Emilio Franchini, giovane attore per metà romano e per metà siciliano, è dall’8 febbraio al cinema nel cast del film Runner. Diretto da Nicola Barnaba, prodotto da Camaleo Film e distribuito da Plaion Pictures, Runner è un film che vede come protagonisti Matilde Gioli e Francesco Montanari, al centro di una storia che riporta in sala il cinema d’azione all’italiana. Action thriller realizzato totalmente da maestranze italiane, Runner è un prodotto unico nel suo genere che si ispira alla migliore tradizione dei film d’azione degli anni Ottanta e presenta un finale tanto sorprendente quanto inatteso.
Al centro del film Runner c’è la storia di Lisa (Gioli), una venticinquenne che sogna il cinema sin da quando era bambina. Lavora sui set come runner, considerando quella professione come il punto di partenza per una fulgida carriera. Dietro le quinte della produzione di un film, intreccia però una relazione con Sonja, una star dal passato poco limpido che torna presto a regolare i conti attraverso la figura di un agente dell’Interpol dai loschi intenti (Montanari).
Dal momento in cui Sonja viene assassinata, Lisa è costretta alla fuga non solo per salvarsi dall’accusa di esserne l’assassina ma anche per salvare la propria pelle da un assassino che vorrebbe vederla morta a tutti i costi. In quella che è a tutti gli effetti una caccia senza tregua si inserisce anche il Dario interpretato da Emilio Franchini, un poliziotto che sta dalla parte dei buoni e che tenta di risalire alla verità.
Un po’ come accade per Lisa, anche Emilio Franchini sogna il cinema da quando era bambino, una vocazione a cui ha tardato a rispondere dopo un tentativo che non era andato per il verso giusto. Nella sua vita è entrato poi il calcio ma è arrivato nuovamente quell’istante in cui il set lo ha chiamato, offrendogli quelle risposte a cui, con fede, dentro sé non ha mai rinunciato.
Intervista esclusiva a Emilio Franchini
“In realtà è successo tutto per caso: è vero che da quando sono nato vado tutti gli anni in Sicilia perché ho ancora casa e parenti nella provincia di Messina ma i miei lavori e il mio percorso di formazione con Tony Sperandeo è del tutto casuale”, mi risponde Emilio Franchini quando, durante il solito scambio di convenevoli gli faccio notare che in fondo, guardando il suo curriculum, una certa sicilianità emerge. “Avendo io tali origini e amando la Sicilia era chiaro che dal nostro incontro qualcosa nascesse: Tony la incarna alla perfezione. Ma ciò che è più importante è che tra noi è nata un’amicizia più radicata e più importante che va oltre quello”.
Da giovedì 8 febbraio ti vedremo al cinema in Runner, film in cui recita accanto a Matilde Gioli e Francesco Montanari, nei panni di Dario, uno dei poliziotti buoni della storia.
È stato affascinante interpretare Dario perché si tratta comunque di un ruolo dinamico all’interno di un film che è stato girato tutto di notte. Non ero abituato a girare film action in Italia ma il regista Nicola Barnaba è stato molto bravo nel voler realizzare nel nostro Paese un’opera che ha delle caratteristiche molto americane ma con importanti attori italiani. Runner dimostra che anche in Italia si possono fare die buoni film d’azione se si è bravi.
Se si è bravi e se si è pronti a livello fisico.
Grazie a Dio, ho alle spalle una preparazione fisica notevole grazie allo sport, che mi ha aiutato molto. Nel film, non ho molte battute proprio perché è un lavoro fatto di ‘botta e risposta’ e adrenalina. Mi sono divertito molto, anche perché ho potuto recitare a fianco di Francesco Montanari, un attore che sapevo essere bravissimo: lo ammiravo tanto già da prima, è diventato anche un mio amico ma vederlo sul set è qualcosa di veramente bello. Perché è bravo, molto bravo.
E ti ha divertito il finale, che per ovvie ragioni non spoileriamo ma che offre un punto di vista inaspettato sull’intera vicenda raccontata?
Nicola, il regista, ha voluto inserire un effetto a sorpresa che ha colpito tutti. Del resto, avendo studiato molto in America, mi sento di dire che è una persona che ne capisce di cinema e che idee anche molto originali. Il cinema degli anni Settanta e Ottanta è il suo riferimento, ha voluto omaggiarlo ma allo stesso tempo rinfrescarlo apportando novità ed escamotage narrativi attuali.
Cinema: cos’è per te?
Intanto, è sinonimo di sogno, di amore e di passione. Per me, il cinema vuol dire arte e ti permette di essere eterno. Si rimane per sempre nella mente di chi ti segue, di chi ti ammira, della tua famiglia e anche di te stesso. Si fa cinema per gli altri, certo, ma anche per noi stessi. Non riesco a trovare altra definizione: il cinema è amore.
