Fausto Russo Alesi è un attore che incarna un approccio profondo e riflessivo alla recitazione, un interprete capace di muoversi con disinvoltura tra cinema, teatro e televisione, portando in scena un bagaglio artistico e umano che rende ogni suo ruolo un’esperienza intima e carica di significato. La sua carriera è caratterizzata da una costante ricerca dell’autenticità e da una rara capacità di esplorare le sfumature psicologiche dei personaggi che interpreta, come emerge nel suo ritorno nei panni di Fausto in Se posso permettermi – Capitolo II, un progetto che rappresenta molto più di una semplice continuazione del cortometraggio omonimo realizzato nel 2019.
Quando Fausto Russo Alesi parla del lavoro con Marco Bellocchio, si intuisce immediatamente il legame artistico e umano che li unisce. La collaborazione tra i due si è consolidata nel corso degli anni attraverso diversi progetti di grande rilievo, come Vincere (2009), Il traditore (2019) e più recentemente Rapito (2023), fino ad arrivare a Se posso permettermi – Capitolo II e alla prossima serie tv Portobello. Fausto Russo Alesi descrive Bellocchio come un regista capace di creare uno spazio di totale libertà espressiva, un maestro che non impone mai una visione, ma invita gli attori a esplorare con intensità i loro personaggi.
Il fatto che Se posso permettermi sia nato in un laboratorio di cinema a Bobbio, nel contesto della formazione dei giovani allievi di Bellocchio, è per Fausto Russo Alesi una delle chiavi più affascinanti del progetto. L’attore evidenzia come la prima parte fosse nata quasi per gioco, senza alcuna ansia produttiva, eppure con un respiro ampio e carico di potenzialità che, tre anni dopo, ha condotto naturalmente a un secondo capitolo.
In Se posso permettermi – Capitolo II, Fausto è un personaggio che vive sospeso tra un mondo immaginario, fatto di letteratura e grandi poeti, e un mondo concreto che lo costringe a fare i conti con la realtà, spesso crudele, che lo circonda. Fausto Russo Alesi, parlando del suo rapporto con il personaggio, sottolinea come Fausto si trovi a vivere una sorta di resa dei conti con tutto ciò che ha lasciato dietro di sé.
Il protagonista osserva passivamente l’arrivo di visitatori paradossali, dalle richieste assurde, che sembrano rappresentare le mille sfaccettature della vita quotidiana: dal parroco mellifluo al misterioso uomo d'affari che propone un'attività sui fantasmi, fino alla coppia di ladri che arriva nel cuore della notte. Fausto, nella sua impassibilità, diventa quasi un simbolo della stagnazione e dell'incapacità di agire che molte persone sperimentano nella propria vita.
Ma Fausto Russo Alesi non è solo Fausto. Il suo percorso artistico è ricco di ruoli che spaziano dal cinema alla televisione e al teatro, e che lo hanno visto interpretare una vasta gamma di personaggi storici e contemporanei, spesso legati a figure realmente esistite. Tra i suoi ultimi lavori, emerge il suo impegno in Iddu, film che esplora la latitanza di Matteo Messina Denaro attraverso una narrazione che mescola realtà e finzione, utilizzando il grottesco per analizzare la complessità della natura umana.
In Iddu, Fausto Russo Alesi interpreta Emilio Schiavon, un colonnello dei servizi segreti che, come molti dei personaggi del film, indossa diverse maschere per relazionarsi con il mondo. L’attore siciliano sottolinea come questo ruolo gli abbia permesso di esplorare il tema dell'ambiguità umana, una delle questioni più profonde della storia, soprattutto quando si tratta di non vedere o non voler vedere verità scomode.
Parallelamente, Fausto Russo Alesi sarà a dicembre uno dei volti della serie tv evento Leopardi – Il poeta dell’infinito, diretta da Sergio Rubini, in cui interpreta Pietro Giordani, amico e mentore del giovane Giacomo Leopardi. Questo progetto rappresenta un'altra sfida per l'attore, che deve immergersi in un contesto storico e intellettuale complesso, quello del primo Ottocento italiano, e restituire l’intensità del rapporto umano e intellettuale tra Giordani e Leopardi. Fausto Russo Alesi vede in questi ruoli l’opportunità di esplorare non solo la dimensione pubblica di figure storiche importanti, ma anche le loro fragilità, i loro dubbi e il loro lato più umano e nascosto.
