Sarà il RomaEuropa Festival a ospitare dal 15 al 19 novembre al Teatro Vascello il debutto di Il grande vuoto, ultimo lavoro della regista Fabiana Iacozzilli, prodotto da Cranpi con La Fabbrica dell’Attore, La Corte ospitale e RomaEuropa Festival con il sostegno del Ministero della Cultura, nell’ambito di una personale dedicata all’artista e alla sua Trilogia del Vento (in scena già dal 7 novembre sempre al Vascello).
Il grande vuoto è il capitolo finale dell’opera con cui la regista e autrice Fabiana Iacozzilli si interroga sulle grandi tappe dell’esistenza umana come opportunità generative. Mentre l’infanzia e le relazioni con i maestri che ci mostrano o ci impongono delle vie da percorrere, erano al centro del pluripremiato La classe. Un docupuppets per marionette e uomini e la maturità, la genitorialità e il riuscire a prendersi cura, protagonisti di Una cosa enorme, la vecchiaia in rapporto con il vuoto e il senso della memoria sono l’oggetto di indagine di Il grande vuoto.
I punti di partenza sono stati da un lato - e per la prima volta - il dato biografico di Fabiana Iacozzilli, trasfigurato attraverso rappresentazioni immaginifiche, e dall’altro il lavoro di nutrimento della materia artistica, condotto attraverso interviste a donne e uomini prontə a condividere frammenti e ricordi della propria vita.
Cinque i performer sul palco, Ermanno De Biagi, Francesca Farcomeni, Piero Lanzellotti, Giusi Merli e Mona Abokhatwa (per la prima volta in scena) per una drammaturgia che racconta l’ultimo pezzo di strada che una famiglia percorre prima di svanire nel vuoto, affidando alla tragedia forse più cupa del teatro shakespeariano, Re Lear, il compito di trasformare il dolore attraverso il gioco teatrale. Questo dissolversi, è amplificato dal progressivo annientamento delle funzioni cerebrali della madre, una ex attrice, colpita da una malattia neurodegenerativa alla quale rimane progressivamente solo il ricordo del suo cavallo di battaglia, un monologo tratto appunto dal dramma di Shakespeare.
Dello spettacolo ma anche di altro abbiamo parlato direttamente con Fabiana Iacozzilli, regista e autrice che porta avanti un lavoro di ricerca improntato sulla drammaturgia scenica e sulle potenzialità espressive della figura del performer.
Intervista esclusiva a Fabiana Iacozzilli
Il grande vuoto chiude la Trilogia del Vento. Di cosa si tratta?
Uso le parole della drammaturga Linda Dalisi, che mi ha accompagnata in questo progetto. Linda nelle note scrive che il vuoto non è il nulla ma è uno stato fisico che gorgoglia. Il nostro metterci in ascolto del vuoto ci ha portato a pensarlo come qualcosa che zampilla. Siamo arrivati a conclusione di quella che abbiamo chiamato La Trilogia del Vento passando per La classe e Una cosa enorme e affrontiamo il vuoto a partire da una mancanza, da una grande assenza, quella di un padre con tutte le complicazioni che ne susseguono.
Il vuoto che la perdita crea reinventa la geografia delle relazioni interne alla famiglia, con un posto a tavola da riempire o da lasciare vacante. A questo vuoto corrisponde un lento dissolversi della memoria della protagonista, interpretata da Giusi Merli, un’ex attrice che a causa di una malattia neurodegenerativa perde i pezzi.
Perché proprio un’ex attrice?
Per noi, era importante che la protagonista fosse un’ex attrice e che avesse un link con la recitazione. Per raccontare cosa rimane dentro il vuoto fondamentali sono state le interviste che abbiamo condotto a partire dal maggio del 2022 presso alcune RSA, sia al personale che vi lavora sia agli ospiti. Tra esperienza che si sono rivelate illuminanti ci sono state quelle alla Casa Residenza Anziani del Comune di Rubiera e alla Fondazione Casa Lyda Borelli per Artisti e Operatori dello spettacolo.
