Escape to the Roof è un’espressione inglese che si utilizza per indicare una via di fuga. Solitamente, è la scritta che appare sulle indicazioni per le scale antincendio. Se ci volessimo limitare alla sua traduzione letterale, escape to the roof sarebbe fuga dai tetti, un po’ per salvezza un po’ per evasione. Dai tetti, scappavano anche le Occhi di Gatto e Lupin, per esempio.
Tuttavia, il motivo per cui una band di quattro ragazzi scelga Escape to the Roof come nome ci viene raccontato nel corso di quest’intervista da uno dei suoi componenti, G.C. Wells. Inglese, starete pensando. Forse sì, forse no: uno dei tratti più originali del gruppo è infatti l’anonimato. Nessuno sa chi siano realmente gli Escape to the Roof: è una scelta che nasce da esigenze artistiche. Un po’ come scriverebbe Nina Zilli sui suoi profili social, “uscite le canzoni e non la f**a”, più o meno.
Prossimi al primo album (in uscita il 23 gennaio), gli Escape to the Roof hanno finora pubblicato due diversi singoli, Fried Blues Chicken e Still Raining, che sono un po’ il manifesto della loro musica, in bilico tra il moderno e la celebrazione dei rock gods degli anni Settanta.
Intervista esclusiva agli Escape to the Roof (G.C. Wells)
Scegliete di presentarvi nel pieno anonimato con dei nomi di fantasia. A cosa si deve la scelta?
Non è una strategia di marketing. Non lo facciamo per farci dare la caccia e poi finire col sorriso smagliante nel talk show di turno, convinti di aver scoperto l’acqua calda. Lo facciamo semmai perché crediamo fortemente nel gesto artistico: la musica deve essere catalogata come gesto artistico e deve venir prima di qualunque implicazione biografica. Cosa sono alla fine i nomi se non dei sigilli per lapidi? In un panorama in cui l’immagine e il nome sono tutto, la nostra personale rivoluzione è quella di dare centralità alla musica.
E come avete scelto i nomi con cui vi presentate?
Sono i nomignoli che avevamo da ragazzini. G.C. Wells, il mio, è un omaggio a Sergio Leone e al suo cinema. quando uscì Per un pugno di dollari, tutti si firmarono con pseudonimi americani. Lo fecero perché si diceva che gli italiani non potessero fare il western, quando poi fu proprio Leone a insegnare agli americani come farlo. Gian Maria Volonté, che in quel film è assolutamente un dio greco, si firmò come John Wells.
A cosa di deve invece il nome del gruppo, Escape to the Roof?
È un segnale di emergenza che si usa nei paesi anglofoni: in tutti gli edifici pubblici si indica un’uscita di emergenza attraverso i tetti. Ci piaceva il concetto di emergenza ma trovavamo interessante anche la fuga sui tetti: da lì si ha una visione diversa, forse più obiettiva. E poi sui tetti di notte si vedono meglio le stelle!
Avete tutti sui trent’anni ma proponete un rock che si rifà agli anni Settanta.
Assolutamente sì. La nostra è musica legata ai rock gods degli anni Settanta, a quello che era il periodo d’oro del rock e il genere stava in cima alle classifiche. Ma non solo per questa ragione: in un panorama ordinario in cui nessuno suona più uno strumento, noi abbiamo deciso di mettere da parte i suoni digitali per tornare a suonare nuovamente gli strumenti veri e propri. Chi ascolta i nostri primi due singoli, se ne rende conto ma si capirà maggiormente nei pezzi che compongono il nostro primo album, in uscita il 23 gennaio. Ci sarà molto uso dell’elettronica ma è un po’ la nostra cifra: prendiamo ciò che del passato ci piace portarci dietro e lo facciamo sposare con la nostra ricerca stilistica, che comunque ha un sapore molto contemporaneo.
Come sarà composto l’album? Qual è stata la difficoltà maggiore che avete incontrato nel realizzarlo?
Ci saranno dieci tracce. La difficoltà maggiore è legata proprio al suonare gli strumenti. Siamo ormai tutti abituati a produzioni on the box e, quindi, quando si portano in studio gli strumenti veri, un po’ di complicazioni sorgono. La genesi di un album tutto suonato è complessa ma siamo soddisfatti del risultato.
Come farete quando per portare l’album live sarete costretti a spogliarvi dei vostri alter ego artistici?
Non è detto che ci si spogli. Ci sono tante possibilità in realtà. Troveremo sicuramente una soluzione molto creativa per mantenere l’anonimato e allo stesso tempo divertirci: ci piace giocare molto con la fiction, come si dice oggi. Stiamo quindi cercando un escamotage molto divertente per stare sul palco, essere credibili e allo stesso tempo ironici.
Ma almeno i vostri familiari sanno chi siete?
Alcuni sì, altri no. Spesso diciamo di uscire per andare a comprare le sigarette e in realtà andiamo a provare!
Dai nomi e dall’assenza di vostre foto non si capisce però com’è composta la band: tutti ragazzi?
No, c’è una ragazza. Anche noi come i Maneskin, abbiamo una bassista donna, che tra l’altro vive all’estero e milita anche in una famosissima band austriaca di cui non faremo ovviamente il nome!
E come convivono tre ragazzi e una ragazza all’interno dello stesso gruppo?
