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Enzo d’Alò: “Racconto storie che emozionano me per primo” – Intervista esclusiva

Enzo d'Alò
Ospite del Tuscia Festival, il regista Enzo d’Alò continua con la sua animazione a farsi strada nei cuori degli spettatori grazie alla sua universalità e alla profondità dei temi trattati. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per un viaggio tra i meandri delle sue creazioni e della sua arte.
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Dopo aver ospitato Riccardo Milani, Il Tuscia Film Festival si appresta ad avere il 18 luglio un altro grande nome di richiamo della cinematografia internazionale: Enzo d’Alò. Con all’attivo sette lungometraggi d’animazione, il regista napoletano accompagnerà la proiezione del suo ultimo lavoro, Mary e lo spirito di mezzanotte, presentato con successo in numerosi festival del mondo dopo la premiere internazionale alla Berlinale dello scorso anno.

L'opera di Enzo d'Alò è considerata fondamentale per il panorama del cinema d'animazione italiano e internazionale per diversi motivi. Innanzitutto, per la capacità di narrare storie profonde e coinvolgenti: i film di d'Alò affrontano temi universali con grande sensibilità e profondità, sapendo emozionare e coinvolgere spettatori di tutte le età, in un continuo tramandarsi che fa sì che i bambini di un tempo diventati adulti portino i loro figli a vedere le opere di un regista che li ha emozionati con sincerità.

Ma anche per lo stile visivo unico e riconoscibile: le sue animazioni si distinguono per un tratto delicato e raffinato, che unisce tradizione e innovazione. Così come per il valore educativo e formativo: non c’è film di Enzo d'Alò che non trasmetta valori importanti come l'amicizia, il rispetto per la diversità, la tutela dell'ambiente e l'importanza dei sogni. Tanto che a oggi non si contano più i riconoscimenti internazionali ricevuti dal lavoro di d’Alò, che ha contribuito a diffondere il cinema d'animazione italiano nel mondo.

Enzo d'Alò rappresenta una figura di riferimento nel cinema d'animazione, capace di creare opere poetiche e profonde che hanno conquistato il cuore di pubblico e critica. I suoi film sono un patrimonio prezioso per la cultura italiana e internazionale, e continuano ad ispirare nuove generazioni di artisti e spettatori. Ragione per cui un’intervista esclusiva al papà di capolavori come La gabbianella e il gatto o Pinocchio è molto più che una pagina di giornalismo.

Enzo d’Alò, con il suo stile inconfondibile e il suo approccio genuino e appassionato, ci offre infatti una visione affascinante del dietro le quinte della sua ultima creazione e della sua carriera, regalando spunti di riflessione preziosi sul cinema d'animazione e sull'arte della narrazione.

Il regista Enzo d'Alò.
Il regista Enzo d'Alò.

Intervista esclusiva a Enzo d’Alò

“Stiamo correndo molto ma la nostra è una corsa positiva dettata dalla volontà di sostenere il film ovunque ci viene richiesto. Ragione per cui dopo Faenza, abbiamo accettato la proposta del Tuscia Festival, che per la prima volta ospita un mio film”, ci risponde subito Enzo d’Alò quasi a scusarsi dei pochi minuti di ritardo con cui si presenta per quest’intervista su Zoom.

Il film in questione è Mary e lo spirito di mezzanotte, uscito qualche mese fa nelle sale italiane e passato pressoché inosservato. Hai cercato di capirne i motivi?

Sono stati diversi i fattori, non è così semplice arrivare a una conclusione. In primis, i film europei d’animazione stanno affrontando un momento particolarmente critico: salvo casi sporadici, è difficile trovare delle finestre buone per le uscite perché subiamo la concorrenza dei lanci dei prodotti d’oltreoceano, con campagne particolarmente ricche che coprono tutti i media.

Mary e lo spirito di mezzanotte avrebbe potuto di certo avere un lancio migliore e uscire in sala in un periodo migliore, non tra Trolls e Prendi il volo. Con una battuta, neanche i miei collaboratori si è accorto dell’uscita in sala. Ma dall’altro lato c’è anche una certa pigrizia da parte dello spettatore di informarsi, per cui a quel punto chi batte di più la vince. Mi sono io stesso ritrovato ad affrontare situazioni paradossali quando accompagnavo il mio film per le presentazioni nelle multisale, dove mancava persino il trailer o si chiedevano supplementi per proiettarlo.

