In un tranquillo pomeriggio domenicale, il telefono diventa il mezzo attraverso il quale Fabrizio Ferracane ci invita nel suo mondo, un universo dove la profondità del personaggio si intreccia con la complessità dell'essere umano, riflettendo una realtà dove le sfumature della vita si colorano di emozioni intense e contraddittorie. Al di là dell'attore che abbiamo ammirato sul grande schermo, spesso incarnando figure dal carattere forte e talvolta oscuro, emerge l'uomo, nel suo essere più autentico e tenero, soprattutto quando si parla di Daniele, il nipote a cui offre un amore paterno.
Questa intervista, concepita inizialmente per essere un dialogo faccia a faccia ma trasformata dalla forza delle circostanze in un incontro telefonico, ci offre un'opportunità rara: quella di esplorare il pensiero e i sentimenti di Fabrizio Ferracane, non solo come artista ma come persona. Fabrizio Ferracane, con la sua voce calda e riflessiva, ci guida attraverso il labirinto delle sue esperienze, sia professionali che personali, mostrandoci come la vera arte nasca dalla capacità di affrontare e rappresentare la complessità dell'animo umano, nelle sue luci e ombre.
Attraverso il suo racconto, intriso di filosofia e dolcezza, si delinea un percorso esistenziale in cui ogni ruolo interpretato diventa un mezzo per indagare profondamente la realtà, stimolando lo spettatore a una maggiore consapevolezza e comprensione. La narrazione di Fabrizio Ferracane si rivela quindi non solo come un'esplorazione del suo mestiere di attore, ma come un viaggio nell'essenza stessa della vita, dove il dolore e la gioia si intrecciano in un inseparabile abbraccio, e dove ogni esperienza, anche la più dolorosa, contribuisce a definire chi siamo.
Intervista esclusiva a Fabrizio Ferracane
“Ho appena finito di girare per la nuova serie tv di Maria Sole Tognazzi, The Place of Life, una storia molto bella a sfondo LGBTQIA+, con protagonista un attore molto giovane che non conoscevo ma che mi ha sorpreso. Insieme a Donatella Finocchiaro, interpretiamo i suoi genitori”, esordisce Fabrizio Ferracane quando lo sento per telefono una domenica pomeriggio dopo pranzo. L’intervista, nata per essere telefonica, era stata rinviata un paio di volte: essendo entrambi a Palermo, volevamo realizzarla face to face ma una serie di mancati incastri, il maltempo e Daniele, hanno fatto sì che si ritornasse all’ipotesi originale.
Chi sia Daniele nella vita di Fabrizio Ferracane, l’uomo dai mille volti per il cinema italiano (su Sky vedremo l’8 marzo il bellissimo Primadonna), è presto detto: è il figlio della sorella a cui fa da padre. E già a solo a sentirgli pronunciare il suo nome ci si rende conto di quanta sensibilità, dolcezza e tenerezza ci sia dietro Fabrizio Ferracane. Non può che non sorridere quando gli dico che quest’intervista finirà per decostruire l’immagine che tutti si sono fatti di lui per via dei suoi personaggi. E il sorriso è qualcosa che ritornerà spesso: ora gioioso ora malinconico ma sempre coinvolgente.
Condividendo appunto la stessa città, sono diverse le occasioni in cui e Fabrizio Ferracane ci siamo visti: dall’anteprima di Una femmina fino a quella di Misericordia, quando lontano dall’allure che spesso circonda le star si mescolava tra la gente alla ricerca di un accendino. Perché Fabrizio Ferracane è così: la modestia, l’umiltà e la sincerità sono talmente insite nel suo carattere che, se gli fai i complimenti per un film, lui subito ne elenca i difetti. Come se volesse quasi scusarsi per quel mostruoso talento che la natura o chi per lei gli ha regalato (basterebbe vedere Diario di spezie o La prima regola per capirlo).
