Dopo due album in lingua inglese e otto anni di attività live in tutta la penisola, Erio ha appena pubblicato il suo primo lavoro in italiano, l’ep Fede (La Tempesta Dischi/Believe). Rivelazione di X-Factor 2021, Erio sta vivendo un momento particolare della sua vita: la sua voce, infatti, arriva in tutto il mondo grazia al film Netflix Era ora, in cui reinterpreta il brano Only You degli Yazoo.
In Fede, ep composto da quattro brani, Erio ci accompagna in un viaggio attraverso temi archetipici come la fede, la speranza, l’attenzione e la testimonianza, con la sua inconfondibile voce e testi che tra velata ironia e intima confessione lasciano intravedere molto dell’uomo che c’è in lui. “Un disco che sembra malinconico ma che in realtà è speranzoso”, sembra volerci assicurare Erio nel corso di quest’intervista in esclusiva.
Intervista che nata, come in questi casi, per scopi promozionali si è trasformata pian piano in un’intima confessione in cui Erio racconta del suo rapporto con la fede ma anche delle sue origini istriane, del sentirsi appartenenti a due diverse identità al non sentirne nessuna. Il concetto di identità ritorna spesso nella nostra conversazione: Erio non ha mai celato la sua omosessualità ed è importante ribadirlo oggi, in un momento storico in cui “a un passo in avanti ne corrispondono tre indietro”.
Nel suo essere volutamente alieno, Erio ci appare molto più terrestre di altri, consapevole di quanto il mondo e la società di oggi viaggino a una strana velocità, confondendo la felicità con il desiderio e rincorrendo un sogno che una volta agguantato ha bisogno di altri sogni.
Intervista esclusiva a Erio
È appena uscito Fede, il tuo ep, contenente per la prima volta ben quattro canzoni in italiano.
La ricerca dell’italiano era qualcosa che avevo in mente sin dall’inizio del mio percorso: pubblicavo in inglese ma sapevo che mi sarebbe piaciuto anche scrivere in italiano. Non mi sentivo, però, abbastanza pronto. Tuttavia, ho cercato già prima della mia partecipazione a X-Factor e nel corso dell’anno successivo di raccogliere più materiale che, composto in italiano, mi soddisfacesse e il risultato è proprio Fede, una rosa di pezzi scelti tra i tanti scritti e prodotti.
Rivedendo ciò a cui ho lavorato, mi sono reso conto che questi quattro brani raccontavano una storia in qualche modo unica e che erano legati da una parola che mi è arrivata in maniera quasi magica: fede… una parola corta, bella e d’impatto, caratterizzato da una forza molto grande soprattutto nel nostro Paese per via della nostra storia profondamente cattolica.
La scelta dell’inglese era dovuta alle tue origini istriane?
Sono cresciuto con i nonni paterni che erano bilingue. Il senso di appartenenza un po’ a un mondo e un po’ a un altro c’è comunque in tutte le persone che crescono in zone di confine: hanno sempre una doppia identità o forse nessuna. I miei nonni, ad esempio, hanno cambiato diverse volte nazionalità: quando hanno deciso di partire per l’Italia, hanno lasciato la loro terra che all’epoca era ancora Jugoslavia. E un destino simile è toccato alla maggior parte dei miei parenti, sparsi in tutto il mondo. Nella mia famiglia c’è sempre stato il mito di essere alieni.
Fede, speranza, attenzione e testimonianza sono i quattro fulcri fondamentali intorno a cui ruotano le quattro canzoni di Fede e in ogni canzone ne affronti uno. In Avere fede, un verso fa riferimento al soffocare i sentimenti. Ti sei mai ritrovato a dover soffocare i tuoi?
È qualcosa che mi è successo di rado. Sono gay e sono nato nel 1985, ci sono stati degli anni in cui più che i sentimenti mi sono ritrovato a soffocare la cornice in cui metterli a livello verbale. Più che i sentimenti, che non si possono soffocare, ho soffocato le azioni.
Che anni sono stati quelli in cui hai dovuto soffocare le tue azioni?
