Federica Torchetti torna a interpretare Maria De Santis nella seconda stagione di Storia di una famiglia perbene traghettandola in un momento di svolta radicale, che la catapulta in una nuova fase della sua vita, carica di complessità emotive e sfide personali. Federica Torchetti, nel delineare l’evoluzione del suo personaggio, sottolinea come Maria sia cresciuta, diventando più matura e consapevole. L’ingresso della maternità nella sua vita non è solo una trasformazione fisica, ma simbolica: Maria porta dentro di sé non solo un figlio, ma anche il peso di un amore impossibile con Michele, un uomo che, pur essendo lontano a causa della prigionia, rimane una presenza costante e fortificatrice.
Le parole di Federica Torchetti, riflettendo sulla sua esperienza di attrice e sul rapporto con l'arte, toccano un concetto universale: l'arte come strumento di salvezza. Maria non si limita più a essere una spettatrice passiva della realtà difficile di Bari Vecchia, ma prende in mano la situazione, cercando attraverso il teatro di strappare i giovani dalle maglie della criminalità.
Il laboratorio teatrale che crea diventa un simbolo della sua missione di redenzione sociale, della sua capacità di vedere oltre le circostanze e di offrire agli altri una via d’uscita. L'arte, per Maria, diventa il mezzo attraverso il quale trasforma il dolore in speranza, l’oppressione in possibilità di rinascita. È qui che vediamo una Maria più consapevole del proprio potere, non solo come futura madre, ma come figura di riferimento per una comunità smarrita. Tale evoluzione non è priva di pericoli, come racconta Federica Torchetti, Maria rischierà la propria vita per difendere i suoi ideali, dimostrando che il cammino verso la libertà personale e collettiva è sempre arduo e incerto.
Questa maturazione trova eco anche nel rapporto con il padre, che da conflittuale si evolve in un dialogo profondo e rispettoso. È interessante notare come questa dinamica familiare rifletta il percorso di crescita del personaggio stesso: la riconciliazione con il padre simboleggia anche una pacificazione interiore di Maria, che trova finalmente una stabilità emotiva in mezzo a tanto caos.
Federica Torchetti stessa, come rivela nell'intervista, sembra trovare in Maria dei riflessi del suo percorso personale. Da giovane incerta e confusa, anche lei ha affrontato un cammino di trasformazione, superando momenti di solitudine e incertezza fino a diventare consapevole del proprio valore e delle proprie responsabilità. La recitazione, come confida, è stata per lei uno strumento di autoterapia, un mezzo per fare chiarezza nelle proprie emozioni e fragilità. Il parallelismo tra attrice e personaggio rende ancora più intensa la sua interpretazione, perché in Maria c’è una parte di Federica Torchetti, una giovane donna che ha imparato a fronteggiare le proprie paure e a crescere attraverso di esse.
In conclusione, Maria De Santis incarna la resilienza e la trasformazione, in un contesto difficile come quello di Bari Vecchia. Il suo viaggio non è solo quello di una donna in attesa di un figlio, ma di un'anima che cerca di liberarsi dalle catene della criminalità e dell’oppressione, attraverso l’amore, la solidarietà e l’arte. In questo, Federica Torchetti ci consegna un’interpretazione che va oltre il semplice ruolo, riuscendo a trasmettere la complessità emotiva di una donna che lotta per la sua libertà e quella degli altri.
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Intervista esclusiva a Federica Torchetti
“La prima stagione di Storia di una famiglia perbene termina con Michele portato in carcere e Maria ovviamente addolorata”, esordisce Federica Torchetti quando le chiediamo che cosa dobbiamo attenderci dal suo personaggio nella seconda stagione dell’amata e attesa serie tv di Canale 5. “Le nuove puntate si aprono con una sorpresa: Maria è incinta, porta in grembo il frutto dell’amore impossibile con Michele ed è sicuramente cresciuta rispetto al passato. È più donna, non solo per la maternità ma anche perché si troverà ad affrontare alcuni episodi spiacevoli che la porranno davanti a scelte complicate”.