Ed è dal suo ultimo ruolo al cinema che partiamo: in The Cage – Nella gabbia, Fabrizio Ferracane interpreta quel padre Agostino che con la sua idea di religione condizione direttamente e indirettamente la coppia formata da Brando Pacitto e Aurora Giovinazzo. “La religione è deleteria e fa male”, mi risponde quando per una strana associazione di idee associo il suo personaggio all’increscioso fatto di cronaca occorso nei giorni scorsi a pochi passi da Palermo.
“Quando mi danno la possibilità di raccontare personaggi di un certo tipo, ne sono felice. Portandoli in scena, è come se dicessi: ‘Signori, guardate cosa c’è in giro’. Il male o determinate cose esistono, è inutile nasconderle: mentre ad esempio Polifemo nel film Misericordia di Emma Dante è un modo per sottolineare quanta bruttezza l’uomo sia in grado di raggiungere, Padre Agostino mostra quanto viscidume vi sia, come la mano spesso riesca a insinuarsi lenta, morbida e sporca”.
Fabrizio Ferracane è un fiume in piena: è quasi impossibile fermare quel flusso di pensieri che condivide con entusiasmo. “I villain sono per me un esercizio meraviglioso. Al di là delle motivazioni personali che possono portarmi ad accettare un personaggio anziché un altro, c’è sempre alla base il desiderio di smettere di celare certe realtà: solo così si possono veramente cambiare le cose. E noi che abbiamo la possibilità di raccontare delle storie, veicolando amore e bellezza, dobbiamo ricordarci che dobbiamo scavare nell’intimo delle emozioni anche quando rappresentano altro da noi”.
“Sapere di non essere come quei personaggi mi dona speranza ma interpretarli permette anche a chi è meno fortunato di me, a chi è cresciuto in ambienti svantaggiati o a chi ha scelto determinate strade, di rispecchiarsi e capire che quella che vede sullo schermo è la verità che non vuole riconoscere: forse solo così può prenderne le distanze”.
Fabrizio Ferracane: I mille volti di un attore
1 / 20Si dice però che, per interpretare un certo tipo di personaggio, un attore debba guardare anche ai lati oscuri della propria interiorità. Non fa male confrontarsi con tanto male?
Sono prossimo ai 49 anni e, come capita a tutti quanti, nella vita me ne sono successe di ogni: ho vissuto rotture di qualsiasi tipo e già solo a ripensarci è come ricucirsele addosso, come lo sarebbe anche immaginarsele qualora non fossero accadute. L’immaginazione ha sempre avuto una fortissima eco su di me: leggere o sognare mi permettevano di vagare.
Ricordo anche che, quando a vent’anni mi trasferii a Roma, il mio passatempo più bello ma anche più forte era prendere dei fogli bianchi e attaccarli al muro per cominciare dei puzzle composti da parole, immagini, miei pensieri, ritagli di giornali che contenevano qualcosa che mi interessava… e il risultato era sempre sorprendente.
Cosa ne veniva fuori?
Di tutto, anche le cose più intime o malsane: non sono mai stato un borghese cattolico o un bigotto. Ma anche i piaceri, come quelli dell’amore. Ho dedicato uno di quei puzzle, ad esempio, al vero grande amore della mia vita, Carmen… l’amore è qualcosa con cui faccio un po’ i conti: avverto sicuramente un forte senso di solitudine per non avere una compagna al mio fianco ma ho passato tanto di quel tempo senza che oggi forse non saprei come gestire una relazione. Vivere con Daniele ha, però, come sostituito o compensato tutte le forme di amore.
Quindi, l’immaginazione ti ha sempre sostenuto nel diventare attore…
I miei anni di formazione come attore sono stati anche anni di lettura, durante i quali ho recuperato tutto ciò di cui non volevo saperne a scuola. Avevo un pessimo rapporto con la scuola perché ne sentivo la pressione: finito il liceo, non sapevo realmente cosa volessi fare. I miei avevano già il loro studio di fisioterapia a Palermo e per un certo periodo, per guadagnare qualcosa, vi lavorai come segretario, rispondendo al telefono o segnando appuntamenti. Fino a quando un mio amico non mi disse che stava per frequentare un corso di teatro.
