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Esmeralda Calabria: “Racconto un Paese pieno di contraddizioni” – Intervista esclusiva

esmeralda calabria
Parlate a bassa voce è il nuovo film diretto da Esmeralda Calabria. Montatrice tra le più affermate del cinema italiano, Calabria ci racconta il suo documentario e ricorda quanto complicato sia stato per lei svolgere un lavoro che già per via della sua stessa nomenclatura dava origine battute a sfondo sessista.

Tre David di Donatello e un Nastro d’Argento sono soltanto alcuni dei riconoscimenti che Esmeralda Calabria ha vinto come montatrice per il cinema, un mestiere che ha cominciato a svolgere quando ancora le donne nel settore si contavano sulle dita di una mano.

Alle prese in questi giorni con il montaggio della serie tv La storia tratta dal romanzo di Elena Ferrante e diretta da Francesca Archibugi, Esmeralda Calabria è anche la regista del film Parlate a bassa voce, un documentario in uscita il 9 marzo nei cinema italiani con la distribuzione di Satine. Nel film, prodotto, realizzato e distribuito da sole donne (quasi un unicum in Italia), Esmeralda Calabria ci conduce in Albania al seguito del violoncellista e musicista Redi Hasa per indagare sulle contraddizioni di una terra che agli occhi di tutti è ricordata solo come povera e arretrata culturalmente.

Parlate a bassa voce, il film di cui Esmeralda Calabria ha curato regia, montaggio e sceneggiatura (oltre che il soggetto, scritto con Titti Santini), non offre risposte ma pone domande. Non c’è un’ipotesi da conclamare ma solo un’attenta osservazione di cosa è rimasto del regime comunista di Hoxha e di quanto la democrazia sopraggiunta sia da considerarsi liberista. Si stava meglio prima o ora sembra la domanda con cui gli Albanesi sono chiamati a confrontarsi e a cui, paradossalmente, non sanno trovare risposta.

L’eredità del passato e il dinamismo del presente sembrano percorrere due linee parallele destinate a non incrociarsi mai. E la ragione è da ricercare in qualcosa che anche tutti noi possiamo comprendere: la frammentazione della Memoria. Quale futuro può avere un Paese che non accetta ancora di riconoscere gli errori del passato e per questi non ha chiesto scusa ai suoi abitanti?

Il nostro incontro con Esmeralda Calabria parte dal film Parlate a bassa voce ma va anche oltre. È impossibile, ad esempio, non chiederle come sia stato da donna esercitare un lavoro considerato maschile e quale sia oggi lo status quo del settore tecnico del nostro settore cinematografico. E le risposte son tutt’altro che scontate.

Esmeralda Calabria.
Esmeralda Calabria.

Intervista esclusiva a Esmeralda Calabria

Parlate a bassa voce, il tuo film, torna a raccontare l’Albania, un Paese che nell’immaginario di tutti è ancora legato all’arrivo della nave Vlora al porto di Bari nei primi anni Novanta. Cosa ti ha portato proprio in Albania?

È una domanda che mi fanno in tanti: “Ma sei matta? Ma chi se la fila l’Albania?”. Il desiderio nasce proprio dal fatto che non si parla mai del Paese, che nell’ottica comune ha ancora quella fortissima immagine povera, desolata e disperata legata agli anni Novanta. Aver incontrato Redi Hasa mi ha dato lo stimolo per affrontare una pagina di Storia le cui conseguenze necessitano ancora di essere capite.

Redi mi ha raccontato che, una volta arrivato in Italia, avrebbe voluto dimenticare tutto: per ricominciare una nuova vita, avrebbe dovuto rimuovere il suo passato e riproporsi come un essere umano nuovo. Ha provato a farlo ma a un certo punto ha cominciato a rivivere i suoi ricordi e a sognare in albanese: la sua provenienza, le origini e la memoria erano qualcosa che non poteva rimuovere. Mi ha colpito molto quest’aspetto: le persone che lasciano la loro terra per motivi indipendenti dalla loro volontà affrontano una specie di rimozione della memoria, quando invece riappropriarsene comporta anche una maggiore dignità per stare nel mondo.

Come tutti, anche per me l’Albania era il Paese in cui c’era stato il regime di Hoxha, popolato da straccioni, poveracci e malfattori. Ma quando sono arrivata lì ho trovato una realtà ben diversa: ho scoperto un mondo pazzesco e una cultura incredibile. Sono tutti coltissimi, hanno studiato tutti. È un discorso che ad esempio potremmo estendere a tutti i migranti, a quelle ondate di persone che partono dai loro Paesi sperando di migliorare le loro condizioni di vita ma anche a causa della guerra o della disperazione. Hanno tutti un certo background culturale e una potenzialità che, appena arrivati nel mondo “libero”, vengono annullati.