Tuttavia, non sempre è facile convivere con il sistema cinema, perché è fonte anche di preoccupazioni.
Gli attori viviamo in un costante stato di attesa di provini e di chiamate che arriveranno oppure no. Vorremmo sempre fare ed essere sul set ma non sempre accade. Sono reduce da due ruoli per me importanti, in Runner e in Adagio di Sollima, ma sono anche fermo da due mesi: inevitabilmente subentrano paranoie, paure, ansie, depressioni. Non è semplice il non poter lavorare tutti i giorni: cerchiamo sì nel frattempo di studiare, di migliorare, di tenere il fisico pronto e di avere la mente predisposta al lavoro, ma rispetto ad altri non abbiamo una vita lineare o regolare. Siamo costantemente in balia del caso, per cui occorre essere sempre pronti a livello fisico e psicologico, reagendo ai periodi di fermo. Ma non è semplice.
A cosa ti aggrappi nei momenti in cui non lavori per non soccombere ad ansie e paranoie?
Cerco di reagire grazie allo sport. La Nazionale Attori, fondata da Livio Lozzi nl 1971 e di cui faccio parte, mi aiuta molto: insieme ad alcuni colleghi non solo di Roma ci si allena due volte a settimana. Ma frequento anche le palestre di pugilato, leggo e ascolto musica classica. È grazie a ciò che riesco a deviare il mio pensiero. Tra l’altro, proprio in questo periodo mi sono concentrato su un ulteriore obiettivo: sto cercando di aprire un locale, qualcosa di alternativo per avere un’altra dimensione con cui relazionarmi dove spero di coinvolgere i miei colleghi amici. Non si tratta di un sostituto al cinema: in cuor mio, mi auguro che le due cose possa procedere di pari passo e che non entrino in rotta di collisione.
Runner: Le foto del film
1 / 10Da un rapido sguardo ai tuoi social, emerge anche una certa fede.
La fede è, secondo me, qualcosa che si ha dentro sin dalla nascita. Mi accompagna sin da quando sono piccolo e mi ha sempre tenuto compagnia durante il mio tragitto: non si è mai esaurita e credo che mai avverrà perché mi aiuta tantissimo. Non nascondo di pregare tutti i giorni: mi aiuta a star bene, a pensare, a rialzarmi e a vivere pienamente i momenti di felicità. Non vi faccio riferimento solo durante i periodi di debolezza ma anche in quelli di serenità. Così mi hanno insegnato a fare e così insegnerò anche a mio figlio: ringrazio Dio tutti i giorni prima di tutto per il cibo e la salute e dopo per tutto il resto.
Te lo hanno insegnato i tuoi genitori?
Sì ma non solo. Ho conosciuto e conosco tante persone in grado di trasmettere insegnamenti. Ma rimango però convinto di un dato di fatto: la fede è qualcosa di molto personale, devi averla dentro per crederci.
Sei padre di un bambino: è cambiato il tuo punto di vista sulla genitorialità da quando non sei più solo figlio?
Il cambiamento è naturale ma nel mio caso non è stato eccessivo. Non sono cambiato moltissimo perché sono cresciuto con due sorelle molto più piccole di me che hanno contribuito al mio senso di responsabilità, di paternità e di protezione. Avevo sempre sognato di diventare papà in giovane età: quello che è cambiato è il fatto di non dover pensare solo a me stesso ma anche a mio figlio. Non dico che sia facile ma cerco ogni giorno di imparare, non si smettere mai di farlo, a essere un padre migliore. Da ragazzino, mi capitava di arrabbiarmi con mio padre o con mia madre perché non capivo certi loro comportamenti, oggi invece riesco a comprenderli in pieno: quando un genitore ti dice qualcosa all’apparenza di non bello è solo per farti capire quale sia la strada giusta da prendere.
Quanti anni avevi quando hai capito che la recitazione sarebbe stata la strada giusta per te?
Ho iniziato da molto piccolo a cimentarmi con la recitazione: studiavo e mi divertivo a casa con le mie piccole prove. Sin da bambino, cercavo di far sorridere gli altri, anche con i miei travestimenti: quando tutti sembravano vergognarsi, io avevo la mia bella faccia tosta e sentivo il bisogno attraverso il mio ‘gioco’ di dare felicità non solo agli altri ma anche a me stesso.
Tuttavia, dopo che a 18 anni avevo fatto delle piccole comparse e avevo preso parte a delle pubblicità, avevo lasciato perdere. Ma come tutti i fuochi accesi e mai spenti la passione ha ripreso vigore a 29 anni: la proposta di alcuni ruoli anche importanti mi ha spinto a riflettere che forse quella del calcio, che avevo nel frattempo intrapreso, non era la strada del mio futuro.