Materiale prezioso per noi è arrivato grazie a quegli esercizi terapeutici in cui i pazienti vengono messi in contatto con situazioni che erano fondamentali per la loro esistenza. In tal modo, si va a operare sulla memoria procedurale, ovvero quella parte di cervello in cui si incastona tutto ciò che ci caratterizza durante l’arco della vita: le azioni che abbiamo portato avanti lasciano sempre un segno. Tali esercizi rispondevano alla domanda da cui io e Linda partivamo: quello che siamo stati rimane in noi fino alla fine?
La nostra protagonista ha avuto alle spalle un momento di gloria molto importante interpretando Re Lear di Shakespeare. Nonostante la sua memoria scompaia, il monologo che recitava le rimane continuamente sotto pelle e pian piano diventa il tramite attraverso cui ricomporre l’intero nucleo familiare, l’unico mezzo con cui gli altri personaggi entrano in relazione con lei, scivolando nel suo mondo e, quindi, nel teatro.
Al di là delle interviste raccolte, Il grande vuoto fa appello a un’esperienza autobiografica.
Di mio, parto sempre da un paesaggio interiore autobiografico. È evidente nelle altre due opere che completano la trilogia. Per Il grande vuoto, il biografico è stato soltanto il punto di partenza per portare la narrazione in luoghi più immaginifici e non rimanere ancorati a una realtà che correva il rischio di diventare qualcosa di morboso. Da tempo, io e Lisa volevamo lavorare insieme: Il grande vuoto ci ha dato la possibilità di trovare un terreno comune perché entrambe abbiamo vissuto lo stesso tipo di esperienza nella nostra vita.
Il grande vuoto: Le foto di scena
1 / 4Il teatro ti permette di riempire il grande vuoto?
Assolutamente. Quando si fa teatro, si è costantemente a contatto con il vuoto: dovrebbe essere quello il punto da cui partire. Il rischio più grande che si corre è che, andando avanti con il percorso, il teatro diventi semplicemente un lavoro: è bello che lo sia e che si cresca professionalmente ma bisognerebbe sempre continuare a stare a contatto con il vuoto che si ha dentro tutte le volte che si comincia un nuovo percorso. Perché si scrive una nuova opera se non per sondare quel grande cruccio o quella grande questione che ci tormenta e condividerla, non risolverla, con il pubblico? Questo è il motivo per cui facciamo teatro, l’unico modo in cui lo concepisco io. Sono consapevole di quanto sia difficile stare sulle questioni e portarle al pubblico: bisogna essere molto severi con se stessi per non cedere e non fare un passo indietro.
E tu sei severa con te stessa?
Cerco di esserlo. Ma a volte mi perdo: a volte, la severità cede il passo a quel briciolo di umanità che dobbiamo sempre conservare.
E quanto è difficile essere severi con se stesse quando già il mondo attorno è severo con le donne. Ti hanno mai chiamato “maestra”?
Non mi interessa essere chiamata maestra, forse lo ha fatto qualcuno durante la mia attività di pedagogia. Amo molto mettermi in discussione, soprattutto con i giovani, e amo anche tantissimo apprendere da loro durante la mie lezioni. È difficile, per quello che vedo e che sento, arrivare ad affermarsi in teatro da donna e avere attenzione a livello nazionale: devi essere veramente molto, molto brava.
In un incontro bellissimo tra Serena Sinigaglia ed Emma Dante, durante il lockdown, Emma disse una cosa che mi colpì tantissimo: “Ci sono molti registi uomini mediocri e molti registi uomini molto bravi. E poi ci sono le registe donne brave ma non quelle mediocre”. È una frase interessante…
Non parlo ovviamente di me, non posso dire di essere una regista brava, sarei un po’ presuntuosa, nonostante in questo momento il mio percorso sia in ascesa (e ne sono assolutamente felice), però è vero che per colpire l’attenzione una regista donna non può permettersi di sbagliare un colpo. E per non sbagliare un colpo ho lavorato tanto, anche nell’underground romano. Ed è stato forse quello il momento più importante del mio percorso: è quando ti ritrovi a dover mettere in piedi spettacoli con budget ridottissimi che devi fare affidamento alle idee. È in quel caso che si nota se qualcuno ha qualcosa di interessante da dire.