Una delle caratteristiche più affascinanti di Fausto Russo Alesi è la sua idea di recitazione, che non si limita alla mera rappresentazione di un personaggio, ma diventa un vero e proprio viaggio interiore. Per lui, recitare significa immergersi completamente in un ruolo, mettendo da parte il proprio ego e permettendo al personaggio di esistere in modo autentico. L'attore ama affrontare ruoli che lo mettano alla prova, che lo spingano oltre i limiti del già noto e lo costringano a esplorare nuove sfaccettature della condizione umana. Per Fausto Russo Alesi, l’arte della recitazione è una forma di indagine psicologica che richiede una continua apertura al nuovo e una capacità di vivere il presente del personaggio in modo pieno e consapevole.
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Intervista esclusiva a Fausto Russo Alesi
“È un progetto particolarissimo, unico”, risponde Fausto Russo Alesi quando gli si chiede cosa significa tornare a interpretare a distanza di anni lo stesso personaggio per Se posso permettermi – Capitolo II, seconda parte di un unicum voluto da Marco Bellocchio presentato allo scorso Festival di Venezia fuori concorso. “Intanto, perché il tutto è nato all’interno di un laboratorio di cinema, il suo a Bobbio, tre anni e mezzo fa con un primo capitolo che, inaspettatamente e senza che fosse già prestabilito, ha avuto poi un seguito. C’era però sin da subito il desiderio di continuare un lavoro che si era rivelato con un respiro molto più ampio”.
“Quando Marco Bellocchio mi ha chiamato la prima volta per dirmi che aveva scritto una storia che voleva far interpretare e realizzare ai ragazzi di “Fare Cinema”, ne sono stato entusiasta: non capita spesso che si possa lavorare in maniera così libera e speciale, senza nessuna ansia produttiva. L’intento era semplicemente un piccolo film che sarebbe dovuto finire lì. E, invece, quando ci siamo ritrovati sul set di Rapito, Marco ha cominciato a parlare di un secondo capitolo coinvolgendo un cast spettacolare, salutando l’ingresso nella storia di Barbara Ronchi, Rocco Papaleo, Edoardo Leo, Filippo Timi e Fabrizio Gifuni e proseguendo con me, Piergiorgio Bellocchio e Giorgis Fasce”.
È stato complicato riprendere un personaggio lasciato tempo fa?
Non so dire se sia stato difficile riprendere quei panni lasciati tre anni prima. Ma so che ho sin da subito rilevato la specificità del lavoro in divenire: ogni cortometraggio è come se fosse un breve racconto o frammento di vita in cui il personaggio di Fausto arriva da qualcosa e non si sa verso dove va o cosa farà. Lo osserviamo solo in quell’attimo e, com’è nel suo stile, Bellocchio lo pone al centro di tematiche molto profonde che fanno parte della quotidianità di ognuno di noi.
È un po’ come se Fausto, che vive nel suo universo dedito alla letteratura e ai gradi poeti, ed ha tutta una sua specificità e un modo proprio di stare al mondo anche molto particolare, si ritrovasse ad accogliere a un tratto tutto ciò che si è lasciato dietro di sé, arrivatogli addosso come per una resa dei conti e per offrirgli prospettive che non ha mai conosciuto o preso in considerazione.
Fausto si divide tra un mondo immaginario e uno concreto. Per me, è stato come entrare a stretto contatto con il mondo di Marco Bellocchio e con un luogo specifico ed emozionante della sua vita, casa sua, all’interno della quale il secondo capitolo è stato girato. E inevitabilmente in quella casa c’è tantissimo del suo cinema, delle sue esperienze, dei suoi ricordi, della sua famiglia e delle persone che hanno fatto parte del suo percorso. Parallelamente, c’è anche qualcosa di noi attori coinvolti nel progetto: non è un caso forse che i nostri personaggi si chiamino con i nostri stessi nomi.