Ho cominciato a fare i conti con la mia identità sessuale durante l’adolescenza, intorno ai 15 anni. Era i primi anni duemila, periodo in cui anche a livello pop si cominciava a parlare anche apertamente dell’omosessualità, almeno all’estero. In Italia, ci ritrovavamo ancora con gli show in televisione in cui c’erano le fazioni dei pro e dei contro. Eravamo bombardati da immagini che creavano confusione e che contribuivano alla colpevolizzazione del gay: l’attenzione si era spostata dalla morale alla scienza, continuando ancora a parlare di deviazioni o di malattie. Non era facile prendere coscienza e dichiarare il proprio orientamento, anche perché una volta fatto non ci si poteva più tirare indietro.
Com’è stato per te dirlo alle persone che ti circondavano?
Sono stato abbastanza fortunato: non ho avuto chissà quale reazione. Ho frequentato l’istituto d’arte, un ambiente molto libero da ogni pregiudizio: sono stati gli amici, anche se con una fattura sessuale ideologica differente, ad aiutarmi a capire chi fossi. Pian piano sono venuti tutti gli altri. Le difficoltà le ho incontrate però quando ho cominciato a instaurare delle relazioni: non sempre tutte erano con persone che erano riuscite ad accettarsi. Capita di imbattersi in persone che siano meno aperte e che devono lavorare ancora su se stesse e, quindi, ci si ritrova coinvolti con qualcuno che sta facendo un percorso differente.
Non dimentichiamo che il mondo ancora oggi non è così tanto neutrale nei confronti dell’omosessuale e si vede benissimo in questo momento storico: a volte si ha l’impressione di fare un passo avanti per poi farne tre indietro. La storia purtroppo ci insegna che, quando le cose vanno male, l’intolleranza prende sempre il sopravvento nei confronti di tutte quelle che sono le minoranze.
Da un punto di vista professionale, la tua omosessualità ti ha mai creato problemi o ha incontrato ostracismi?
Ho cominciato a muovere i primi passi nell’ambiente indie e, quindi, non mi sono mai ritrovato a dover confrontarmi con figure come il manager che cerca di costruire la carriera dandoti consigli anche su come gestire la tua vita privata. Mi sono autogestito per così tanti anni da aver deciso io quanto chiudermi nelle mie canzoni o meno. Il mio orientamento è sempre stato abbastanza evidente nelle interviste anche se, fino a quando non sono stato un personaggio con un minimo di profilo pubblico, nessuno si è mai interessato alla mia vita privata.
Ricordo ancora un episodio del 2015, raccontai in un’intervista di una canzone in cui palesavo l’innamoramento per uno scrittore ma, quando venne pubblicata, tutto venne lasciato nel vago: non credo venne fatto in malafede ma che nascesse in un’ottica forse di protezione nei miei confronti. Io avevo però risposto con nonchalance e in maniera pertinente, come sto facendo adesso con te.
Tra l’altro, quest’intervista non era nemmeno nata per parlare della tua identità sessuale…
A volte pensiamo di essere talmente oltre il pericolo di essere silenziati che evitiamo di parlarne. Invece occorre continuare a farlo anche perché non vige la regola non scritta dell’è diventato normale farlo. Ho conosciuto negli ultimi anni diversi artisti che sono gay ma che non possono rivelarlo per diktat dei loro manager per paura che la loro carriera ne risenta… ed è una cosa terribile: se lo facesse un qualsiasi altro datore di lavoro, si aprirebbero le porte dei tribunali. Se ne parla poco ma anche questa è una forma di violenza psicologica. Mi viene in mente quando negli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Clinton, valeva il “don’t ask, don’ tell”: non è un problema essere gay però non devi dirlo a nessuno.
Spesso quando qualcuno fa coming out, si sente dire che non c’è bisogno di sbandierare la propria sessualità perché “gli etero non lo fanno”. In realtà, lo fanno tutti i giorni e continuamente ma è qualcosa di difficile da far capire se non si vive dal punto di vista di una minoranza. Ecco perché ho deciso che, come qualsiasi eterosessuale parla della sua fidanzata, anch’io posso parlare della mia vita privata: non me ne sto vantando ma neanche vergognando, sto semplicemente raccontando la verità, la normalità di quello che vivo.