E, comunque, ritornando alla questione: sì, è molto più complesso per una donna affermarsi. Occorre essere severi con se stessi, affrontare sacrifici, fare appello alla propria autodeterminazione e dirsi “non rinuncio”, perché altrimenti ti portano davvero sul punto di gettare la spugna.
La classe: Le foto di scena
1 / 3Quando hai scritto La classe, il primo capitolo di La Trilogia del vento, avevi già chiara la visione di insieme che avrebbe preso la tua opera?
No. Ho iniziato a lavorare a La classe nel 2018, cinque anni fa, non pensando all’ipotesi di una trilogia. Però, arrivato a un certo punto è stato inevitabile che lo diventasse. L’ho realizzato mentre lavoravo a Una cosa enorme, il secondo capitolo in cui affronto questioni che hanno a che fare con la maternità e con quella fase della vita in cui ci si inizia a sentire maturi. È stato allora che ho pensato che lo spettacolo successivo avrebbe potuto affrontare la vecchiaia, la fine. Sembrava quasi la giusta conclusione: infanzia, maturità e vecchiaia, un trittico perfetto per le tre grandi tappe della vita e sui grandi incontri o le grandi separazioni come opportunità generative.
In La classe c’è l’incontro che una suora e la sua educazione fondata sulla violenza e sul terrore. È l’incontro con questa donna che mi consegna nelle mani la mia prima regia: come la si voglia vedere, mi mette su una strada. Lo spettacolo si interroga sulla figura del maestro o su quanto gli incontro determinano quello che diventiamo.
In Una cosa enorme tutte le domande ruotano intorno alla maternità e non sull’essere madri in una società in cui a quarant’anni ti fanno già avvertire la sensazione di aver perso dei pezzi per strada, di essere un animale a metà. Man mano che la storia avanza, la protagonista, una donna gravida con una pancia enorme, partorisce un uomo, che si rivela essere suo padre. Questo strano giro di boa mi serviva per arrivare al nocciolo della questione: forse si è madri, comunque, in un modo o nell’altro.
E tu ti senti una donna matura?
Non so dare una risposta certa. Come canta Brunori Sas, “la mia età non è questa, almeno la metà”. So solo che per una donna arriva un momento – nel mio caso intorno ai quarant’anni – in cui ci si comincia a porre le domande di cui sopra. Individuo in quel momento il raggiungimento della mia maturità. Quelle domande, a cui non mi sono ancora risposta, mi hanno fatto capire che forse ero, comunque, entrata in un’altra fase della mia vita.
Il “forse” indica una messa in discussione?
Io rimetto sempre tutto in discussione: sono sempre in divenire.
I maestri sono coloro che indicano la via o che la impongono. Quali sono stati i tuoi?
Non ho avuto altri maestri che la suora di cui parlo in La classe. È stata lei affidandomi la mia prima regia a decidere per me quella che sarebbe diventata la mia strada futura. E da quel momento non ho mai abbondonato il teatro: ho iniziato a nove anni con la regia della Favola del Lupo di Esopo e non mi sono più fermata.
Reputo però fondamentale nel mio percorso di studi l’incontro con Natalia Zvereva, regista e professoressa di Recitazione al Gitis di Mosca che ha studiato sotto la direzione di Maria Knebel, collaboratrice di Stanislavskij. Teneva degli stage nella mia accademia e ha influenzato il mio modo di vedere il teatro, di praticare le arti sceniche e di amare l’azione scenica. Ma ci sono tantissimi altri incontri determinanti: per tanti anni, sono stata aiuto regia di Pierpaolo Sepe, grazie a cui ho avuto la possibilità di capire che mi interessava molto avere a che fare con la bellezza.