Anche Reda è arrivato in Italia aveva già alle spalle anni di studio e suonava a livelli altissimi, eppure non sapeva nemmeno se sarebbe finito a fare il pizzaiolo o il muratore. Ma, grazie anche all’aiuto del Conservatorio di Lecce, è riuscito a proseguire nel suo percorso di violoncellista.

Oltre a questo, dell’Albania mi interessava capire anche altro. Paese geograficamente vicino a noi, eppure considerato lontanissimo dall’Europa, per anni è stato sotto il regime comunista: volevo capire come si viveva in una nazione che ha chiuso totalmente i rapporti con qualsiasi altra, compresa la Russia, la Cina o la Jugoslavia. Come si viveva? Cosa succedeva? Come lavoravano i registi e gli artisti in genere costretti alla censura?

Quindi, il mio desiderio con Parlate a bassa voce non era quello di esplorare l’Albania più contemporanea ma quello di studiare le contraddizioni in essere tra il vecchio mondo comunista e quello nuovo libero, che poi come ho scoperto alla fine tanto libero non è. Gli albanesi non hanno avuto gli strumenti per gestire la libertà: dopo anni di chiusura, sono state aperte le porte ed è stato detto loro “andate nel mondo”. Ma dove sarebbero dovuti andare senza sapere cosa fare? Prima, almeno, avevano un lavoro ed erano, nel bene e nel male, aiutati dallo Stato. Oggi, no, forse questo nuovo mondo così liberista e democratico per loro non lo è più di tanto: non c’è stata organizzazione e non sono stati aiutati nella transizione.

Hai raccolto diverse testimonianze. E in certi casi dalle parole sembra emergere una certa dose di rassegnazione, soprattutto nelle persone appartenenti alle generazioni precedenti. Sembra quasi di sentire un “si stava meglio quando si stava peggio”.

Non so se sia rassegnazione, penso semmai che sia un effetto dell’educazione che hanno ricevuto e di qualcosa che nel frattempo è avvenuto: nessuno ha mai chiesto scusa per quello che è avvenuto. Più che arrabbiati per questo, sono delusi. Nel film, siamo stati nel campo d’internamento di Tepelena in cui venivano rinchiusi tutti quelli che cercavano di scappare e abbiamo incontrato Arjan Cela, un declassato. E dalle sue parole emerge tutta l’amarezza per le mancate scuse.

Le mancate scuse non sono solo una questione di rispetto ma evidenziano anche come il Paese abbia un grandissimo problema con la Memoria. Il nuovo governo, seppur democratico, è come se avesse cancellato un’intera pagina di Storia: non ha chiesto scusa alla gente, non ha eretto nessun Museo della memoria e non ha educato le nuove generazione, come ha fatto ad esempio l’Argentina con il Nunca mas. Se vai in Albania e chiedi dov’è il campo, nessuno lo sa o ne ha sentito parlare: è uno dei simboli di vent’anni di Storia ma è lasciato completamento abbandonato. Gli unici che se ne prendono cura volontariamente sono Arjan e altri guardiani, mossi dal desiderio di preservarne la Memoria in perenne attesa che lo faccia lo Stato.

All’inizio del film, il fratello di Redi pronuncia una frase che lascia straniti: “Eravamo poveri ma felici”.

È in quel lungo dialogo messo in apertura che sta la contraddizione di fondo a cui accennavo. Erano poveri ma tutti andavano a scuola, tutti avevano un lavoro e tutti avevano una vita, anche se non sapevano spesso cosa c’era al di là dei confini della propria città. Avevano, comunque, dei valori, e non erano lasciati nel caos, come accade oggi. Non so se c’è di fondo una certa nostalgia ma, se il regime comunista avesse concesso libertà di parola, per loro sarebbe stato il più giusto al mondo: erano tutti uguali, senza differenziazione alcuna.

In Parlate a bassa voce, ricorri alle testimonianze raccolte in Albania, ai firmati di repertorio legati al regime e situazioni sceniche costruite ad hoc. Quanto tempo ci hai impiegato per realizzarlo?

Tre anni, più o meno, ma perché di mezzo c’è stata la pandemia. Sono stata nel tempo diverse volte in Albania ma le settimane di riprese sono state più o meno quattro. Le immagini di repertorio hanno comunque a che fare con il regime e servivano a sottolineare il problema di fondo che oggi il Paese affronta, la frammentazione della Memoria, mentre le situazioni ricostruite ad hoc sono quelle più evocative.