In Re di pace canti del sacrificio che si fa nel prendersi cura di una persona amata. Tra i versi, spicca “Sparirò così non dovrai sentirti più in colpa”… un antesignano del ghosting?
No (ride, ndr). In quella canzone parlo di quando una situazione diventa un po’ da difficile da gestire e si scatena un senso di violenza al contrario che porta a lasciare chi si è comportato male nei nostri confronti. Molti pensano che comportarsi bene significhi avere pazienza e lasciare che gli altri possano sentirsi felici. A volte, invece, si tratta solo di metterli in condizione di fare qualcosa che non vorrebbero solo perché non sono in grado di gestire la situazione. Mi piaceva l’idea di creare questa specie di “paradosso”: uno dei due non se ne va per proteggere se stesso dalla “violenza” che subisce ma per proteggere l’altro dal mettere in atto certi comportamenti.
E tu sei mai sparito per proteggere qualcun altro?
Eh, rispetto a quand’ero più giovane, ho imparato ad ascoltare il mio termometro interiore e mi ci vuole molto poco per “sparire” quando la situazione lo richiede. Questo è il danno di crescere e di “invecchiare”. Sono un grande fautore della vecchiaia e della maturità perché tutto diventa più facile per via dell’esperienza accumulata: hai il cerotto per le ferite ma questo non vuol dire che siano meno dolorose.
Si tende a pensare che l’esperienza renda necessariamente insensibili: in verità, serve semplicemente ad ascoltarsi e a vivere momenti sia belli sia brutti. L’esperienza ci insegna che le cose belle tornano sempre e che ci attendono anche delle nuove avventure laddove la nostra vita sia anche solo mediamente felice. Viviamo in un mondo in cui ci sono parecchie condizioni per essere abbastanza felici: le storie che vanno male sono solo un trabocchetto per il domani, bisogna solo aspettare che si faccia il momento. Sono per natura abbastanza ottimista, anche se questo disco suona un po’ malinconico.
Essere felici non direttamente proporzionale con il desiderio egoistico di affermazione, di cui canti in Compagno?
C’è un po’ la trappoletta di scambiare la felicità con il raggiungimento del desiderio, di qualsiasi tipo esso sia e, quindi, compreso quello di affermazione. Ci sono desideri che si esaudiscono in fretta e altri che durano per sempre: voler mangiare un gelato è diverso dal trovare l’amore della propria vita. Anche se ogni cosa perde un po’ di fascino quando la possediamo: io cerco il più possibile da affrancarmi da questa dinamica e di farmi sorprendere da ciò che la vita mi dà. Provo a guidare un po’ meno la barca per lasciarmi andare alle onde.
Mi sono in passato ritrovato a perdere tanto tempo a inseguire dei sogni e dei desideri che, una volta raggiunti, si sono rivelati per quello che erano, sogni appunto, e mi hanno spinto a desiderare qualcos’altro ancora, un sogno successivo. È una concezione molto materialista della vita che fa parte della nostra cultura, soprattutto occidentale, ma questa visione si scontra continuamente con il fatto che poi la vita è molto imprendibile. I concetti di felicità e di tristezza sono molto estremizzati: credo ci sia un problema di eccesso di condizioni che dovrebbero renderti felici ma che poi ti fanno sentire quel vuoto che alle volte portano alla nascita di profonde depressioni… depressioni che diventano anche cronicizzate e che non riescono neanche a far capire perché si è triste.
Si tratta di mettere in atto un bel cambiamento di prospettiva, che è un po’ quello di cui volevo parlare nel mio ep. Abbiamo il potere di cambiare la narrazione: le canzoni parlano di storie “finite male” ma c’è sempre l’altro lato della medaglia, il poter recuperare il proprio benessere.
Compagno è, tra l’altro, la prima canzone che scrivi e produci da solo: è quella della “maturità”?