Cosa ti ha colpito delle parole dell’amico?
Mi ha acceso letteralmente una lampadina: ho rivisto me a 12 anni che a Castelvetrano, la città in cui sono cresciuto, interpretavo Peppiniello in una rivisitazione amatoriale di Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta. In un attimo, mi è ritornato dentro il fuoco che avevo sentito in quel momento e ho seguito il mio amico nel sostenere un provino con il grande Michele Perriera, l’uomo che più di ogni altro mi ha dato tanto. In quegli anni, ero molto timido, mi giudicavo molto e per questo non mi presentavo alle convocazioni delle accademie o delle scuole a cui avrei voluto invece accedere: Michele è stato la mia scuola.
Cosa c’era nell’aria di Castelvetrano allora, dal momento che è da quel paese che provenite tutta una schiera di artisti, attori e musicisti?
Cosa c’era non lo so. So semmai cosa non c’è più oggi: Castelvetrano non esiste più ed è morto. Lo si trova nella cartina geografica ma è finito tutto quanto: la sensazione è quella che non si risolleverà più dallo stato catatonico in cui si trova. Ha avuto la sfortuna di essere stato danneggiato per sempre da quel mostro latitante quando fino a trent’anni fa era un posto meraviglioso, in cui c’era tanto fermento non solo artistico (lo stesso che ho ritrovato di recente in un altro paese siciliano in cui sono stato a girare un film, Castelbuono) ma anche imprenditoriale, commerciale o turistico.
Di tutto ciò che c’era non è rimasto nulla e l’impressione è che dietro ci sia stato un disegno politico ben delineato, altrimenti non si spiega come mai il parco di Selinunte non sia diventato il gioiellino che meriterebbe di essere o come mai in paese non esista più un ospedale, chiuso a vantaggio di quello di Mazara del Vallo.
Non posso non notare come dalle tue risposte emerga prepotente una parola chiave: ricordo. Senti il peso dell’età che passa?
A esser sincero, non ne sento il peso. Mi piace l’uomo che sono diventato, anche se ci sono giornate in cui non mi piacciono determinati miei atteggiamenti: dovrei a volte limarli e, come tutti, tendere a migliorarmi sempre. Emerge prepotente il ricordo, per rimanere in tema, di una mia amica che, salendo un giorno sul motorino, si mise a piangere chiedendomi dove fossero finiti ‘tutti’, dove con il ‘tutti’ intendeva le amicizie di scuola o gli amori. Ed io come lei sono attaccato alle relazioni.
Ho lavorato molto e per parecchi anni, per fortuna, ma ciò mi ha portato a stringere poche relazioni ma belle, vere e sincere. Di conseguenza, sono profondamente attaccato a determinate cose del passato: a volte mi ricordo ancora delle emozioni che provavo quando a scuola mi ero innamorato di una ragazza e contavo tutte le volte in cui mi guardavo o di quelle che sentivo quando giocavo a basket. Tutti momenti straordinari che ho vissuto e che porto con me: ricordarli è come riviverli.
Ma sono contento della vita che conduco oggi, soprattutto quando sto con Daniele: è il regalo più importante che ho ricevuto. Forse non ho cercato fino in fondo gli amori, anche perché gli amori non si cercano: intravidi quella Carmen per caso in una spiaggia di Triscina, mi innamorai perdutamente di quella ragazza bionda, stupenda nel suo costume rosso. Non sapevo nemmeno chi fosse, eppure una straordinaria casualità, un passaggio per andare a giocare a calcio, me la riportò davanti subito dopo. Amavo guardarla negli occhi ma poi la vita decise diversamente… siamo negli anni diventati molto amici, ci vogliamo oggi un gran bene.
Sei consapevole di come il tuo racconto stia cancellando anni e anni di personaggi sullo schermo senza pietà e con un rapporto molto complesso con il femminile. Come ad esempio in Una femmina, dove interpreti un uomo che in Calabria uccide la sorella facendole bere dell’acido muriatico.
