosa sia una principessa azzurra è la stessa Emanuela Mascherini a raccontarcelo: basta ascoltarla. O leggerla, in questo caso.
Intervista esclusiva a Emanuela Mascherini
In Doppia coppia, il film di Igor Biddau appena approdato nelle sale, interpreti Fernanda, una principessa azzurra che rompe i cliché: non solo si salva da sola ma salva anche l’altro…
…per la prima volta in una fiaba è lei a fare una proposta a lui e non viceversa (ride, ndr). Fernanda è colei che muove le fila non soltanto della propria esistenza ma anche di quella degli altri personaggi. Nel raccontare la storia mi piace citare sempre un film d’autore che tratta molto di sentimenti, ovvero Dieci inverni di Valerio Mieli: in quel caso, i protagonisti impiegano dieci inverni per avvinarsi mentre nel nostro venti primavere! Fernanda e Vincenzo si conoscono da una vita, sono amici storici e niente lascerebbe pensare che tra i due possa nascere qualcosa ma, ovviamente, la storia prende una piega ben differente.
Di cliché in cliché da scardinare, la mia principessa non ha i capelli biondi, non ha gli azzurri, non è altissima, non è bellissima e non è tanto delicata, basti pensare che risveglia il suo “bello addormentato” con un discreto schiaffo, assolutamente vero e neorealista.
La tua principessa ha finalmente una sua unicità.
Viviamo in un’epoca in cui si parla tanto di inclusività ma poi il cinema tende a raccontare le principesse come rispondenti a un solo canone imperante dimenticando che ognuno di noi può essere una principessa, tra cui anch’io. Si parla tanto di body positivity ma ho come l’impressione che siano soltanto parole… Io stessa, a un certo punto, volevo quasi rinunciare al progetto perché non mi sentivo abbastanza principessa, abbastanza giusta, abbastanza alta, abbastanza bella, ma una mattina mi sono alzata e, scendendo per strada, mi sono resa conto che se avessi rifiutato avrei tradito tutte le persone che incontro al bar o al supermercato e anche me stessa.
Nonostante i canoni che ci impongono, siamo tutti e tutte principi e principesse della propria esistenza: ognuno di noi, con la propria fragilità, insicurezza e indecisione, si salva la vita da solo e non esiste una legge che stabilisca chi è degno d’amore o no. ed è questa la ragione che mi ha spinto ad accettare il ruolo di Fernanda: chiunque di noi ha bisogno di riconoscersi in un racconto e di sentirsi accettato.
Oltre all’unicità fisica, Fernanda è una principessa che è caratterizzata anche da una forte imperfezione caratteriale. Spesso le principesse nei racconti sono raccontate solo attraverso i loro pregi e mai attraverso i loro difetti.
Fernanda annovera tutta una serie di difetti che mi appartengono e che appartengono a tutti noi. Li definirei tratti e qualità uniche. Dietro alla sua unicità c’è un tentativo di perfezionismo che non si rispecchia nei suoi modi strambi e goffi o nelle sue scelte: il suo voler essere perfetta si tradisce da solo. Ben restituisce una caratteristica estremamente femminile e non solo dettata da un’epoca in cui c’è una sorta di dittatura della perfezione, senza la quale le ditte produttrici di creme antirughe, i corsi di coaching e quant’altro andrebbero in crisi.
Attraverso la sua apparente perfezione Fernanda maschera la sua vulnerabilità e le sue fragilità. C’è una battuta che si sofferma in particolar modo sulla “data di scadenza” di noi donne, la si trova sui titoli di coda ed è stata decisa improvvisando proprio per evidenziare come la pressione che si esercita sul corpo femminile sia sempre costante e purtroppo attuale.
Sei nel tuo caso riuscita a scrollarti di dosso le pressioni?
Sono nata già anziana e, quindi, potevo solo migliorare e ringiovanire (ride, ndr). Quando mi sono ritrovata a frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia (che mi ha cambiato la vita e permesso di fare questo lavoro da professionista), ero in classe con altre ragazze che non erano così formose come me. Avevo già dei tratti da donna, anche abbastanza matura ed ero anche estremamente seria. All’interno della scuola, si sperimentava molto per capire quale tipologia di personaggio si avvicinasse o meno a te e capitava spesso che a me toccassero in sorte i ruoli da donna molto più adulta dell’età che avevo.