Di contro, però, chi lo ha visto ci ha sostenuto con generosità e con il passaparola, compresi gli operatori di settore, proprio perché è piaciuto e continua a piacere. Ragione per cui continuo ad accompagnarne il percorso sia nelle arene sia nei vari festival di tutto il mondo che continuano a richiederlo. Le reazioni del pubblico sono sempre estremamente positive a qualsiasi latitudine, anche perché affronta un tema universale che prende e colpisce dai bambini cinesi a quelli irlandesi.

Perché parli solamente di bambini?

Parlo di bambini perché talvolta, per essere ottimisti, il cinema d’animazione viene chiamato “per bambini”, una definizione che sottovaluta il prodotto realizzato e che di per sé è usata in maniera dispregiativa quando invece dovremmo ricordarci che i bambini sono il nostro futuro. Richiede dunque molta più responsabilità realizzarne uno a partire dalla scelta della storia da raccontare per offrire una visione del mondo adatta sia a grandi sia a piccoli.

Ricordiamoci che la funzione dell’animazione è proprio questa: rendere accessibile ai bambini anche un messaggio duro e forse troppo forte, come lo era la morte nel caso di Mary e lo spirito di mezzanotte. Cosa sia duro o forte è molto relativo: nell’affrontare la perdita, ad esempio, le reazioni più distaccate sono state proprio quelle dei più piccoli, incuriositi dalla morte ma non spaventati, forse perché le nuove generazioni hanno cominciato a capire che è qualcosa che non si può scegliere o che accade perché siamo stati distratti.

In merito a ciò, ricorderò sempre le parole di un’assistente spirituale, quelle figure che accompagnano i malati terminali e le loro famiglie fino al distacco, in Israele: “Darei vedere il suo film a tutti per rendere più leggero e positivo il momento: dà speranza”.

La speranza è un elemento che non è mai mancato nei tuoi film.

Sono una persona ottimista e, quindi, anche quando mi rivolgo a un libro per cercare una storia, cerco la speranza. Con i libri ho ormai un rapporto quasi settantennale: ho sempre amato leggere, sin da quando avevo otto anni, e mi hanno sempre emozionato e commosso quei testi in cui mi riconoscevo e in cui ritrovavo le mie stesse vedute. A maggior ragione, da quando ho poi cominciato a fare il regista, la mia positività si deve sposare con quella di una storia: c’è sempre un lato buono in ogni cosa ed è quello che dobbiamo rappresentare anche nelle situazioni più drammatiche.

C’è anche un altro elemento che spero contraddistingua le mie opere: non ci sono personaggi cattivi in senso stretto. Cerco di guardare la storia dal basso, immedesimandomi nei suoi protagonisti e non giudicandoli mai: li ho amati tutti, anche i più “sfigati” o meno buoni. Se avessi odiato o giudicato ad esempio il dottor Scarrafoni di La freccia azzurra, non avrei mai potuto farlo doppiare da Dario Fo, che l’ha colorato e abbellito in maniera deliziosa.

Anche quando i cattivi sembrano tali, cerco di capirne le motivazioni. Pensiamo ai topi di La gabbianella e il gatto: tutto sommato, si muovono in un certo modo perché per colpa dei gatti sono obbligati a vivere nel sottosuolo e a non vedere mai la luce del giorno.

Con i tuoi film, hai cercato anche di raccontare in maniera chiara la diversità e l’inclusione.

Da questo punto di vista, l’esempio migliore è La gabbianella e il gatto, Fortunata stessa è il diverso. In un primo tempo cerca di trasformarsi in gatto per adeguarsi all’ambiente che l’ha accolta ma poi sono i gatti, in particolare Zorba, a spiegarle cos’è l’orgoglio di essere un uccello. Può sembrare un paradosso ma i bambini si rispecchiano spesso nella gabbianella e, quindi, in un diverso, comprendo bene di cosa si stia parlando, a dimostrazione di come l’animazione permetta un processo di identificazione molto più semplice. Se fosse stato un film in live action, quella storia comincerebbe con un bancario milanese che una mattina, aprendo la porta di casa, si ritrova sull’uscio un bambino nero neonato senza sapere che farsene.

Nel finale, inoltre, tutti, adulti e bambini, si commuovono perché abbiamo consapevolmente affrontato un’altra questione importante: nel lasciare Zorba, Fortunata non è solo il diverso che cerca i propri simili ma è anche la metafora del figlio che lascia la casa dei genitori per abbracciare la propria indipendenza. A dimostrazione che, nel lavorare su una sceneggiatura, non si deve mai tradire lo spirito del libro da cui si parte, pur ricucinandone gli elementi principali: per me è fondamentale, ripeto, riconoscersi nelle idee e nel messaggio dell’autore, altrimenti non potrei io per primo emozionarmi e non potrei riportare quelle emozioni dentro la storia.