“Il prendere in mano la situazione anche dell’interno della famiglia le farà perdere quell’aurea da ragazzina che aveva prima”, continua Federica Torchetti. “Cambia inevitabilmente anche il rapporto con il padre, un elemento che mi piace sottolineare. Mentre nella prima stagione, il loro rapporto era conflittuale e quasi senza dialogo, nella seconda diventa più solido con i due che trovano un punto d’incontro molto bello”.
Storia di una famiglia perbene 2: Le foto
1 / 37In più, l’arte entra nella sua vita in maniera preponderante.
Già nella prima stagione, Maria era attiva nel sociale per aver fatto volontariato presso delle associazioni. Nelle nuove puntate, la vedremo invece creare una sorta di patto sociale per sottrarre dei ragazzini alla malavita e cercare di far trovare loro degli interessi che non siano semplicemente quelli della strada. Sarà così che sarà attorniata da tanti ragazzi anche molto giovani che, nella Bari vecchia degli anni Novanta, sono stati abbandonati dalle famiglie per vari motivi cercando di emanciparsi anche attraverso di loro. Portavoce di come l’arte possa essere salvifica, aprirà una sorta di laboratorio teatrale che accenderà ulteriormente lo scontro con Angelica Straziota.
Per uno strano caso di coincidenze, l’arte torna anche nella miniserie Mike, in onda prossimamente su Rai 1, in cui interpreti Rosalia Maresca, la prima moglie italoamericana di Bongiorno, una cantante lirica. Ciò porta dunque a chiederti cos’è l’arte per te?
Nel corso degli anni, il mio concetto di arte è molto cambiato. Quando ero una bambina, l’arte era semplicemente il guardare un dipinto, l’assistere a uno spettacolo dal vivo o guardare un film. Oggi, a 29 anni, l’arte è invece qualcosa di diverso: è il mio lavoro (l’ho scelto e mi piace proprio perché è una forma d’arte) ma riesco a trovare dell’arte anche per strada, nelle persone e in ciò che vedo quando riesco a osservare con attenzione quello che mi circonda.
L’arte, dunque, ha assunto per me un significato molto più profondo e ne ho avuto la riprova la scorsa estate quando, in vacanza in Grecia, da un promontorio mi è capitato di osservare un bellissimo panorama. Per me, quello è stato un momento altissimo d’arte perché ho sentito crescere dentro me qualcosa che scavava in profondità.
Ti sei mai sentita salvata dalla recitazione?
Sì. Se penso a come è cominciato il mio percorso, posso tranquillamente dire che la recitazione mi ha salvata. Ho iniziato a recitare a 15 anni quando non avevo nemmeno le idee chiare su cosa volessi fare: frequentavo il liceo a Bisceglie, sotto casa si girava un film e insieme ad altri ragazzi sono stata scelta come comparsa. Si trattava di La scelta di Michele Placido, l’ho vissuta come un gioco ma pian piano mi sono resa conto che era qualcosa in più.
Oggi, mi sento salvata dall’arte quotidianamente. Tutte le volte che devo sottopormi a un provino, che ho un callback o che devo girare, provo a fare terapia attraverso la scena e far chiarezza grazie a essa sui miei piccoli turbamenti quotidiani o sui miei ostacoli personali. Puntualmente, ogni volta che nella mia vita privata accade un evento sentimentale, familiare o comunque intimo, arriva sempre un personaggio da preparare che rispecchia in parte quei traumi che io stessa devo risolvere.
Maria è cresciuta ed è diventata donna. Quand’è stato invece il momento in cui Federica si è detta di non essere più un’adolescente?
Forse quando da Bisceglie mi sono trasferita a Roma. Ero giovanissima, avevo diciannove anni e tutto ciò che è venuto dopo ha finito ovviamente per fortificarmi. Ho vissuto i primi due anni nel panico più totale non tanto per essere passata da sola da una cittadina di 50 mila abitanti a una metropoli di tre milioni ma quanto per la confusione di non sapere cosa fare, dove andare o che scuola o università frequentare. Sono stata travolta dalla goliardia dei vent’anni, dalle uscite, dalle discoteche, dalle nuove amicizie e da nuovi punti di vista fino a quando non ho realizzato che avrei comunque voluto iscrivermi a una scuola importante.