Il mio corpo è stato in qualche modo una condanna di cui mi sono liberata uscendo da quel contesto. Affrontando il mondo del lavoro, sono tornata indietro, interpretando anche i ruoli della diciottenne: più cresco anagraficamente, più diventavo io più leggera in senso calviniano, mettendo da parte quel percorso di vita molto pesante che avevo affrontato dagli zero ai vent’anni. In qualche modo, mi sono scrollata di dosso il ricatto dell’età, spesso messo in atto per incasellarci senza mai scadere nell’immaturità emotiva.
Cosa è accaduto dagli zero ai vent’anni?
La vita con me ha colpito duro ma non ho mai raccontato i dettagli del perché. Farlo mi sembrerebbe come una scorciatoia facile per creare empatia. Per tuo sommo dispiacere, non lo farò nemmeno oggi ma posso assicurarti che ho vissuto in breve tempo ciò che una persona X magari incontro nell’arco di un’intera esistenza. È stato solo quando a vent’anni mi sono trasferita a Roma per frequentare il CSC che è partito per me un altro capitolo del tutto nuovo, attraverso il quale cerco di veicolare il vissuto attraverso il mio lavoro: ciò che non riesco a fare da attrice, lo faccio da autrice.
È anche uno dei motivi per cui ho iniziato a scrivere presto e per cui scrivo ancora: ho dei tempi di elaborazione abbastanza lunghi (il cortometraggio che ho presentato a Giovani Autori Italiani a Venezia nel 2018 era ad esempio l’elaborazione della morte di mio padre, successa nel 1998!).
Ho lasciato il mio paese, Poggio a Caiano, in Toscana, perché era chiaramente un luogo periferico, ma non ho mai tagliato definitivamente i ponti, anzi… insieme a Stefano Amadio, direttore di Cinemaitaliano.info, abbiamo creato lì un Festival di Cinema d’Autore con l’obiettivo di riportare proprio il cinema d’autore in territori decentrati in cui mai arriverebbe. L’obiettivo è quello di fare incontrare autori che sono stati con le loro opere in contesti prestigiosi con i ragazzi e gli studenti del luogo proprio perché volevo che a una piccola Emanuela che sta crescendo adesso venisse data quell’opportunità che non ho avuto io senza necessariamente dover scappare via.
Quando la piccola Emanuela Mascherini ha subito la fascinazione del cinema e della recitazione?
Nonostante non sembri, da piccola avevo un’indole che era del tutto sconsigliante per intraprendere il lavoro di attrice. Ero talmente timida che non ce le facevo nemmeno a chiedere il giornale all’edicolante o alla maestra di andare in bagno. La mia era una timidezza quasi esasperante ma all’oratorio, tra i nove e gli undici anni, non ricordo bene esattamente quando, mi hanno scelta per interpretare la Fata Turchina in una rappresentazione di Pinocchio (con protagonista un’altra bambina nel ruolo del burattino).
Ho trascorso giorni e notti a imparare la parte e prima di entrare in scena pensavo persino di morire. Una volta sul palco, invece, mi si è spalancato un mondo: hanno quasi dovuto tirarmi giù per farmi scendere. Ho provato in quell’attimo una sensazione di evasione pura, rispetto a quello che stavo personalmente vivendo: un’ora d’aria in cui avevo la possibilità di abitare la vita di qualcun altro e soprattutto di poterlo controllare, cosa che invece non potevo fare nella vita vera.
Questa è stata la mia primissima volta da attrice ma non la prima che mi esibivo in pubblico. Ho anche un passato da bambina pianista. Il momento in cui ho deciso che avrei fatto solo l’attrice si intreccia con il pianoforte. Studiavo piano già da qualche anno con risultati un po’ altalenanti: stare otto ore seduta a far un’attività era qualcosa che mi incuteva e mi incute tuttora pesantezza.
Al primo concerto con la mia famiglia presente, ero inchiodata alla sedia del pianoforte per eseguire all’aria aperta un bellissimo pezzo di Bach. Avevo persino una persona addetta a girarmi le pagine dello spartito quando è arrivata una folata di vento a sparigliare tutti i fogli. Chi girava le pagine non ha mai più ritrovato il segno e mi sono ritrovata a seguire la memoria del mio corpo per arrivare alla fine del concerto. Ho pianto dopo per due giorni di fila ma è stato quell’evento a farmi decidere che da quel momento in poi lo strumento della mia arte sarebbe stato addosso a me e non più fuori da me. Fortunatamente, non sono arrivata a odiare la musica, che reputo al pari di un personaggio dei film che dirigo.