Lo ripeto spesso ai miei collaboratori: se non vi emozionate voi che a un film state lavorando, non potete pretendere che dopo lo faccia il pubblico… è tutto un passaggio di emozioni, un processo quasi chimico che coinvolge anche la ricerca delle voci dei personaggi: non mi interessano che siano perfette ma che emozionino.

Regola che vale anche per le musiche e per i cantanti a cui chiedi di partecipare ai tuoi lavori?

È la ragione per cui dopo aver finito di lavorare insieme per qualche anno non vogliono più sentirmi (ride, ndr). A differenza di altri registi di cinema dal vero che affidano ai musicisti i loro film in dirittura di arrivo, io li coinvolgo sin dall’inizio proponendo loro la lettura della sceneggiatura e chiedendo loro di darmi dei temi, sui quali gli animatori possono lavorare. Per me, è importante avere la traccia ritmica e la voce che canta: servono per le scene in cui i personaggi ballano o per sincronizzare le labbra sul cantato.

Spesso chiedo anche di cambiare la musica in corso d’opera o cambio il film in funzione della musica. Per La freccia azzurra, ad esempio, avevo chiesto a Paolo Conte un commento stringato di dieci secondi per una scena. Mi ha restituito invece un minuto e mezzo di musica bellissima, di fronte alla quale ho chiamato lo storyboardista e ho chiesto di rivedere la scena stessa.

È importante per me l’interazione con il musicista perché considero le musiche fondamentali. Nei miei film, non sono solo d’accompagnamento ma anche parte integrante e attiva del racconto, arrivando anche a sostituire i dialoghi come è accaduto sul finale di La gabbianella e il gatto, dove basta So volare cantata da Ivana Spagna per dire tutto: non a caso, di fronte alla canzone abbiamo eliminato tutti i dialoghi che avevamo previsto.

A proposito di Ivana Spagna, ti sei preso il rischio di usare la sua voce dopo che per tutti era quella del Re Leone della Disney.

Ivana aveva la voce adatta per quelle canzoni, non facili da cantare. Ha creduto nel progetto sin da subito, ci si è gettata a capofitto e ha accettato anche tutti i consigli che le davo, tanto che ha un approccio completamente diverso da come canta di solito: David Rhodes, il compositore delle musiche, ci aveva dato una canzone originale in inglese con una voce senza troppi vibrati ma con dei bassi e con degli alti che solo un’interprete di grande esperienza e grande estensione vocale avrebbe potuto fare.

Non dimentichiamo che Ivana è una grande artista, forse troppo sottovalutata, e sono contento della scelta fatta: So volare non ha nulla da invidiare a Il cerchio della vita.

Così come Il canto di Kengah, mi permetto di aggiungere. Un pezzo che mi spinge alle lacrime ogni volta che l’ascolto e rivedo la sequenza in cui è inserita.

Ma è giusto anche si associno le immagini che vediamo al cinema agli eventi delle nostre vite: è importante per quel processo di identificazione di cui prima. Il cinema ha un ruolo catartico, per parafrasare ciò che Aristotele diceva del teatro.

C’è una domanda che a questo punto è necessaria: come Enzo d’Alò arriva all’animazione?

Ci arrivo di striscio ma attraverso un percorso di cui mi ritengo fortunato. Dopo essermi formato come sassofonista e aver suonato, cominciai a lavorare sulle colonne sonore dei film d’animazione in un laboratorio di cinema d’animazione del Comune di Torino a stretto contatto con i bambini. Mi affidarono il ruolo di assistente di Lotte Reineger, che teneva un corso di tre settimane.

Ed è stato stando vicino ai bambini che ho capito che dovevo cercare di mantenermi il più neutro possibile per non influenzare la loro creatività: dovevo limitarmi a dare loro semplicemente gli strumenti. Ciò mi ha portato a rendermi conto delle enormi capacità creative che hanno i bambini soprattutto di fascia elementare: non omologandosi, riescono a raccontare storie senza preoccuparsi del finale ma concentrandosi sul percorso dei personaggi, un po’ quello che fa chi scrive viaggi di formazione. Che il percorso sia più importante del punto di arrivo è forse una delle lezioni più grandi che ho appreso dai bambini… complessivamente, direi che ho più imparato che insegnato!