Tornerò presto a girare in Calabria per interpretare una storia tratta da un libro di Nicola Gratteri, magistrato antimafia, e Antonio Nicaso, Non chiamateli eroi. È la vicenda del piccolo Cocò Campolongo, il bambino di tre anni ucciso e dato alle fiamme insieme al nonno, Giuseppe Iannicelli. Ed io sarò il nonno, un gigante cattivo che racchiude in sé tante contraddizioni, un personaggio per cui sono andato fuori di testa, una merda ma meraviglioso (tutti i mafiosi sono delle merde ma lo sono ancora di più quando fanno del male ai bambini). Nell’accettarlo, c’è ancora una volta di mezzo Daniele…
Visto che lo abbiamo citato in continuazione, cosa ha portato Daniele nella tua vita?
Maggiore precisione e contabilità del tempo: tutta la mia esistenza è determinata dai suoi tempi. Sono io che devo cambiare il mio modo di essere e le mie scelte perché c’è lui e non viceversa. Quindi, vado a letto presto la sera e mi sveglio presto al mattino: ho sicuramente maggior rigore!
Vedi qualcosa di te in lui?
Molto. Daniele è un attore senza che sappia cosa significhi esserlo: spesso mentre giochiamo insieme lo osservo e rido per il modo in cui modula la voce… E a me ridere delle cose stupide o di niente fa bene. Tra l’altro, da quando ha due anni e mezzo mi chiama ‘Iaia’: lo ha fatto, con i suoi capelli riccissimi e meravigliosi, dal nulla e continua a chiamarmi così in qualsiasi circostanza o situazione, a casa o a scuola… ormai sono per tutti ‘Iaia’, un nome che ho scoperto sul set di La cosa migliore che in antico ebraico vuol dire ‘colui che accudisce i bambini’: me lo ha fatto scoprire il regista, Federico Ferrone, incuriosito dall’aneddoto.
Se lo cerchi, puoi appurarlo… anzi, lo faccio adesso io e ti rigiro il link. (La conversazione si interrompe per qualche secondo, Fabrizio cerca e rimane sorpreso da un ulteriore scoperta, ndr) Incredibile, in alcune culture africane è la parola usata per indicare “padre” o “madre” (la sua risata è questa volta quella di chi si è commosso, ndr) o con il significato di “donna che è stata accolta con gioia”. Ma io in passato sono stato molto donna, sono stato concubina (scherza, ndr).
Padre. Che poi è quello che stai facendo: un figlio non è di chi lo mette al mondo ma di chi lo cresce.
Ma è bellissimo. Anche se cerco di farlo seguendo la strada che impartisce mia sorella, a meno che non gli dica delle cretinate (torna a ridere, ndr). Daniele sa che non sono suo padre ma è sereno: anche quando a scuola qualcuno si azzarda a formulare delle ipotesi, risponde che non avrebbe mai voluto una vita diversa da quella che ha con mamma e Iaia.
E tu che bambino sei stato?
Mi viene da rispondere spontaneamente: la disperazione di mamma e papà. Ma ero anche un bambino che si vergognava del proprio corpo: avevo qualche chilo in più e al mare non levavo nemmeno la maglietta per fare il bagno. Combinavo anche un po’ di casini ed ero innamorato di mia madre.
Baronessa, tra l’altro.
Titolo che ha ereditato da mio nonno, altra figura fondamentale della mia vita. Viveva nello stesso piano del palazzo in cui vivevamo (e viviamo ancora) noi e, quando capitava che stava male, andavo io a far compagnia alla nonna per evitare che restasse sola. Ma nonno era davvero un grande uomo: oltre ad aver preso parte a due guerre, è stato un punto di riferimento per i commercianti di Castelvetrano e per le loro battaglie legali. Ecco si è aperto un altro cassetto di ricordi: io da piccolo che frequento le elementari e ballo con addosso una maglietta bianca, mentre gioco a basket o vado a rubare meloni con gli amici per le campagne.