Perché, appunto, oltre che attrice sei anche regista. Il tuo nuovo cortometraggio di intitola Alba blu e affronta un tema molto caldo, la violenza contro le donne, di cui in questi giorni, complice la cronaca, si parla giustamente tanto.
Mi occupo del tema con un coinvolgimento molto personale: tutto ciò che ho realizzato finora ruota intorno all’entità femminile e alle differenze di genere. Per la prima volta, affronto il tema della violenza con un cortometraggio prodotto con il contributo del Ministero della Cultura. Per evitare di raccontare qualcosa di già visto o di tornare su passi già fatti, ho cercato di lavorare sui segni che la violenza lascia nella psiche, oltre che sul corpo, altrettanto indelebili. La protagonista si chiude in una gabbia emotiva dopo aver subito un episodio di violenza che è una ricostruzione della casetta che Buster Keaton ha usato nel cortometraggio One Week (Saltarello e la casa smontabile in italiano, ndr) del 1920.
Lavorando sulla questione da anni e a stretto contatto con associazioni che se ne occupano, ho paura che il rumore di questi giorni si spenga molto presto, anche perché quando tutti urlano non si capisce più di che cosa si sta parlando. Il problema è estremamente complesso e richiede che si mettano in atto azioni chiare, specifiche e mirate. Da persona molto concreta, sono assolutamente d’accordo con chi sostiene che bisogna ripartire dall’educazione. Io stessa insegno nelle scuole di cinema e pongo sempre un’attenzione enorme sulla valorizzazione delle differenze di genere.
Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che oltre a formare le nuove generazioni bisogna portare un cambiamento importante anche negli adulti, uomini e donne che siano, che continuano a perpetuare delle dinamiche di prevaricazione e di violenza sottile di tipo psicologico, economico, sociale, nella vita di tutti i giorni senza nemmeno rendersene conto. Sarebbe inutile educare i ragazzi quando nella quotidianità assistono al replicarsi di dinamiche sbilanciate in casa, dal medico, al bar, dall’avvocato e così via.
Chiaramente, non possiamo pretendere che il cambiamento arrivi dall’oggi al domani: ha bisogno di tempo. Ma se cominciamo oggi forse tra cinquant’anni vediamo i risultati: un cambiamento profondo a livello sociologico richiede sempre un arco di tempo per sedimentarci. L’importante è però lavorarci seriamente perché, come l’attualità ci insegna guardando anche fuori dai nostri confini nazionali, basta poco – anche solo un giorno – per fare dei passi indietro per quanto concerne la condizione femminile.
Doppia coppia: Le foto del film
1 / 13Com’è stato per Doppia coppia interpretare una guida trekking?
Molto divertente. Dopo due anni in cui siamo stati chiusi per la pandemia, avevo io stessa bisogno di ritrovare il contatto con la natura e ritornare all’essenziale. Non avevo mai affrontato un trekking ma da buona “perfezionista” per interpretare il ruolo sono andata a fare un po’ di esperienza sul campo. Ho scoperto così che, proprio per il Covid, i trekking erano diventati una nuova forma di speed dating: non potendo incontrarsi e conoscersi in discoteca o in luoghi al chiuso, le persone hanno cominciato a conoscersi camminando nella natura! Tutto l’aspetto molto poetico del camminare e tutta la filosofia che c’è dietro ha ceduto il passo a una forma di Tinder en plein air, tanto che chi era già accompagnato da qualcun altro spesso rimaneva in silenzio perché non aveva nessuno con cui parlare (ride, ndr).
Come attrice, ti vedremo prossimamente nella serie tv Rai Che classe!, dove interpreti un’insegnante. E come regista?
Sono reduce dalla prestigiosa residenza in Berlinale, dove sono stata con due diversi progetti.
E hai trovato finalmente casa?
È da anni che la cerco. Sono andata a Berlino persino in treno, sentendo chilometro dopo chilometro il senso di allontanamento dalle mie radici e di avvicinamento all’altrove. Associando i luoghi in cui sono cresciuta alla sofferenza che ho vissuto, ho con me costantemente il bisogno di ricerca del non qui. Il bisogno di allontanarsi è stato tale che In classe è il primo progetto in cui recito in toscano, la mia lingua, e che non risponde alla mia esigenza di raccontare un mondo diverso.
Sarà per questo che mi sento come cittadina del mondo con delle case che vivo sempre come se fossero in affitto. È come se continuassi a tenere le mie radici in un vaso… in entrambi i progetti sviluppati alla Berlinale c’è questa ricerca e questo senso di spaesamento.