In oltre dieci anni di quell’occupazione, ho capito dei meccanismi comunicativi che ho cercato di applicare quando ho iniziato a far film d’animazione, dopo aver curato delle regie per la Rai di Torino.

Erano quelli i giovani bambini di quarant’anni fa…

Oggi si ragiona in maniera diversa: mi piacerebbe rinfrescare tutte le mie memorie lavorando ancora con i bambini. Sarebbe ad esempio importante raccontare nelle scuole cos’è il cinema e cos’è l’animazione: nasce da lì tutta quella mancanza di cultura cinematografica che riscontriamo oggi e che influisce anche sui modi di fruire del cinema stesso.

Adesso è diventato persino difficile far uscire i ragazzi dalle scuole per portarli al cinema: si proiettano dvd ma non è la stessa cosa… la sala cinematografica è qualcosa di magico: è lì che il rito si deve svolgere e deve essere compiuto in un certo modo. Non si può fermare un film per un caffè o per una pausa. Non lo si può fare perché occorre concentrarsi sulla storia e il buio attorno, in tal senso, è funzionale.

Ha il digitale cambiato il tuo modo di lavorare?

Uso solo il digitale perché non si fa più nulla sulla carta. Ricorro al 2D e per certi casi al 3D, non ho mai dato a priori una preferenza a una tecnica anziché all’altra ma ho sempre dato la precedenza alla storia e alla sua cifra poetica. Tuttavia, per me è sempre un po’ difficile optare per il 3D, perché mi orienterebbe subito su un iperrealismo che minerebbe la poetica stessa: è questa la ragione per cui mi piace lavorare maggiormente con il 2D, che mi permette di giocare con i vari piani di lettura di un’immagine.

Per fare un buon 3D occorrerebbero, inoltre, molti soldi, altrimenti si rischierebbe di realizzare un’imitazione di serie C di quello americano. E in Italia al momento la situazione è complicata: i produttori preferiscono investire sulle commedie che garantiscono un ritorno rapido anziché investire su un progetto che ha bisogno anche di tre anni per essere pronto. Al momento, quindi, i soldi per la produzione potrebbero arrivare dai contributi pubblici ma, anche in questo caso, si apre una parentesi lunghissima. Gli ultimi bandi sono molto ristrettivi nei confronti dell’animazione, sebbene tutti sostengano a parole che bisogna far crescere il cinema d’animazione italiano.

Ci sarebbero le piattaforme, no?

Facciamo l’esempio di Netflix: non mi risulta che compri film d’animazione europei. Le piattaforme sono più interessate alla produzione e al pieno controllo di tutto, esasperando il modello americano. Per loro, il regista a volte diventa solo un tecnico che cura la messa in scena e che deve attenersi in maniera scrupolosa a uno storyboard già predefinito. Non stupisce come a volte capitino anche situazioni incresciose in cui si abbandoni la produzione e le società di animazione stesse, portandole in taluni casi al fallimento.

Il problema, comunque, di fondo rimane sempre lo stesso: c’è da tutte le parti una certa chiusura all’animazione. Se penso alla Rai (a differenza di Mediaset), i tre canali principali raramente trasmettono film d’animazione, delegando il compito ai canali tematici, a Rai Gulp o a Rai Yoyo. Ma ciò non ha senso perché la maggior parte del pubblico si sofferma sulle reti maggiori. Ho nel tempo vissuto situazioni paradossali vedendo ad esempio i miei film, costati anni di lavoro, programmati all’una di notte…

Tutto sarebbe superabile se ci fosse un appoggio di altro tipo. Ma la situazione è quella che è: non stupiamoci se chi è capace di fare animazione voli poi all’estero o cambi mestiere. In Italia, siamo rimasti io e pochissimi altri a fare i Don Chisciotte della situazione: è demoralizzante.

Non hai mai avuto la tentazione di dirigere un film in carne e ossa?

Vedremo dove mi porta il cuore…

C’è una storia che avresti voluto raccontare e che per varie ragioni non hai fatto?

Sicuramente mi sarebbe piaciuto raccontare le storie di Gianburrasca, uno dei libri che più ho amato da bambino, ma qualcuno mi ha preceduto. Ma anche Le cronache di Narnia: in tempi non sospetti, lo proposi a un produttore che con molta lungimiranza mi rispose che non avrebbe mai funzionato!

I film di Enzo d'Alò

La freccia azzurra

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La gabbianella e il gatto

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Momo alla conquista del tempo

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Opopomoz

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Pinocchio

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Pipì, Pupù e Rosmarina in Il mistero delle note sparite

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Mary e lo spirito di mezzanotte

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