In maniera molto normale. Ci conosciamo da così tanto tempo che ormai è come se fosse una sorella per noi. Suoniamo insieme da quando eravamo ragazzini. Due di noi si erano poi trasferiti all’estero ma quando ci siamo rivisti non abbiamo avuto dubbi sul rimettere in piedi il progetto: è come se non avessi mai smesso! Abbiamo alle spalle tanta esperienza: abbiamo fatto di tutto, dalla musica classica alle colonne sonore dei film. Ma saprete presto quali sono le nostre “biografie”: a poco a poco, compariranno sul nostro sito ufficiale delle biografie che giocano parecchio su chi siamo. Prenderanno spunto dalle nostre reali vite ma chiaramente ci abbiamo ricamato sopra.
Quindi, puoi raccontarci almeno chi è G.C. Wells…
La mia caratteristica principale è quella di aver perso la memoria in seguito a un non meglio specificato shock emozionale. Vivo tutte le giornate alla stessa maniera. La prima parte mi serve per ricordare qualcosa o cercare i riferimenti che qualcuno mi ha lasciato il giorno prima per capire chi sono. La seconda parte, invece, mi fa portare avanti tutto con la consapevolezza che l’indomani dovrò ricominciare da capo. Vivo solo l’adesso e basta.
Una realtà molto distopica, direi.
Ma viviamo nel distopico. La realtà molto spesso supera anche la finzione.
Questa dimensione è molto presente anche nel video di Still Raining, il vostro secondo singolo. A realizzarlo è stata l’artista Maria Cangemi. Come nascono i video?
Maria è talmente brava nella sua arte che le basta ascoltare una volta una canzone per coglierne il senso e cominciare a pensare alla sua visione. Chiaramente, c’è sempre un po’ di brainstorming e confronto prima ma la consideriamo fondamentalmente come il quinto componente della band: viaggia sulla nostra stessa frequenza.
Ci spieghi di cosa parlano le due canzoni finora uscite? La classica nota stampa che accompagna i brani è alquanto criptica.
Siamo volutamente criptici. Lasciamo che sia l’ascoltatore, il fruitore dell’opera d’arte, a farsi una sua idea. Stiamo sempre dalla sua parte: il gesto artistico non può essere imboccato. Deve essere il fruitore a fare il suo percorso verso l’opera, ad analizzarla anche in profondità e a sporcarsi le mani per trovarvi ciò che ha seminato l’autore. È un po’ come nel cluedo: l’autore semina i suoi elementi ma anche le sue trappole mentre il fruitore, l’osservatore o l’ascoltatore ha il compito di percorrere la strada al contrario fino a incontrare artisticamente l’autore.
A me da piccolo piacevano tantissimo i poeti ermetici: ognuno di noi poteva dare una lettura emozionale diversa dello stesso autore. Un gesto artistico deve essere così: per diventare arte collettiva, ognuno di noi deve metterci qualcosa per far sì che ogni lettura sia una verità assolutamente attendibile.
Fried Blues Chicken è un brano che parte da una riflessione sulla condizione temporanea dell’uomo: conduce la propria vita a una velocità estrema ma nonostante questo nutre delle aspettative, ha delle aspirazioni. Ma come si fa a conciliare la velocità con ciò che invece ha bisogno di tempo per essere coltivato bene e fatto crescere? Lo spunto della canzone nasce dal famoso esperimento dei superpolli condotto dal biologo nutrizionista americano William Nuir sul processo di miglioramento continuo della specie. Alla fine dell’esperimento, i polli normali erano tutti più che in salute mentre i superpolli erano quasi tutti morti, uccisi a colpi di becco dagli unici tre esemplari superstiti. Quindi, chi vogliamo essere? I polli o i superpolli?
Ma questo è stato soltanto il punto di partenza per la riflessione contenuta nella canzone. Se mi chiedessi chi sono, tra un pollo e un superpollo, ti risponderei “nessuno dei due”. Se avessi sviluppato la coscienza dell’essere un pollo, il mio sogno sarebbe quello di volare come gli altri uccelli! Non capirei perché, pur avendo le ali, non potrei volare.
E qual è invece l’esigenza di Still Raining?
Intanto, è un brano molto, molto intimo. Ed è il resoconto del viaggio di una vita fino al momento presente, in cui si valuta quanta strada si è fatta e come la si è percorsa. Si canta del bisogno di fare silenzio e di spegnere tutti i versi del mondo perché il mondo ha sì un canto sublime ma alle volte anche fastidioso. Il silenzio serve per abbandonarsi alla ricerca della base primordiale, per proiettare all’esterno ogni peso dell’esistenza e per stabilire una nuova prospettiva. È nel silenzio che è possibile ascoltare sommessamente il battito più recondito dell’essere umano, come se fosse il pulsare della terra stessa.
E avete scelto l’inglese come lingua perché fa più rock?
In un certo senso, sì. Al momento usiamo l’inglese ma non è una scelta definitiva. Così come ci piace giocare con la fiction, ci piace anche farlo con la lingua. Nel pensare all’italiano, tutti noi all’unisono storciamo un po’ il naso ma non è detto che non la useremo il futuro. Nessuno di noi sa cosa ci si prospetta: magari il prossimo disco sarà in sardo antico, non possiamo saperlo.
Chi di voi scrive le canzoni?
Siamo tutti portati alla composizione sia di testi sia di musica e intercambiabili, anche se sono io il principale autore dei testi. È come se mi si fosse aperto un portale e da questo uscito fuori un fiume di parole. Ho cominciato a scrivere il giorno in cui abbiamo deciso di dar vita agli Escape to the Roof e da allora non ho mai smesso.