Ed è stato quando ho iniziato a frequentare la Gian Maria Volonté che ho avvertito di essere arrivata a uno step di crescita successivo. Sono stata ammessa dopo la quarta selezione ma in maniera quasi incredibile. Prendevano solamente sei studenti ed io mi ero classificata settima, avevo perso le speranze quando un mese dopo ho ricevuto la chiamata con cui dalla scuola mi si informava di essere stata scelta grazie alla possibilità concessa dalla Regione Lazio di aggiungere un ulteriore posto in più sia per una donna sia per un uomo.
È in quel momento esatto che ho cominciato a percepirmi come donna: è cambiato improvvisamente il mio senso di responsabilità e non mi potevo più permettere di giocare. La vita mi aveva dato quella che era a tutti gli effetti un’opportunità e non potevo correre il rischio di sprecarla.
Per trasferirti, ti sei lasciate alle spalle la tua famiglia. Hai mai avuto paura della solitudine?
Sì e non credo di averla mai vinta. Penso semmai di saperla gestire attraversandola. Stare da sola è stata una grande prova e lo è tuttora: sento di essere una persona che ha bisogno della relazione con l’altro per riconoscersi e anche migliorarsi. È grazie al confronto con la famiglia, con i genitori, con il fidanzato o con gli amici che puoi specchiarti e vedere le tue fragilità, le tue paure e i tuoi traumi: è insieme che si cresce e non da soli… anche perché da soli siamo tutti bravi a illuderci di essere i migliori o che tutto vada bene.
Maria si ritrova incinta. Ovviamente, tu non sei ancora madre: come ti sei immaginata la maternità per riportarla al personaggio?
L’idea di portava in scena una donna in attesa di un bambino inizialmente mi spaventava, una paura che comunque è scomparsa pian piano quando, durante le prove per il personaggio, ho cominciato a indossare la pancia finta: dopo un po’, trovavo quasi naturale o scontato avercela. Non sono ancora madre ma ho vissuto la maternità attraverso mia sorella più piccola: un anno fa è diventata madre di una bambina e ho potuto constatare cosa comporti. Diventare madre ti cambia in parte la vita e, nel mio caso, può preoccuparmi anche per le conseguenze che può avere per la mia carriera, non nascondiamoci dietro a un dito…
Il conflitto tra famiglia e carriera è ciò che ha anche decretato la fine del matrimonio tra Rosalia Maresca e Mike Bongiorno… mentre lui amava l’idea della famiglia in senso classico, Rosalia preferiva affermarsi prima come cantante lirica.
Viveva però negli anni Cinquanta, un’epoca completamente diversa dalla nostra, in cui qualche passo in avanti si sarebbe dovuto fare. Pensare oggi che esistano le stesse paure di allora personalmente mi preoccupa: ogni tanto penso al proposito di come mi piacerebbe in futuro avere un figlio ma poi mi assalgono i dubbi… riuscirò mai a coniugare il tutto? Non lo so. Da questo punto di vista, Maria è sicuramente più coadiuvata e tutelata perché ha un’intera famiglia molto presente su cui poter contare, dalla madre alla nonna per arrivare fino all’intero quartiere e a tutta la comunità che la circonda. Per me non sarebbe la stessa cosa: non ho una famiglia geograficamente vicina e il senso di comunità nelle grandi città si è ormai perso e manca.
La tua osservazione ci porta su un altro binario: le differenze e la violenza di genere. Hai esordito, come hai ricordato, in un film sottovalutato sull’argomento come La scelta e hai poi di recente interpretato Rosaria Lopez nel film La scuola cattolica. Quanta fatica ha richiesto da donna quel personaggio?
Molta ma sia da donna sia da attrice. Quando mi hanno proposto il provino, conoscevo la storia in maniera molto superficiale per non averla anagraficamente vissuta da vicino. Nel momento in cui mi hanno comunicato di essere stata scelta per interpretare Rosaria, ho cominciato a essere insicura: non avevo così tanta consapevolezza di tutto ciò che ha comportato la vicenda e sentivo il dovere di portare il giusto rispetto a una giovane ragazza realmente esistita, picchiata, violentata e massacrata, i cui parenti sono ancora in vita.