Anche il calcio, comunque, sembra essere una tua grande passione.
Il pallone mi ha sempre accompagnato. Sono cresciuto un po’ con i miei nonni e un po’ con i miei genitori ma conservo dei ricordi bellissimi della mia infanzia: si stava sempre in mezzo alla strada a giocare a calcio o a tutti gli altri giochi che era possibile fare in compagnia. Ho anche girato molto da bambino per via del lavoro dei miei genitori: alcune volte stavo con i nonni mentre altre seguivo i miei genitori, cambiando diverse scuole, conoscendo tanta gente e relazionandomi con molte scuole calcio. Se vogliamo, da piccolo ho avuto una vita abbastanza zingaresca…
E hai trovato stabilità oggi?
Quelli come me, non la troveranno mai: in fondo, ci piace essere un po’ nomadi e sentire l’adrenalina che comporta.
Il calcio a livello professionale, invece, ti manca?
Tantissimo. Grazie alla Nazionale Attori cerco di sopperire la mancanza: ci ritroviamo per fare del bene a persone meno fortunate di noi a calpestare prati di stadi importanti. Ma, se tornassi indietro, forse dedicherei un po’ più di testa e anche di corpo al calcio. Quando da piccolo mi chiedevano cosa volessi diventare da grande, la risposta era sempre la stessa: il calciatore. Studiavo, andavo a scuola ma non vedevo l’ora che finissero le lezioni per andare agli allenamenti: rappresentava il fulcro centrale della mia vita.
Tuttavia, tornare a recitare a 29 anni non deve essere stato semplice. Si è in quella fase di vita per cui non sei né un adolescente né un uomo maturo.
Fortunatamente, mi ha aiutato il fatto di non dimostrare realmente la mia età. Ancora oggi che di anni ne ho 33, mi dicono che ne ho dimostro molti meno: volendo, potrei ancora interpretare un ruolo da ragazzo… Tuttavia, l’essere in un’età di mezzo complica inevitabilmente il percorso: si fa più fatica perché, per uno strano scherzo del destino, i volti più ricercati sono quelli dei ventenni o dei quarantenni e cinquantenni. I trentenni non sono presi molto in considerazione per il loro non essere né uomini né ragazzi ma ciò non mi ha fatto demordere.
Da persona che è sempre andata contro le regole prestabilite, quando voglio qualcosa cerco di ottenerla. Questo non vuol dire accettare tutto ciò che viene proposto: scelgo di fare anche meno cose rispetto a quelle che potrei ma provo a farle bene. Alla quantità preferisco la qualità.
E come reagisci a un provino che non va come ti aspetti?
Un attore deve essere consapevole che un provino può andare bene oppure no. Chiaramente, se si tratta di un provino per una produzione che reputi possa cambiarti la vita o per un progetto che consideri da sogno, non puoi non rimanerci male. Essendo la concorrenza alta, sono però consapevole di come ci siano tanti altri colleghi che come me vivano lo stesso sogno e si allenino per lo stesso risultato: se non vengo scelto, vuol semplicemente dire che c’è stato uno più bravo e convincente di me.
Il calcio è un gioco di squadra: tutti insieme, si provvede allo stesso risultato pur consapevole ognuno del ruolo che si ha in campo. Vale lo stesso per il cinema?
No, molto sinceramente non è la stessa cosa. Il cinema è molto più simile al pugilato che al calcio. Ricordo ancora i primi set quando, dopo che il regista dava l’azione, sul set c’erano persone che ti strattonavano o davano spallate per mettersi di fronte alla camera e guadagnarsi in qualche modo la scena a discapito di altri. La concorrenza si sente molto: vince e rimane impresso chi è più presente o si vede maggiormente.
E quando hai poca esperienza è più facile che gli altri si comportino così: oggi è più difficile che mi capiti qualcuno che voglia mettersi davanti. Non perché abbia imparato a difendermi fisicamente ma semplicemente perché ho imparato a capire dove sono le camere, quali sono i primi piani e come muovermi su un set. E in questo Tony Sperandeo è stato un grande maestro.
Come grande maestro sarà stato Stefano Sollima su un set maestoso come quello di Adagio.
È stato come fare il provino con il Real Madrid: non puoi sbagliare e, soprattutto, devi essere pronto… non sai se ci saranno altre occasioni e non ti puoi permettere minimamente di sbagliare. Ho studiato molto per quel ruolo e sono arrivato molto preparato alle riprese per avere la fortuna di ammirare al lavoro un maestro come Sollima, uno dei pochi che ha un modo di lavorare come gli americani.
È stato come fare gol o come parare un calcio di rigore?
Un progetto come Adagio è come fare gol. Giocavo da seconda punta e la risposta non potrebbe non essere diversa.