Tra le canzoni dell’ep, è quella che è arrivata per ultima. Tutta la mia produzione degli ultimi anni è sempre stata frutto di un lavoro di gruppo mentre Compagno ricorda la produzione delle cose che avevo fatto in passato. È nata in maniera quasi artigianale ed è diversa da tutte sia a livello musicale sia a livello testuale, perché non parla di qualcosa di intimo e personale come le altre ma ha una valenza più universale. Si parla del mondo e del senso di speranza, fede e fiducia nel futuro che ci è stato tolto. È anche un po’ più ironica.
Tra dieci anni il mondo finirà… cosa salveresti?
Io non credo che il mondo finirà materialmente. Nella canzone, parlo più altro di un grande sconvolgimento: in maniera un po’ illusa, mi immagino che a un certo punto le cose cambieranno drasticamente in meglio. Dobbiamo quindi prepararci a essere quello che siamo in un mondo diverso e a prendere più in considerazione quello che ci sta intorno. E questo vale per tutto: dall’ambiente alle persone alla giustizia sociale… Se il mondo dovesse finire, ci sarebbe allora da salvare la cura l’uno dell’altro.
L’ep si chiude con Testimone, che trae spunto da un verso biblico (Isaia 43,10). Qual è il tuo rapporto con la religione?
Sono ateo o, meglio, agnostico perché in realtà penso che ci siano delle domande a cui non è possibile trovare una risposta. Ma preferisco dire ateo perché per me Dio ha un po’ la stessa valenza di Babbo Natale: non posso provare l’esistenza o la non esistenza di nessuno dei due. Mi è piaciuto molto nella canzone usare il linguaggio “religioso”: crea un fortissimo contrasto con quello che la gente può pensare di me per via delle mie preferenze sessuali e della mia identità di genere. Era un po’ come reclamare un certo tipo di sensazione spirituale dal momento che non siamo stati invitati alla festa: ci vanno solo i buoni mentre noi che siamo i cattivi a priori, anche se ci comportiamo benissimo, andiamo altrove.
Ho usato il linguaggio religioso cristiano per parlare in verità di cose molto laiche, spinto dal desiderio di sostituire Dio con una specie di principio astratto di attenzione e di testimonianza l’uno dell’altro. Se vivessimo in un mondo in cui nessuno ci vede, si potrebbe mettere in dubbio persino la nostra esistenza: avere una persona accanto che ti guarda è in qualche modo un atto di creazione e sappiamo di esistere.
In questo momento sei reduce da un’altra esperienza particolare. La tua versione di Only You fa da colonna sonora a Era ora, uno dei film italiani più visti al mondo su Netflix. Cosa si prova a pensare che milioni di persone in diversi angoli del mondo ha ascoltato la tua voce?
È sempre un po’ strano. I social e le piattaforme ci hanno abituati ai numeri ma è difficile capire concretamente cosa significhino, sono semplicemente numeri. È difficile immaginarsi per davvero che qualcuno a Hong Kong stia ascoltando la tua canzone… Molto banalmente mi rendo conto che mi ha dato un grosso aiuto: è sempre più difficile emergere con tutta la proposta che c’è in giro. Qualche anno fa ho avuto la fortuna di entrare a X-Factor, a questo giro mi sta aiutando Era ora e spero che in futuro ci siano altre occasioni! Mi piacerebbe ad esempio lavorare ancora nel mondo del cinema, dove una canzone ha il potere di raccontare tutto un film o di sottolineare una scena centrale.
Cosa ti manca oggi?
Non saprei… tutto e nulla. Qualsiasi cosa arriva, sono disposta a viverla: non riesco a prevedere se sarà positiva o negativa, nella mia vita le cose sono sempre andate anche un po’ rotolando… a volte, piccole sfortune sono diventate grandi fortune! Mi piace ogni tanto ricollegare tutti i punti per dare loro un senso: sono dentro questo meccanismo da quando ero piccolo e da allora di cose ne sono successe. Quindi, non voglio capire cosa mi manca: me ne accorgerò quando arriverà.