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Casa è una parola che risuona in ognuno di noi con un significato diverso. Tu hai dovuto ad esempio lasciare la tua Palermo per affermarti come attore. Che significato dai, dunque, oggi alla parola casa?
Casa è un luogo che è insito nel tuo dna e con cui sei chiamato sempre a fare i conti nel bene o nel male, sia per il desiderio di voler tornare alle tue radici sia per la voglia di prendere in qualche modo il largo dalle stesse. Casa per me è un luogo estremamente intimo da cui partono domande fondamentali e anche esistenziali…
È vero che ho dovuto lasciare la mia terra e, quindi, la mia casa ma l’ho fatto per seguire un’indole e quel bisogno di scoprire chi fossi. Guardando a distanza di tempo con uno sguardo sicuramente diverso, l’andar via per me ha significato l’andare semplicemente a fare qualcosa che sentivo che poteva essere fatto solo in quel modo. Purtroppo, a rischio di essere retorici, il sud è sempre più difficoltoso in ogni campo: si ha sempre la sensazione di stare fuori o, comunque, lontano dal centro o di muoversi in acque che rimangono stantie e paludose nonostante i tentativi di molti di agitarle.
Ammiro tantissimo chi riesce a scoprire e affermare se stesso con tutte le proprie forze rimanendo al sud: è indice di determinazione e di un’energia che riesce a vince tutti gli ostacoli che vengono posti sia dall’esterno sia dall’interno. Rispetto a quando sono andato via io, oggi qualcosa è cambiato ma allora partire era la norma: avevo diciotto anni e avevo appena terminato le superiori, con davanti la speranza di riuscire a superare qualche selezione per essere ammesso in un’accademia a numero chiuso. Non sapevo come sarebbe andata a finire o che piega avrebbero preso le cose ma sicuramente sapevo che il bisogno di andar via era molto forte.
Palermo è per me casa? Sicuramente non è un capitolo chiuso, sebbene oramai io abbia più vissuto altrove che nella città in cui sono nato. Però, sì, mi sento sempre siciliano, anche se non ho mai avuto la tentazione di tornare a vivere in Sicilia. La mia formazione, il mio lavoro, i miei contatti e la mia vita sono oramai altrove: son contento quando capita di tornarvi per legami affettivi o per esigenze cinematografiche o teatrali, ma non sento l’esigenza di rimanervi proprio perché ho scritto e sto scrivendo la mia storia da un’altra parte.
Una delle volte in cui è stato bello tornare?
Sicuramente, quando sono stato in scena al Teatro Greco di Siracusa con Fedra insieme a Carlo Cerciello e Imma Villa. Era la mia prima volta in quel luogo da attore e si realizzava un sogno nel cassetto: il colpo di fulmine per la recitazione era arrivato proprio andando a vedere le tragedie greche, era lì che avevo provato la mia prima fortissima emozione. Mi ci avevano portato i miei genitori a nove anni: ero molto piccolo ma rimasi comunque folgorato dall’esperienza, dal luogo, dallo spettacolo cominciato alle 4 del pomeriggio e terminato col buio inoltrato, dal vedere e dall’essere visto dagli attori. Sentii quella volta anche tutta la forza del tragico, per quello che probabilmente la mia età mi permetteva di comprendere.
I tuoi genitori: cos’è ‘famiglia’ per te?
Al di là di quella di nascita e dei rapporti profondi e intensi con genitori e fratelli, famiglia per me è tutte le volte in cui riesci ad abitare un luogo con rapporti che ti somigliano profondamente… famiglia è quando si riesce a stabilire un livello molto forte di intimità e di somiglianza con qualcuno, per cui mi sono spesso sentito a casa e in famiglia anche in situazioni in cui non c’erano di mezzo i legami di sangue.
In ambito strettamente personale, famiglia sono mia moglie e i miei figli ma mi piace estendere il concetto anche a quei rapporti che durano nel tempo e che non sono limitati a esperienze occasionali. Amo coltivare i legami con le persone che stimo, con cui sento affinità e per cui nutro affetto o interesse, in qualsiasi sfera della vita non solo quella privata o professionale. Quando riconosco in altri bellezza, interesse o affezione, cerco il più possibile di alimentare e approfondire il dialogo: a poco a poco, si scrivono così storie di “famiglia” e amicizie speciali.