Tra le tantissime cose che hai fatto qual è quella che ti rende più fiero?
Qualcosa che prima o poi vorrei che avesse un futuro. Vado orgoglioso di aver portato in scena nel carcere di Castelvetrano Ferrovecchio, lo spettacolo teatrale con Rino Mario. Mi piacerebbe provare a fare un laboratorio teatrale per i detenuti e non è detto che non ci provi.
Eri un ventenne quando rimediavi un ruolo da comparsa per Maléna ma finisci per girare ben nove pose. Da allora il tuo curriculum è sterminato: come vivi la popolarità?
Di Maléna ricordo soprattutto la voce di mia madre che correva in spiaggia a Triscina dov’ero per urlarmi che mi cercava al telefono Giuseppe Tornatore… vivo la popolarità con molta tranquillità perché devo tutto a coloro che apprezzano il mio lavoro: sono loro che meritano il mio rispetto. Ma è un concetto che ti viene soprattutto dall’imprinting che ti ha dato la famiglia e dallo studio, che sia inerente alla materia o meno.
I miei e Michele Perreira mi hanno dato una struttura che poi negli anni ho continuato necessariamente a innaffiare: non vado alle anteprime dei film tanto per presenziare ma per confrontarmi con la gente, parlare con il pubblico e stare con chi, come è realmente successo, si fa anche della strada per vedermi. Il rapporto umano va ben oltre.
Non c’è nessun titolo, film o serie tv che sia, in cui Fabrizio Ferracane è uguale a Fabrizio Ferracane. L’impressione è che, lavoro dopo lavoro, alzi sempre più l’asticella.
Per forza: se un ruolo non mi richiede lavoro, se come tela bianca non mi faccio tramite di chi ha scritto la storia o del regista, mi annoio. Per ogni personaggio, devo vivere diversamente tutta l’esperienza e mettere in moto modi che non ho mai avuto. I personaggi possono anche somigliarsi ma per me devono sempre muoversi in maniera differente, avere piccole sfumature che differiscono, altrimenti è qualcosa o qualcuno che ho già raccontato.
C’è un personaggio che ti andrebbe di raccontare e che ancora non è arrivato?
No. Perché, se ce ne fosse qualcuno, in qualche modo lo conoscerei già: io invece voglio essere sorpreso da ciò che viene. Così come ora mi ha sorpreso Bastianazzo, che porterò a teatro.
Ti vedremo a breve in Gerri, la serie tv con Giulio Beranek che parte su Rai 1 il 7 aprile. Chi sarai?
Interpreto il funzionario Alfredo Marinetti, colui che in questura fa il tifo per Gerri, ispettore napoletano di origine rom chiamato a risolvere casi in Puglia. Ancora una volta, è un personaggio diverso ma che contiene forse un po’ di me in relazione a Daniele: Alfredo è come un padre per Gerri…
Chi l’ha già vista, dice che è una serie di attori e di personaggi: è stato messo insieme un cast notevole anche per i piccoli ruoli. Ci sono facce bellissime e brave (l’elenco è lungo, da Irene Ferri a Lorenzo Adorni) e, nonostante tratti un tema come quello dei bambini scomparsi, non c’è mai una forma di violenza in scena. Giulio Beranek è molto bravo e sono sicuro che si sentirà molto parlare del prodotto, per cui la Rai ha lasciato anche molto campo libero in termini di scelte narrative e anche musicali.
Libero… cos’è per te la libertà?
Negli ultimi anni ho rivisto il mio concetto di libertà: è non fare mai male agli altri. È strano che lo dica: solitamente, uno si crede libero quando da spazio e voce a tutti i propri istinti. Vero ma occorre sempre stare attenti a chi si ha vicino, in contatto con gli altri. La libertà è anche condivisione: se stiamo solo concentrati su noi stessi, che libertà ci viviamo?
E a te hanno fatto del male?
No, forse l’ho fatto io con le mie libertà del passato. Oggi mi preoccupo maggiormente: c’è la famiglia… c’è Daniele.