La responsabilità era tanta ma fortunatamente il regista, Stefano Mordini, e tutta la produzione mi è stata molto d’aiuto, con una gestione che è stata quasi sacra: abbiamo girato in ordine cronologico, siamo stati nei luoghi in cui la vicenda è accaduta e abbiamo avuto cura di rispettarne le vittime. Io stessa quando si è trattato di girare la scena del massacro mi sono lasciata andare al momento e alla situazione, senza pensare troppo alla performance attoriale.
Da donna, poi, è stato veramente brutto pensare a quanto quella notte è successo. Ma è stato difficile anche entrare a contatto con la nudità richiesta: per me, era una novità… Non era ovviamente una novità il mio corpo ma la sensazione che stare nuda mi restituiva: mi sentivo come svuotata e quasi senza identità.
Che rapporto hai con il tuo corpo?
Quello col corpo è una rapporto che dipende da quanto si è self confident, da quanta sicurezza si ha con se stessi. Da adolescente, ad esempio, ero molto in conflitto con il mio corpo: non mi piacevo e non mi piacevano alcune sue parti, anche a causa del bombardamento delle immagini che i mass media o i social mi proponevano di prototipo di bellezza fisica. Ho capito solo col tempo e dalla relazione con gli altri che la bellezza non risiede nell’esteriorità ma in ciò che hai dentro, altrimenti non si spiegherebbe la fascinazione del brutto: “Non è bello ciò che è bello ma è bello ciò che piace” diceva mia nonna, una sacrosanta verità.
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La violenza di genere resta una questione spinosa. Secondo te, quale sarebbe il primo passo da attuare per far sì che quelle maledetti dati annuali sulle vittime si riducano?
Mi raffiguro il tutto come una piramide e, quindi, il punto da cui partire è sempre la base. E nella base rientrano la famiglia e il contesto scolastico: genitori e insegnanti dovrebbero svolgere la loro funzione sociale di educatori anche alla sensibilità e alla sessualità. La mia generazione ha poi il compito di tentare di lavorare il più possibile sui propri traumi passati per evitare di trasferirli ai figli: l’obiettivo è quello di creare una realtà nuova fatta di dialogo e collaborazione tra tutti, senza differenza di genere. Categorizzare non porta a molto, non ci sono vincitori e vinti: dovrebbe scendere in campo un’unica squadra coesa.
Maria crede nell’amore eterno. E Federica?
Anche. O, meglio, ci credo per metà. Non credo che due persone debbano restare insieme per sempre ma credo che il sentimento per l’altro possa sopravvivere anche nella distanza.
…e nell’amore per se stessi?
Non si può amare l’altro se non si ama prima se stessi.
Cosa si prova nel sapere di essere visti grazie al proprio lavoro da milioni di persone?
In tutti noi c’è un lato narcisistico, a maggior ragione in chi fa l’attore… mi piace l’idea che il mio lavoro venga visto ma più passa il tempo più ho imparato a sottrarmi e a lasciare spazio ai miei personaggi, grazie ai quali mi auguro di poter trasmettere o comunicare qualcosa. Mi ha colpito il tal senso la marea di messaggi che ho ricevuto dopo l’uscita di Per lanciarsi dalle stelle, il film Netflix in cui interpretavo un’adolescente alle prese con l’ansia sociale: in tanti e tante si riconoscevano nel disturbo e io mi ero fatta mediatrice di qualcosa più grande di me stessa.
Ti sei mai detta ‘brava’ nel tuo percorso professionale?
Tendo più a vedere i difetti che i pregi… C’è stata però un’occasione in cui mi sono stupita di me stessa: la presentazione al Festival di Venezia de film Mondocane. Era la mia prima volta al Lido, mi ero sempre ripromessa di andarci da spettatrice e invece mi sono ritrovata lì come protagonista di un progetto molto grande, riuscendo a cavarmela in ogni situazione e a parlare persino in pubblico.
Lì mi son detta ‘Brava!’ ma dovrei cercare di dirmelo più spesso, anche quando non ho raggiunto un obiettivo che mi ero prefissata. Sembra quasi che le due cose convivano e vadano di pari passo quando invece si impara tantissimo anche dalle sconfitte e dai no. Il mito dell’obiettivo da raggiungere è ciò che poi porta a non stare psicologicamente bene, come se non farcela ti facesse perdere identità gettando le basi di una sorta di depressione dell’emozione e dei sentimenti che porta ad annullarti.