Tra queste persone, ritroviamo spesso Bellocchio appunto ma anche Roberto Andò o Serena Sinigaglia, tutti nomi a cui è legato anche il tuo lavoro. Che valenza ha per te il lavoro?
Intanto, mi reputo fortunato nel fare un lavoro di cui sono innamorato e che per me è una passione. L’ho sempre visto come tale e mi piacerebbe fosse sempre così: auguro sempre a tutti la possibilità di assecondare una passione che lo rappresenti il più possibile e di farla diventare un lavoro a cui dedicare ogni parte di sé nel rispetto sempre delle regole della professionalità.
A me piace potermi “implicare” nel mio lavoro e darmi generosamente: di fronte ai limiti ai quali inevitabilmente vengo posto, desidero sempre superarli e andare oltre… ho sempre voglia di lavorare in un determinato modo e di affrontare viaggi immersivi che mi permettano di esplorare nuovi mondi, conoscerli e tentare di restituirli al meglio. Non è detto che ci si riesca ma l’obiettivo deve essere per me il far lievitare il più possibile l’opera, la tematica o l’oggetto a cui ci si sta dedicando. Non sopporto di far le cose su un solo piede…
La tua idea di lavoro può benissimo essere riassunta da uno spettacolo in particolare: Natale in casa Cupiello. Lo porti a teatro nel 2012 non solo da regista ma da unico interprete con un monologo che dà voce a tutti i personaggi.
È uno spettacolo che ho amato moltissimo fare e che ho portato in scena in un momento in cui mi sono ritrovato a fare un bilancio su molte di quelle domande e di quelle tematiche che in quest’intervista stanno da sole venendo fuori. È stato un tentativo concreto di mostrare cosa intendo io per lavoro: qualcosa che esca fuori dal prestabilito, dal perimetro deciso o dall’ordinario, mettendomi anche in difficoltà, scomodo o su un terreno accidentato. Il nuovo per me rappresenta un passo avanti verso qualcosa anche forse di irraggiungibile e per tale ragione il mio investimento è sempre molto alto.
Mi trovo molto a mio agio quando posso affrontare grandi viaggi, ruoli e imprese. Scalpito quando il perimetro mi si restringe o non posso esplorarmi a 360°: non mi sento vivo se ho la percezione che quello che sto facendo sia solo funzionale.
Nel tuo percorso da attore ci sono anche tantissimi personaggi ispirati a figure realmente esistite: dal Pietro Giordani della serie tv Leopardi di Sergio Rubini prossimamente in onda su Rai 1 al Francesco Cossiga di Esterno notte, passando per Vittorio Nisticò in Solo per passione o Giovanni Falcone in Il traditore. Passione per le storie vere?
Innanzitutto, passione per una nuova interpretazione delle storie vere! Mentre a teatro dove capita di essere anche regista dei miei spettacoli sono io che scelgo quale bagaglio portare sulle spalle, al cinema devo attenermi ai ruoli che mi arrivano o che mi vengono affidati. Però, non credo che sia un caso: spesso sottende anche il desiderio di qualcuno con cui hai creato rapporti intensi di mostrare un gesto di attenzione nei tuoi confronti. Marco Bellocchio, ad esempio, mi ha sempre richiamato per personaggi tra loro molto diversi, rompendo quella tradizione tutta italica per cui spesso si è destinati a ripetere sempre lo stesso ruolo: la vera stima è quella che ti arriva quando ti si affidano sfide che a volte non sono così immediate.
Rispetto ai personaggi realmente esistiti, direi che è stato solo un puro caso. Ho avuto la grande fortuna di lavorare con autori e registi interessati a raccontare vicende che riguardavano la nostra Storia: era chiaro che nelle loro opere sarei finito tendenzialmente a interpretare qualcuno di realmente esistito (ride, ndr). Si tratta però quasi sempre di ruoli tra loro molto differenti che hanno richiesto una lunga preparazione per via della complessità delle loro vite non solo pubbliche ma anche private: in ogni caso, c’è stato sempre il tentativo di andare oltre il “ruolo” anche istituzionale che ricoprivano per lasciare spazio a quella parte di natura umana, variegata, in cui ognuno di noi poteva riconoscersi.