A nessuno è stato chiesto di recitare una parte: semmai a delle coriste abbiamo chiesto di esibirsi in un teatro per ridar loro il luccichio della loro vita passata o alla testimonianza di Bojken Lako, cantante e musicista rock, fa da sfondo la proiezione di spezzoni di film del padre, l’attore Bujar Lako, il più famoso del periodo comunista. Le situazioni ad hoc mi servivano per dare anche maggiore fluidità al racconto.

Il poster del film Parlate a bassa voce.
Il poster del film Parlate a bassa voce.

Memoria è una parola che sta ritornando spesso nella nostra conversazione. Cos’è per te la Memoria?

Penso che la Memoria sia il fondamento della nostra vita: senza memoria, non esistiamo. È qualcosa che fa parte di noi e che ci aiuta a costruire il nostro modo di essere e di relazionarci agli altri. Nel mondo del cinema ho diversi amici albanesi e ho notato come spesso tendevano (oggi molto meno) ad abbassare la voce quando si raccontavano: era come se provassero vergogna del loro passato e del marchio che è stato loro appiccicato.

È un atteggiamento che si nota tuttora in tutta l’Albania: a Tirana, ad esempio, hanno abbattuto quasi tutte le vecchie costruzioni per costruire grattacieli alti trenta piani. Stanno così creando un grande problema anche alle nuove generazioni che cercando di dar invece dignità alla Memoria.

Nella tua memoria personale, qual è il primo ricordo legato al mondo del cinema?

Da piccola, a sette anni, vidi per la prima volta il film Paper Moon e, guardando Tatum O’Neal, andai dai miei genitori chiedendo loro cosa bisognasse fare per diventare attrice. Questo è il primissimo ricordo, se vogliamo. Ma il cinema era abbastanza presente in casa mia: i miei genitori mi portavano a vedere spesso i film al cinema e mio padre organizzava spesso proiezioni a casa in Super 8. Di lavoro, faceva l’avvocato ma era un grande appassionato di Super 8: realizzava anche filmini amatoriali con protagonisti lui e mia madre (alcuni spezzoni sono stati inseriti nel documentario Lievito madre, realizzato con Concita De Gregorio).

Intorno ai 16 o 17 anni, ho cominciato a immaginare come potessi entrare seriamente in quel mondo e subito mi è balzato in mente il montaggio, un lavoro molto pratico e forse più concreto di altri: equivaleva a costruire un qualcosa con le proprie mani. Pian piano, mi ci sono avvicinata e ho scoperto che la sala montaggio è il luogo in cui accadono più cose: si raccoglie il materiale e si lavora con i registi, con la fotografia e con gli attori… è un lavoro che molti sottovalutano, nessuno sa chi sia il montatore di un film: siamo figure che viviamo nell’ombra.

È stato facile farsi strada in un settore tipicamente maschile e rendersi credibili?

Sorvoliamo su tutte le battute sull’essere una montatrice… fortunatamente, negli anni le cose sono cambiate molto ma quando ho cominciato io le montatrici eravamo davvero in poche. C’era una sorta di resistenza da parte dei registi, la cui maggior parte erano e sono uomini, che non volevano stare a contatto per così tanto tempo in un luogo buio com’è la moviola con una donna. Avevano timore dell’imbarazzo nello stare da soli o con poche persone e si lasciavano guidare dal pregiudizio per cui a una donna non potevano rivolgersi con gli stessi toni usati con gli uomini. Con gli anni, la situazione si è ribaltata ed è nato in molti il desiderio di far montare un film da una donna, creando un’ulteriore differenziazione.

Oggi ci sono tante donne nel mio settore, che lavorano, comunque, in team composti in maggioranza da soli uomini e con rapporti gerarchici non sempre facili da gestire. Ma ci sono anche altrettante ragazze che vogliono lavorare nel cinema e non trovano posto, soprattutto in settori come quello del suono o della fotografia. Il lavoro di mix del suono o di direttore della fotografia è ancora considerato prettamente maschile e il pregiudizio è duro a morire. L’importante è però incoraggiare le nuove generazioni a provarci e a non sentire il peso della differenza di genere: sono loro che, più avanti rispetto a noi, hanno il compito di annullare le differenze.

E poi oggi assistiamo anche a uno strano fenomeno: se una donna ha raggiunto una posizione di potere è perché “deve stare lì”. La cosiddetta sostenibilità genera un effetto boomerang: quella donna ha ottenuto una promozione in quanto donna e non per le sue competenze. È come se si mettesse in atto un processo di dequalificazione, se vogliamo: un cane che si morde la cosa.

Parlate a bassa voce: Le foto del film

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