E a un personaggio vero è ispirato Iddu, il film in uscita a ottobre al cinema che porta sullo schermo tra fantasia e realtà la latitanza di Matteo Messina Denaro.
La storia si muove in maniera inequivocabile tra elementi reali e altri immaginari raccontati attraverso una chiave surreale. In scena, sono Emilio Schiavon, un Colonnello dei servizi segreti che al suo interno porta con sé tante verità ma anche tante maschere, come un po’ tutti gli altri personaggi della storia: per dialogare con gli altri, ne indossano una “giusta” senza la quale non potrebbero altrimenti relazionarsi.
Da siciliano, non sei stanco di interpretare storie di mafia?
Dipende dalla natura del progetto. In questo caso, c’erano dietro due autori con una sceneggiatura molto stratificata e scritta con grande perizia che avevano l’intenzione di realizzare un film con una sua cifra specifica: non si sarebbe trattato di un film di genere in cui non possono mancare sparatorie, sangue e cliché, ma di un’opera che avrebbe indagato questioni molto importanti.
Il fatto che ci sia una certa assuefazione all’argomento non ci esime dall’occuparci dello stesso o di raccontarlo in altro modo, anche infrapponendo una certa distanza grazie all’uso del grottesco. Ma ciò che più mi ha colpito è come i due registi Antonio Piazza e Fabio Grassadonia, abbiano realizzato un film che, secondo me, va a toccare la complessità umana puntando sulla forte ambiguità che ci appartiene soprattutto quando non vediamo o non vogliamo vedere verità che sono sotto gli occhi di tutti o che ci camminano a fianco… ci appartiene e fa male relazionarci con questa parte non sana che potrebbe essere insita in ognuno di noi.
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Durante il corso di questa intervista, hai sorriso parecchio mostrando un certo lato leggero. Non avresti voglia di portarlo in scena e di liberarti da personaggi che sono diventati man mano sempre più drammatici?
A me piace raccontare la vita che è tragicomica. Per cui, se dovessi dare una risposta netta, sarebbe sì. Ma per molti versi l’ho già fatto: dentro Se posso permettermi c’è tantissima ironia, gioco e leggerezza per cui ridere e anche tanto. Il dubbio nasce semmai da cosa si intende per “ridere”: adoro la commedia all’italiana ma adoro anche la scrittura che, in maniera intelligente, ricorre a quell’ironia che nasce dalle inettitudini, dalle goffaggini, dai paradossi e dall’incredulità verso le vicende umane. Non vedo l’ora da tale prospettiva di far ridere, anche perché credo molto nel fatto che un attore ha bisogno di esprimersi in ogni forma per entrare nelle vite degli altri.
Ed è un peccato quando il sistema lo costringe invece a seguire sempre determinate direzioni… occorre liberarsi, immaginare e provare a giocare il più possibile: spiazzarsi e ritrovarsi in situazioni imprevedibili può dar origine a cose sorprendenti che non sapevi ti fossero possibili. Ho voglia di raccontarmi, quindi, anche con il sorriso o comunque di far stare bene il pubblico incidendo anche su sentimenti positivi ma comunque sempre legati a un obiettivo di racconto.
E se il racconto non arrivasse dagli altri potresti sempre pensarci tu: mai pensato alla regia cinematografica?
Non è semplice. Serve prima di tutto una forte motivazione e soprattutto che qualcosa di importante fiorisca dentro di te e ti metta in una posizione di vero ascolto...che è quella che poi ti consente di farlo. Sono stato tentato dal pensare e scrivere dei soggetti e… se accadrà, arriverà al momento giusto, quando ci sarà la storia giusta che ha la necessità impellente di essere raccontata. Intanto vi aspetto a teatro a marzo con uno spettacolo la cui motivazione non manca: L’arte della Commedia di Eduardo De Filippo. Parole scritte 60 anni fa e le battaglie per il riconoscimento umano e professionale non cambiano. Ahinoi!
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